Stamattina quando mi sono svegliato avevo la coscia che sanguinava copiosamente. Solo un attimo di sorpresa, poi ho capito che doveva essere legato a quando anni fa gli omofobi mi spararono alla gamba. Anche se io non sono mica gay.
Ricordo che era notte, vivevo solo perché in quel periodo avevo “problemi di coppia”. “Problemi di coppia”, insomma, ero stato mollato dalla ragazza, diciamocela tutta. Ma non rammento esattamente né quando mi avevano sparato, né dove, se nell’appartamento in cui vivevo più di dieci anni fa o in quello in cui vivo ora. È strano ricordare così poco, mi dico, non è che uno finisce sparato un giorno sì e l’altro no, è un evento importante nella vita di una persona, beccarsi una pallottola nella coscia così, per pura omofobia. Figurarsi poi se uno non è manco gay.
Dai e dai, sia pure in modo sconnesso, lo sconvolgente e insieme banalissimo passato, questo aneddoto della mia biografia si ricostruiscono. Stavo dormendo, o comunque ero a letto, con la finestra aperta. Lo sparo veniva da fuori – probabilmente un cecchino – accompagnato dall’urlo «Sale pédé!».
Io uscivo per strada con un grosso foro nella coscia zuppa di sangue, un cerchio rosso attorno e nerastro al centro, grumoso, uscivo in mutande; anzi no, in pantaloncini (perché era estate? perché non soffro il freddo? perché nella fretta non avevo trovato altro da mettermi?) e gridavo con un’isteria leggermente ottusa: «Mi hanno sparato, mi hanno sparato alla coscia!». Allora un passante mi diceva di andare a farmi curare al commissariato «del distretto», e io andavo in quel commissariato che era stranamente all’aperto, con la terra battuta al posto del pavimento o del selciato, più Armadillo di Red Dead Redemption che Parigi, e lì il capo della polizia mi diceva di chiedere del dottor Tizio (ho dimenticato il nome), uno bravo, «coscienzioso», e di evitare il dottor Caio, poco serio. Trovatomi davanti alla zona medica del commissariato ripetei esattamente le parole che mi aveva detto il capo della polizia: «Voglio vedere il dottor Tizio! Quello serio! Quello “coscienzioso”! No Caio!». Però di mio aggiungevo: «E deve darmi tutte le medicine buone! Tutte me le deve dare, le medicine buone!». Per “medicine buone” intendevo roba da bere, sciroppi, cose così. Perché all’epoca ero (sono?) alcolizzato fradicio, penso solo a bere, per ubriacarmi mi bevo qualsiasi cosa, pure gli sciroppi per la tosse, me li tracanno tutti d’un fiato, persino la coscia maciullata da un cecchino omofobo non deve privarmi dell’occasione di procacciarmi qualche bottiglietta, e se la paga il contribuente meglio mi sento, anzi non me ne frega assolutamente niente.
A quel punto mi rendo conto che la strana storia da me vissuta anni addietro l’avevo poi letta in un romanzo di Houellebecq, Collision. Houellebecq mi piace moltissimo, e tra tutti i suoi libri Collision è proprio quello che preferisco. Prendo il kindle e vado al cercaparole, ma non so bene che parola cercare. Non so se provo con il nome del capo della polizia o con quello (vero) del dottor Tizio, sta di fatto che trovo subito il passo in questione e lì c’è tutta la storia del mio incidente, come se l’avessi scritta io, paro paro copincollata: ma da cosa? forse l’avevo raccontata in passato? E dove? in rete? magari nel “mio blog”?
Che storia incredibile. O forse no, forse è normale. Si sa che Houellebecq attinge moltissimo dalle vite e dai racconti degli altri, e soprattutto dalla mia vita. Non solo dalla mia vita, ma soprattutto dalla mia vita. Però stavolta ho la prova, sta qua sul kindle, devo andare subito a mostrarla a Raffaele Alberto Ventura!
