Non è che nei film americani la gente non morisse. Moriva male, in campo lungo, e il pubblico quasi non si rendeva conto dell’idea della morte. La morte, invece, deve rappresentare una reale paura, e può farlo soltanto attraverso l’evidenza fisica. Il personaggio che muore deve urlare, lo sparo deve essere amplificato, si deve vedere il sangue, si deve capire il danno provocato da un foro di pallottola.
Sergio Leone in un’intervista concessa a Francesco Mininni, autore di Sergio Leone (Edizione “Il Castoro”).
“La carne è triste, ahimé! e a parte La corazzata Potëmkin ho visto tutti i film” pensa il malinconico cinefago mentre scorre sconsolato il programma televisivo della serata, gli scaffali un tempo ricolmi di VHS ora sostituite da DVD e DivX. Potrebbe leggere un libro, o uscire a farsi una pizza con gli amici. Troppo tardi, il suo stato non glielo permette. Perché a scanso di equivoci, la cinefagia può essere anche una degenerazione dell’antica e più sana cinefilia, un’obesa passione per lo schermo in sé. Cinematografico prima, quindi televisivo, infine — al di là, oltre i film stessi — informatico. Internet è l’ultima sala d’attesa. Il sito www.cinemorgue.com è il capolinea, la morfina del cinefago.
“Cinemorgue” è un sito interamente dedicato alla morte. La homepage è leggerissima. Due piccoli fotogrammi, uno di Kim Basinger, uno di Heather Graham (almeno era così fino a un paio d’anni fa, come vedremo più avanti, ora al posto della Graham c’è Michael Moriarty). Morte. Quindi 26 link: le lettere dell’alfabeto. Schedate per cognome, liste di attrici. Più di 5000 nomi. E per ogni attrice, una nuova pagina, con i titoli dei film in cui è morta, il nome del personaggio interpretato, le modalità del decesso, e un’immagine cruenta formato fototessera a mo’ di reperto probatorio.
Alcune attrici sembrano specializzate nella parte, la storia cimiteriale del cinema è fatta di stellette in formalina. Ad esempio Sybil Danning, procace diva del B-movie, caratterista del trapasso. Risulta ammazzata a 15 riprese: con un colpo di pistola ne La dama rossa uccide sette volte e ne Il giorno del cobra, con un’esplosione nei Magnifici sette dello spazio e nel sesto episodio della serie televisiva Visitors, con un pugnale ne L’ululato II e ne I sette magnifici gladiatori. Eccetera. In Kill Castro le cose si complicano. L’autore del sito si distingue per la precisione clinica, anche il becchino ha la sua deontologia: “Uccisa fuori campo (metodo esatto oscuro, probabilmente strangolata) durante una lotta con Marie-Louise Gassen. Vediamo solo l’inizio del combattimento, poi c’è un taglio di montaggio; quando torna la scena, vediamo Sybil riversa sulle scale mentre Marie-Louise fugge”. E dato che oltre alla Corazzata Potëmkin restano pur sempre alcuni film non visti, quando necessario l’autore non manca di confessare la propria ignoranza, con il verbo “reported”: in Nero veneziano, ad esempio, Olga Karlatos “muore per infarto secondo quanto riferito”. Segue il ringraziamento a chi gli ha fornito l’informazione, la “dritta” funebre: Highlander, David31, Germboygel, TravellingMan, Big O. Oppure si lancia in deduzioni azzardate: in tre versioni diverse di Anna Karenina, ad esempio, Sophie Marceau, Jacqueline Bisset e Claire Bloom si suicidano buttandosi sotto le ruote di un treno. E ogni volta, segue una parentesi: “Non ho visto questa versione, ma conosco la storia”. (Per la versione con Greta Garbo non c’è nessuna parentesi: sarà da quel film o dal romanzo di Tolstoj che Cinemorgue trae le proprie conclusioni ferroviarie?)
