sabato 21 settembre 2019

Tarantino/Kubrick (note sparse su "C'era una volta a… Hollywood")

Visto Once Upon a Time in… Hollywood di Quentin Tarantino, prima reazione a caldo.
Mi viene in mente il paragone con l'altro "grosso grasso capolavorone" dell'estate, Parasite di Joon-ho Bong. Passata la sorpresa spiazzante di Memories of Murder e The Host, in cui i cambiamenti continui di tono e i tempi imprevedibili del racconto potevano sembrare felicissimi e geniali tentennamenti, appare chiaro oggi che si trattava di controllo sovrano, che si dispiega in Parasite per il nostro piacere sempre rinnovato, in cui le contraddizioni del "film di famiglia svitatella" da L'eterna illusione di Frank Capra a Non aprite quella porta di Tobe Hooper passando per i Passaguai o per tanti film con Totò e magari il fu Delle Piane figlio, si susseguono autoannullandosi e sempre squisitamente leggibili da tutti, assieme a organizzazioni dello spazio degne di tesi di dottorato tardive di un Rohmer e alla loro corrispondenza politica, come nel "cinema di metafora" anni 70, il tutto imprevedibile, controllatissimo, "moderno", in una parola: perfetto.
Il film di Tarantino non è perfetto, come non è perfetta la sua opera. Siccome in Italia esce solo domani, la scusa nobile del "no spoiler" mi esime dal precisare in che modo non è perfetto, ma noto che anche in questo caso colpisce la struttura infantile o per meglio dire primitiva "a blocchi", direttamente ereditata da Kubrick, regista di cui si tramanda un'errata idea di "perfezione" quando in realtà era un giocatore d'azzardo. Ancora una volta, Tarantino gioca d'azzardo, alla roulette punta su un numero singolo, mentre Bong (volendo proseguire il paragone del tutto privato, me ne rendo conto) punta sul rosso (in Corea) e sul nero (nel mondo) al contempo e a rischio zero. Bong vince due volte, forse un po' barando; Kubrick e Tarantino fanno cinema.


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Alla fine di 2001: Odissea nello spazio Dave Bowman (Keir Dullea) accede a una nuova dimensione della propria esistenza entrando in un luminosissimo appartamento che entità aliene hanno creato a immagine e somiglianza del suo inquilino, un appartamento che aspettava solo la sua inevitabile presenza.
Alla fine di C'era una volta a… Hollywood Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) accede a una nuova dimensione della propria non-esistenza entrando nel buio di una "mansion" popolata da esseri viventi per pura finzione, una mansion che non si è mai aspettata e mai si aspetterà l'impossibile presenza di Rick Dalton.



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[Su facebook mi si fa notare "la scena del ranch dove le ragazze sembrano gli uccelli (bird in slang è proprio la pollastrella) di Hitchcock"]

Agli Uccelli ho pensato anche in altri momenti del film, l'apparizione puntuale delle ragazze, le scene con Sharon Tate, sono anche promesse fatte da Tarantino allo spettatore, "Sì sì, tranquilli, lo so che siete venuti per questo": proprio come in Hitchcock per la prima metà del film. E proprio all'inizio della nottata finale in televisione un annunciatore: "E ora il momento che stavate tutti aspettando!". Nella scena del ranch c'è anche molto dell'horror anni Settanta, i primi Craven, Tobe Hooper, Romero, Carpenter. Tutto un cinema che comunque proprio agli Uccelli deve molto, in particolare La notte dei morti viventi (si dice che un giovanissimo Romero portasse i caffè sul set di Hitchcock). In generale mi pare che Di Caprio copra il cinema di fine Cinquanta, Sessanta, e che nella sequenza "western-amletica" prefiguri la recitazione che verrà nell'immediato futuro, quella di un Al Pacino chiamato ad attestarne la realtà e al contempo a nasconderla in due scene interpretate a contropelo, quasi sottotono. Brad Pitt invece sembra portarsi appresso, del tutto ignaro, un cinema ancora più lontano nell'avvenire, più brutale, appunto quello dell'horror di qualche anno più avanti: ma non dimentichiamo che La notte di Romero era comunque uscita un anno prima e che Gli uccelli sono del 1963.

venerdì 20 settembre 2019

giovedì 5 settembre 2019

The Dead Don't Die (Jim Jarmusch, 2019)

