Decideva di pensare ad altro. Quando non gli era facile brontolava poesie come: "Presso la culla in dolce atto d'amore," era questo un verso dei suoi preferiti in quanto non gli era mai capitato di ricordarne il seguito a cominciare già dal secondo. Allora ripeteva tante volte il primo, ora piano, ora gridando come un ossesso, infuriando contro gli oggetti, libri, quaderni, seggiole, fino a distruggere l'intera stanza.
Appena sicuro di aver perduto ormai ogni traccia di ragionevolezza, tornava in sé e si prodigava a riparare i danni come meglio poteva.
Era fornitissimo in attrezzi, nastri isolanti, mastice, anche per porcellane. Si metteva al lavoro fino a sera. Durante questa seconda fatica, rimasticava ancora qualche verso, preferibilmente uno della stessa lirica che prima lo aveva sconvolto e stavolta sempre l'ultimo in modo che non c'era un seguito da ricordare, ma pace, una certa soddisfazione, come l'avesse detta tutta a memoria d'un fiato.
Perciò riparava i mobili e raccattava i libri e i cocci ripetendosi "avrai riposo." Sempre durante questa sua operazione di restauro, gli sembrava che suo padre fosse lì a consigliarlo e lui approvava monotono finché non si pestava un dito col martello e allora gridava: "parole sante!"
Quanto tutto era in ordine, lavava il pavimento. Poi si vestiva di tutto punto e usciva dalla cucina tirandosi dietro l'uscio. Si precipitava nella legnaia giù nel cortile e, ricavatone un paio di stampelle, risaliva le scale, rientrando agilissimo sui legni, ma per l'ingresso principale. Traversava l'anticamera e, una volta sulla soglia della sua stanza da lui riordinata, sostava soddisfatto sulle grucce, scandendo forte in tono di incoraggiamento, forte perché una intera fabbrica lo udisse: "Bene bene bene!" Quindi enfatico si avviava al balcone schiarendosi la voce e sorridendo ai lati. Alla balaustrata, guardando giù, vedeva ora tanta gente ora nessuno. Doveva fare un discorso. Era combattuto, non già dal panico, ma dalla voglia di buttarsi di sotto. Questa tentazione gli era diventata un tic. Aveva risolto di difendersene razionalizzando la frequenza delle sue relazioni pubbliche, senza peraltro ridurla. Profittando di una pausa e liberatosi dalle grucce, si sottraeva al balcone, guadagnandosi per quell'affresco di scala la terrazza comunque nella apprensione dell'eccesso di quella pausa. Una volta al parapetto, si ascoltava come un oratore dotato di più metodo, o confortato dal principio che di lassù poteva concepirsi unicamente un suicidio di massa. E il suo porgere rinunciava alla lirica per assumere in contraccambio il tono più minuto dell'analisi, certamente al riparo dalle possibilità sintetiche del primo piano. Di lassù poteva raccontare e diffondere tutto quanto non pagato di persona, e tuttavia sviscerato, non oggetto di qualsivoglia psicosi. Suonava l'angelus e le folle non intendevano rincasare per una sola parola in più di lui. E allora cominciava una specie di rosario gentile. Lui diceva umilmente: "buona sera," e quella folla di rimando a lui, essa pure umilmente: "buona sera." Doveva sempre abbandonare quel rosario a un certo mistero poiché la commozione lo obbligava, col pretesto di mettersi in ginocchio, a sottrarsi al parapetto. E sempre ch'era notte.
Si calava giù per quell'abbozzo di scala in preda a un terrore ordinario, per cui si ripeteva ad ogni ostacolo: "Non son degno, non son degno!"
Entrò in cucina e stava per affrontare l'anticamera, ma lo sguardo gli urtò nel calendario appeso all'angolo, un calendario ecclesiastico davvero aggiornato. Il cuore gli prese a correre perché non c'erano dubbi, era quello il giorno in cui i vescovi avrebbero dovuto riunirsi proprio in casa sua, per decidere la sua santità. Lo confermavano le voci concitate e il fruscio delle vesti, tutto l'oro dei paramenti e il rosso sfolgorante dentro il telaio della porta di fondo chiusa, oppure incastonato come un diamante e un topazio e un rubino incastonati nella toppa vuota. Evidentemente quei dottori non avevano chiuso a chiave, sapevano che lui non avrebbe osato entrare in camera di concilio.
"Sono secoli che aspetto, meglio aspettare anche un anno in cucina, se no chissà quando se ne riparla," ecco presso a poco quel che avrebbe pensato un altro in quel frangente.