Manco a farlo apposta, Ventura è andato a vivere proprio nel palazzo in cui mi avevano sparato, quando vivevo al quinto e ultimo piano. Lui ora abita al quarto. Un grande finestrone interamente ricoperto di canne, sembra uno di quei film di Fuller anni Cinquanta, un rettangolo da La casa di bambù, e tutt’intorno il grigio triste un po’ celiniano da edificio popolare dell’undicesimo arrondissement. Ma in realtà non stona. Io mi metto a sbraitare da sotto: «Ventura!», e poi: «Raffaele! Rafè!», ma sbraito timidamente, perché temo la moglie di Ventura, peraltro bella ragazza e neppure antipatica, anzi, solo un tantino, come dire, austera, una di quelle che ci tiene a non fare scene, a evitare le napoletanate, tipo l’amico avvinazzato che urla il nome del marito dal cortile. Comunque si limita ad azionare dall’alto qualcosa che fa il rumore di una porta che si apre, sembra il portone, anche se non ha molto senso, dato che sono già in cortile, e poi io mica voglio salire, voglio che scenda Ventura. Bella ragazza, in ogni caso, e poi non mi ha sgridato, Ventura non ha chiaramente “problemi di coppia”, almeno per ora. Una ragazza, un figlio piccolo, nessun problema.
Poi Ventura scende, sorridente e gentile, e parliamo un po’ in cortile attorno a un tavolo con sopra varie cose un po’ in disordine che ora non saprei dire precisamente cosa fossero ma che evocano spensieratezza, disinvoltura e mite primavera. Gli dico che sto per rivelargli una cosa abbastanza pazzesca, tiro fuori il kindle, forse gli leggo pure il passo di «Collision», ma poco dopo Ventura si lava i denti e io rimango stupefatto dall’ennesima coincidenza, perché lo spazzolino che usa è un Oral-B elettrico, preciso il mio. Ventura e io usiamo lo stesso spazzolino! Cioè, non lo stesso, ciascuno il suo, ma è pur sempre lo stesso identico modello Oral-B! Incredibile! Sto per dirglielo, non riesco a trattenermi, sebbene sia sopraffatto dalla vergogna, perché Ventura è un intellettuale serio, e che figura ci faccio se mi metto a delirare sul fatto che usiamo lo stesso spazzolino, è ridicolo, assolutamente patetico, eppure è più forte di me, sento che devo farlo quando in extremis la buona sorte mi soccorre: in realtà quello di Ventura è uno spazzolino Colgate “a mano”, è solo che lui lo agita in modo talmente veloce e sicuro da farlo sembrare un Oral-B elettrico.
A quel punto torno a guardare il finestrone fulleriano del quarto piano. Pensa, un tempo lì ci viveva quella signora… quella pazza che non sopportava i… le… No, ecco, ora ricordo. Era una che cucinava SEMPRE. Cucinava ventiquattr’ore su ventiquattro, dall’alba al tramonto, dal tramonto all’alba, sempre lì a spignattare, compulsivamente ai fornelli. E cucinava piatti dall’odore pesante, spesso. Non dormiva mai?
No, non è vero. La cuoca matta abitava al terzo piano, non al quarto. Al quarto ci stava l’orrore. Quella famiglia di africani, numerosissima… I sacchi di riso da dieci chili… Blatte dappertutto… Quasi quasi glielo dico, al Ventura, chi ci abitava, lì, prima di lui. Così, per pura cattiveria. Così impara. Ma impara cosa? E perché, poi? È tutto senza senso. Infatti subito dopo penso ad altro: quanto sarà grande, quell’appartamento? Cinquantaquattro metri quadri. Nulla di miserabile, a Parigi le dimensioni non sono quelle italiane, ma prima o poi, con tutto che il figlio piccolo in qualche modo crescerà, magari Ventura cercherà qualcosa di appena più grande. Magari posso vendergli il mio nuovo appartamento. Glielo faccio notare, che male c’è, a provarci così, in modo informale, ma Ventura mi risponde: «Eh, sai, al momento non so ancora cosa mi succederà, c’è sempre aperta quella possibilità di tappaParma», lo ripete un’altra volta, «tappaParma», che è una chiara contrazione di «tappa a Parma», in confidenza noi ci parliamo così, perché ambedue sappiamo bene che prima o poi Ventura potrebbe (o vorrebbe? o dovrebbe?) tornare a Parma. Perché Ventura ci è nato, a Parma.
venerdì 19 aprile 2019
Collision
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