The Dead Don't Die, dato il tema e il cast francamente obeso, era prevedibilmente inutile, forse divertito e di certo poco divertente. La visione conferma le magre aspettative, anche se il film si rivela meno irritante di Only Lovers Left Alive, altra incursione in chiave languido-poeticistica nel genere horror, che al nostro sembra interessare poco o nulla, come sembra interessargli poco o nulla da un ventennio qualsiasi cosa faccia. Questo menefreghismo lo spaccia per sprezzatura, e in alcune scene, per esempio di Paterson, la truffa sembra quasi funzionare. Nulla da obiettare in particolare (salvo i folli e inerti riferimenti metafilmici, Adam Driver cui "Jim" ha dato da leggere "l'intero copione" mentre il povero Bill Murray ha avuto accesso solo alle sue scene, simili sciocchezze e strizzatine d'occhio costellano tutto il film, sono sempre state una pessima idea, almeno in Mezzogiorno di fuoco Mel Brooks le raggruppava tutte nel trascurabile finale). Il film non è irrispettoso nei confronti dei suoi predecessori, anzi. Solo che essi lo spiaccicano senza pietà. O meglio: lo spettatore assiste leggermente sbigottito allo spettacolo di un regista che si stende in mezzo all'autostrada facendosi travolgere da una teoria di autotreni, da quello targato Twin Peaks a quello che trasporta "trilogia di Romero" e lo spin-off Diary of the Dead, dalle finte e geniali parodie Shaun of the Dead e The Battery alla Pussy Wagon che trasporta The Bride Uma Thurman e già che ci siamo anche Michonne di The Walking Dead, se abbiamo Tilda Swinton non facciamoci mancare nulla, anzi no, improvvisamente arriva un'astronave e se la porta via, sembra un po' il sogno da fantascienza depressa de L'uomo che non c'era e un po' quello di un uomo che dorme senza sognare nulla, un uomo felice, a suo modo felice. Tutti doviziosamente omaggiati, quasi tutti ricordati nei titoli di coda, ringraziati, venerati, anche forse un po' disprezzati, come forse è un po' disprezzato lo spettatore, ma sempre con tanto affetto "molto molto" newyorchese.

The Dead Don't Die rivela una certa verità del cinema di Jarmusch, che da giovane era stato allievo e amico di un Nicholas Ray ormai abbastanza impazzito. In fondo Jarmusch è la versione contemporanea e pop di Louis Malle, che abbandonò da giovane una carriera abbastanza promettente di documentarista per darsi al "cinema d'autore", stando sempre bene attento a non turbare nessuno, a cogliere le idee più originali e innovative quando esse erano diventate perfettamente identificabili, decifrabili, accettabili, in una parola "culturali".

NOTA

Molti film di Jarmusch non sono esattamente pallosi. È abbastanza palloso Stranger Than Paradise, tutta la parte di Down by Law con il solo Benigni lasciato incontrollato è pallosissima, come pallosissimi sono Mystery Train (tranne forse l'episodio giapo) e aiutami a dire Night on Earth, è alla lunga palloso l'Indiano che spiega le cose in Dead Man, certe inquadrature dall'alto con filo a piombo ripetute con pigro compiacimento in Only Lovers Left Alive, qui la gag su "Sarà stato un animale, o forse tanti animali", forca caudina sotto la quale devono passare prima Murray, poi Driver, infine Sevigny, quando arriva Sevigny già lo sai che deve dire quella cosa là e che tu dovrai ridere, quindi subisci due minuti, due minuti al cinema possono essere un'eternità, e quell'eternità non produce nulla, è solo un'esperienza sfiancante, finché lei dice "Sarà stato un animale" ecc. e non ridi, e quel tuo non ridere a sua volta non cambia nulla della tua esistenza, né è grave che lo faccia o meno, stai solo subendo il tutto mentre qua e là cogli qualche lacerto di bellezza comunque compreso nel prezzo, per esempio Adam Driver per ora continua a essere un corpaccione singolare, ma è merito credo abbastanza naturale di Adam Driver e del suo singolare corpaccione, va bene anche se a riprenderlo è Alan Smithee. È quello il problema, che spesso quello che ci piace in Jarmusch ci sarebbe piaciuto comunque, anche senza Jarmusch.