martedì 15 aprile 2008

Un risveglio


Hai mai beccato cinquecento pugni in faccia a sera? Irrita la pelle, dopo un po’.

Rocky Balboa (Sylvester Stallone) in Rocky II (Sylvester Stallone, 1979).

Ricordo che nei Blues Brothers la prima prova della band ritrovata, Jake & Elwood la danno in un localaccio di buzzurri, hanno appena il tempo di accennare un rythm'n'blues e allora capiscono perché il podio è circondato da una grata d'acciaio: serve a proteggerli dai lanci di bottiglie di birra. Allora la buttano su “Rawhide”, Elwood canta ma Jake è scazzato, fa lo sciopero dell'ugola, si limita a urlare la metà dei recitativi (head'em up! move 'em out! ride 'em in!), afferra una frusta e si diverte (si fa per dire, Belushi non ha mai riso, che io sappia, era un Keaton “Busted”, l'amico ciccio che avremmo tutti voluto avere, pace, sarà per un'altra vita) a far schizzare le cicche dalle labbra della platea coatta. Ormai coi lacrimoni agli occhi, perché i nostri son passati a “Stand By Your Man” e in fondo i cowboys dell'Illinois non sono cattivi, sono solo un po' scemi.
Insomma, il country non è il mio forte, ma mi piace anche l'inizio di Città amara con quell'attacco di chitarra che s'interrompe nella stanza di Stacy Keach, alzarsi dal letto la mattina è una faticaccia, quando la notte di cazzotti presi e di whisky incassati dura da una vita e non c'è nessuno che ti aiuti ad attraversarla, to make it through è una bell'espressione, persino infilarsi un pedalino è un'impresa, ed è proprio con Keach marcio alle prese con un pedalino che la musica riprende e si scopre che è una canzone perché stavolta c'è pure la voce di Kris Kristofferson. No, Kristofferson no! dirai tu. E invece sì, primo perché qui decido io, mica siamo in democrazia. Secondo perché tu ridi, ma Kristofferson almeno due meriti li ha. Ha una filmografia che alterna capolavori (I cancelli del cielo, Stella solitaria, Pat Garrett e Billy the Kid “director's cut”, Voglio la testa di Garcia), e film simpatici (Convoy — Trincea d'asfalto). E poi ha un fisico verosimile, nel senso che nella parte del “maschio cui nessuna femmina direbbe di no” è credibile, mentre se mi mostrano Keanu Reeves no, non ci credo, I don't buy it, come direbbero i cowboys dell'Illinois, che sono un po' scemi ma almeno non sono cattivi, in fondo.
E poi Keach esce dall'appartamento muffo, alla fine è riuscito pure a vestirsi, scende le scale, attraversa l'androne e si trova per strada (fuori c'è un sole che sembra prenderti per il culo, come si permette), e dietro di lui c'è la facciata hopperiana a mattoni rossi del palazzo. Uscire di casa è un atto di eroismo, roba da tough guys, ti spompa tutte le energie. Infatti Keach si ferma lì un attimo. Per riprender fiato e anche per chiedersi perché cazzo è uscito, prima o poi nella vita quella dannata domanda tocca farsela. Ah, già. L'allenamento in palestra. Lo sapevo che mi ero dimenticato qualcosa. Uffa. Keach si rituffa nell'androne buio, ancora la puzza di alcool e sigarette, ancora le scale, ancora l'appartamento, dove cazzo sta quella maledetta borsa coi guantoni e i calzoncini che ormai mi stanno pure stretti, where the fuck, sposta le bottiglie vuote, solleva la coperta caduta per terra, ah eccola. Ora possiamo andare. Forse. Però che bell'inizio, Fat City.



P.S.: Sì, lo vedo anch'io che la facciata non è di mattoni rossi, non sono mica cieco. Però è di mattoni rossi: “Di Benjamin Péret ammiravo la varietà dei punti di vista. Come sapeva ricreare la realtà! I ciechi, per esempio. Péret scrisse: ‘Non è forse vero che la mortadella è fatta dai ciechi?’. Accidenti, che incredibile precisione! So benissimo che i ciechi non fanno la mortadella. Però la fanno. Li si può vedere mentre la fanno” (Luis Buñuel).

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