L'esperimento era delicato. I santi erano sempre tutti morti allorché se ne esaminava la grazia, lui invece era vivo più che mai. Se non altro il pudore di assentarsi in quella occasione. Per pudore almeno, avrebbe dovuto farlo.
Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, in Opere, Bompiani, Milano 2002, pp. 71-73.
Appena sicuro di aver perduto ormai ogni traccia di ragionevolezza, tornava in sé e si prodigava a riparare i danni come meglio poteva.
Era fornitissimo in attrezzi, nastri isolanti, mastice, anche per porcellane. Si metteva al lavoro fino a sera. Durante questa seconda fatica, rimasticava ancora qualche verso, preferibilmente uno della stessa lirica che prima lo aveva sconvolto e stavolta sempre l'ultimo in modo che non c'era un seguito da ricordare, ma pace, una certa soddisfazione, come l'avesse detta tutta a memoria d'un fiato.
Perciò riparava i mobili e raccattava i libri e i cocci ripetendosi "avrai riposo." Sempre durante questa sua operazione di restauro, gli sembrava che suo padre fosse lì a consigliarlo e lui approvava monotono finché non si pestava un dito col martello e allora gridava: "parole sante!"
Quanto tutto era in ordine, lavava il pavimento. Poi si vestiva di tutto punto e usciva dalla cucina tirandosi dietro l'uscio. Si precipitava nella legnaia giù nel cortile e, ricavatone un paio di stampelle, risaliva le scale, rientrando agilissimo sui legni, ma per l'ingresso principale. Traversava l'anticamera e, una volta sulla soglia della sua stanza da lui riordinata, sostava soddisfatto sulle grucce, scandendo forte in tono di incoraggiamento, forte perché una intera fabbrica lo udisse: "Bene bene bene!" Quindi enfatico si avviava al balcone schiarendosi la voce e sorridendo ai lati. Alla balaustrata, guardando giù, vedeva ora tanta gente ora nessuno. Doveva fare un discorso. Era combattuto, non già dal panico, ma dalla voglia di buttarsi di sotto. Questa tentazione gli era diventata un tic. Aveva risolto di difendersene razionalizzando la frequenza delle sue relazioni pubbliche, senza peraltro ridurla. Profittando di una pausa e liberatosi dalle grucce, si sottraeva al balcone, guadagnandosi per quell'affresco di scala la terrazza comunque nella apprensione dell'eccesso di quella pausa. Una volta al parapetto, si ascoltava come un oratore dotato di più metodo, o confortato dal principio che di lassù poteva concepirsi unicamente un suicidio di massa. E il suo porgere rinunciava alla lirica per assumere in contraccambio il tono più minuto dell'analisi, certamente al riparo dalle possibilità sintetiche del primo piano. Di lassù poteva raccontare e diffondere tutto quanto non pagato di persona, e tuttavia sviscerato, non oggetto di qualsivoglia psicosi. Suonava l'angelus e le folle non intendevano rincasare per una sola parola in più di lui. E allora cominciava una specie di rosario gentile. Lui diceva umilmente: "buona sera," e quella folla di rimando a lui, essa pure umilmente: "buona sera." Doveva sempre abbandonare quel rosario a un certo mistero poiché la commozione lo obbligava, col pretesto di mettersi in ginocchio, a sottrarsi al parapetto. E sempre ch'era notte.
Si calava giù per quell'abbozzo di scala in preda a un terrore ordinario, per cui si ripeteva ad ogni ostacolo: "Non son degno, non son degno!"
Entrò in cucina e stava per affrontare l'anticamera, ma lo sguardo gli urtò nel calendario appeso all'angolo, un calendario ecclesiastico davvero aggiornato. Il cuore gli prese a correre perché non c'erano dubbi, era quello il giorno in cui i vescovi avrebbero dovuto riunirsi proprio in casa sua, per decidere la sua santità. Lo confermavano le voci concitate e il fruscio delle vesti, tutto l'oro dei paramenti e il rosso sfolgorante dentro il telaio della porta di fondo chiusa, oppure incastonato come un diamante e un topazio e un rubino incastonati nella toppa vuota. Evidentemente quei dottori non avevano chiuso a chiave, sapevano che lui non avrebbe osato entrare in camera di concilio.
"Sono secoli che aspetto, meglio aspettare anche un anno in cucina, se no chissà quando se ne riparla," ecco presso a poco quel che avrebbe pensato un altro in quel frangente.
L'esperimento era delicato. I santi erano sempre tutti morti allorché se ne esaminava la grazia, lui invece era vivo più che mai. Se non altro il pudore di assentarsi in quella occasione. Per pudore almeno, avrebbe dovuto farlo.
Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, in Opere, Bompiani, Milano 2002, pp. 71-73.
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