C’è anche un motore di ricerca, fonte di utili statistiche. L’arma da fuoco resta lo strumento più efficace: 1490 morte. Ma subito dopo ecco l’arma bianca: 888 pugnalate. E poi 478 strangolamenti, 255 roghi, 177 impiccagioni, 270 annegamenti. Il cinefago mira alla quantità, un’Ofelia non gli basta. Ne vuole 270.
Dal febbraio 2001, il sito è stato visitato più di un milione e mezzo di volte.
L’autore non ama la confusione: il sesso è una cosa, la morte un’altra, non venite a seccarlo con Eros e Thanatos, quel film deve esserselo perso. Eppure quella per la morgue, con o senza cine, è da tempo una pulsione erotica di massa, lo ricordava Guido Ceronetti: “Uno degli spettacoli per famiglie, domenicali, era, nella Parigi del secolo XIX, la visita alla Morgue, dove erano esposti in grandi vetrine in cui era fatta scorrere dell’acqua i corpi degli assassinati, dei suicidi, degli annegati della settimana. Sulle vittime nude non erano stesi dei veli. I ragazzini si divertivano ad indicare le pose oscene assunte dalle spoglie femminili” (Passeggiando in compagnia del Male inafferrabile, “La Stampa”, 23 giugno 2005). E se Matador di Almodóvar non avallasse quella menzogna chiamata “psicologia” alla base di ogni melodramma che si rispetti, il protagonista sarebbe potuto non essere un serial killer e continuare indisturbato a fare quel che vediamo all’inizio del film, ossia masturbarsi davanti a Sei donne per l’assassino di Mario Bava (Mary Arden bruciata viva, Eva Bartok defenestrata, Claude Dantes annegata, Ariana Gorini pugnalata, Lea Lander soffocata con un cuscino, Francesca Ungaro strozzata).
La finzione della morte, meglio se violenta, è un gioco che fanno tutti i bambini. Ognuno di noi ha la sua personale antologia cinematografica, dove il film ritrova il rigor mortis del fotogramma (il ragazzino che cade colpito da una pallottola, dice “Sono scivolato” e chiude gli occhi: C’era una volta in America di Sergio Leone, uno che sapeva far morire come Lumière comanda). Ma un’arte narrativa fatta solo di cuori che cessano di battere è una visione tautologica, più che riduttiva. La finzione sbocca sempre nella morte, è il suo destino, anche quando “vissero felici e contenti”. “E dopo cosa succede?” è la classica reazione puerile quando si chiude un libro o si riaccendono le luci in sala. La risposta la si scopre da grandi: “Non succede niente”. “The End” non vuol dire altro. (E forse la scomparsa della scritta da trent’anni, sostituita da interminabili titoli di coda, e la passione per serial televisivi che si protraggono per decenni sono sintomi di un infantilismo collettivo.) Così infatti Macedonio Fernández, presentando il suo straordinario Museo del Romanzo della Eterna (primo romanzo bello): “Nessuno muore in lui — pur essendo egli mortale — poiché ha capito che i personaggi, gente della fantasia, muoiono con lui al concludersi del racconto: è facile sterminarlo. Compito non necessario che si assumono gli autori con il rischio di dimenticare e ripetere la morte di qualcuno, di far spirare qua e là ogni protagonista come fa il sagrestano che va spegnendo le candele alla fine della messa, per non lasciare il pesce vivo senz’acqua, il ‘personaggio’ senza romanzo”.
Chi sarà mai, l’autore di Cinemorgue? uno strutturalista impazzito, affetto da tassonomia paranoica, come i personaggi dei film di Greenaway? un serial killer virtuale, che si aggira tra le nebbie della Whitechapel informatica pronto a sguainare cyber-lame? E se è Uno, Nessuno e Centomila (o un milione e mezzo), come si comporterà al momento di esalare l’ultimo sospiro? In tal caso, forse avrà l’onestà di inserire il proprio nome nel sito, imitando la sublime ironia di Pirandello, che alla fine di quel che definiva “involontario soggiorno sulla terra” si fece portare il registro dove amici e conoscenti avrebbero apposto il loro nome, per essere il primo a firmarlo.