venerdì 24 aprile 2015

Un'avventura della libertà

Cercando (e trovando, vedi sotto) in rete Sobibór, 14 octobre 1943, 16 heures di Claude Lanzmann, che in Italia non è mai uscito, mi son ricordato di questo testo. Me lo aveva chiesto un quotidiano, per il 25 aprile di 10 anni fa.
Anzitutto il volto di un uomo, sulla sessantina. Poi, fuori campo, una voce chiede: “Signor Lerner, aveva già ucciso, prima?”. E Yehuda Lerner risponde: “No, non avevo mai ucciso nessuno”. La cinepresa fissa il suo volto. Che sorride. Se mai c’è qualcosa di vero nel luogo comune di quel che si dice un “sorriso enigmatico”, questa verità deve trovarsi nelle pieghe del sorriso di Lerner. Il film è Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures. È un’unica, lunga testimonianza raccolta da Claude Lanzmann. Sobibor era un campo di sterminio. Vi finirono 250.000 ebrei. Un giorno, guidati dall’ufficiale ebreo russo Alexander Petchersky, i prigionieri si ribellarono. Lerner era appena un ragazzino: con un’accetta, tagliò in due il cranio di un nazista. “Lei sta impallidendo, signor Lerner.” “È normale impallidire, quando si ricordano cose simili.” La Resistenza passa attraverso “l’esercizio effettivo della violenza”, che secondo Lanzmann “richiede due precondizioni indissociabili: una disposizione psicologica e una conoscenza tecnica”.
    Nell’attesa (della disposizione psicologica, della conoscenza tecnica, dell’accetta), si può cominciare a resistere da soli. Anzitutto sopravvivendo per cinque anni interi, quando si è un pianista ebreo naufrago nella Varsavia occupata; nutrendosi di quel che capita. Obbligando la mente a non dimenticare la manciata di note di un notturno di Chopin, tra le scariche di mitra e le bombe, nel Pianista di Polanski. Si può resistere burocraticamente: a Schindler è bastato spostare da una lista all’altra mille nomi per salvare altrettante vite. È grazie a lui che Spielberg ha potuto farci vedere mezzo secolo dopo i veri sopravvissuti. Si può resistere tacendo, nel Silenzio del mare di Melville, come fanno un padre e sua figlia, lasciando l’ufficiale tedesco intrappolarsi nelle contraddizioni del suo monologo, e suggerendogli in extremis la rivolta nelle parole impronunciate di Anatole France: “È bello che un soldato disobbedisca a ordini criminali”.
    C’è poi la resistenza organizzata, partigiana, armata: quella ad esempio di Paisà di Rossellini; del post 8 settembre, da Tutti a casa di Comencini al Partigiano Johnny adattato da Guido Chiesa. E il suo ricordo, crepuscolare e spietato, nello splendido L’armata degli eroi di Melville: titolo italiano assurdo, per l’originale L’Armée des ombres. O ne I nostri anni di Daniele Gaglianone. Si resiste fermando Il treno di Frankenheimer, per salvare Monet e Cézanne. O cercando di non perdere L’ultimo metrò di Truffaut. “Essere o non essere”: anche ridendo, per il Lubitsch di Vogliamo vivere, “that is the question”: e il monologo di Amleto, infatti, contiene messaggi in codice per la Resistenza.
    C’è infine la rivolta di massa, popolare. Le città resistenti, da Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy alla Praga ricostruita a Hollywood in Anche i boia muoiono di Fritz Lang (e Brecht); dalla fantasticata e borgesiana Tara de La strategia del ragno di Bertolucci a Roma, città aperta, che fu insieme film su e di Resistenza. Girato in condizioni avventurose nelle strade della città, l’opera di Rossellini è anche un gesto di autocritica linguistica (il regista aveva realizzato opere di propaganda), le cui conseguenze, nella storia del cinema, sono ancora visibili.
    Lerner: “Sono entrato nella foresta e a questo punto credo che l’emozione per tutto quel che mi era successo, la fatica, la notte… le gambe non mi reggevano più, e sono crollato. Sono caduto e mi sono addormentato”. E in Sobibor Lanzmann si concede un commento personale, che mai si era permesso nelle nove ore del suo Shoah: “Fermiamoci qui. È troppo bello quando dice che è crollato nella foresta. Il seguito è un’avventura della libertà”.

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