giovedì 24 aprile 2008

Che hai detto, scusa?

L’altra sera parlo a un amico mio di un racconto di Tommaso Landolfi, “La passeggiata”, e lui subito (Dio mi guardi dagli amici...): “Me lo fotocopi la prossima volta?”. Ora io mi domando e dico: che sulla mia fronte c’è scritto “fotocopiatrice”? Sono pigro, fuori piove, non ho voglia di uscire e meno che mai di fotocopiare: il racconto ce l’ho in un tascabile della BUR (Tommaso Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino, pp. 490-492), e quei libretti se li apri troppo c’è il rischio che ti si sfaldino. Lo trascrivo, che si fa prima, e alla fotocopiatrice vacci tu.

TOMMASO LANDOLFI
La passeggiata

La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!…
Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
— Dove le porti?
— Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per loro.
— E il mivolo, o il gobbello?
— Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall’exoasco o dall’oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l’aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio… E c’era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l’empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!…
Alla fodina ormai l’acqua da tant’anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.
— O tu?… Beh, che si fa di bello al distendino?
— Uhm, poco di bello: il padrone s’è dato piuttosto alla moatra.
Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via…
— Già, — riprese, — da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le ingordine.
— Bravo davvero il tuo padrone!
— Mah, si sa bene, quando la s’infaona…
— E qui ora che ci fai?
— Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.
— Ah, ecco; e come…
— Coi prostomi e colle molleche, — rispose pronto.
Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s’ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.
Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v’era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all’ipartia… Quanti pensieri, quante fantasie m’invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d’una volta: “Inguala!”, e via per iciche, per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch’essa ormai perso la sua virtù?…
Ah, s’era fatto tardi: sull’afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull’atropa l’atropo, sull’agrostide l’agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s’udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.
— Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l’anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni cosa per sé solo.
Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.

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