venerdì 30 gennaio 2009

Dacci un Taglio

Questa è la segreteria telefonica del 39-65-216. Sono in casa, ma non ho voglia di parlare. Se ne avete voglia voi, lasciate un messaggio.
Don Giulio (Nanni Moretti) telefona a Saverio (Marco Messeri), ma Saverio non ha voglia di parlare ne La messa è finita (Nanni Moretti, 1985).

giovedì 29 gennaio 2009

Bistecche 6

… la madre di quei marmocchi aggrappati ai cenci, il catino smaltato dove si lava il seno, l’adolescente che fuma come un adulto, le coperte militari sui letti dei bambini, diversi bambini per letto, e l’idea che tutti hanno fame…
Jean Louis Schefer — ricordando un’immagine dei Figli della violenza (Los Olvidados, 1950) di Luis Buñuel —, L’uomo comune del cinema (traduzione di Michele Canosa), Quodlibet, Macerata 2006, p. 110.


lunedì 26 gennaio 2009

Le baccanti

Sulla terra, la vera minoranza è la minoranza dei vivi; nel film, questa minoranza di miliardi entra in guerra contro un’armata ben più potente: l’armata dei morti. Faremo questa guerra servendoci di computer, di raggi laser, di film infrarossi e di dischi ultrasensibili. Abbiamo intenzione di finirla una buona volta per tutte con il problema dell’“oltremorte” e dei mondi paralleli.
Dal soggetto di “Murmures dans des chambres lointaines”,
progetto incompiuto di Jacques Tourneur.


Venuti a deporre fiori sulla tomba del padre, Barbara e suo fratello vengono aggrediti da un uomo dall’andatura goffa e lo sguardo vacuo: solo più tardi, la persone asserragliate in un’isolata casa di campagna scopriranno che gli assedianti un po’ ebeti non sono ubriachi molesti, ma morti rinati per nutrirsi dei vivi. Invece di rivelare coraggio, intelligenza e coesione di fronte al pericolo, il gruppo (campione della società americana e forse dell’umanità) viene sterminato in una sola notte, non tanto a causa degli zombi quanto per la propria stoltezza. Girato in un bianco e nero sgranato e con movimenti di macchina a spalla, interpretato da attori non professionisti, La notte dei morti viventi (1968) continua a terrorizzare grazie a un dispositivo dalla crudeltà ineguagliata. Le approssimazioni delle riprese sono perfettamente sublimate dall’illusione di assistere a un macabro documentario. Incesto, antropofagia, matricidio e parricidio, finale tragico; i principali tabù morali e cinematografici vengono spazzati via grazie a un’invenzione catalizzatrice di pulsioni e brutalità: lo zombi. A differenza della tradizione vudù, secondo la quale lo zombi è un vivo in stato di morte apparente la cui personalità è stata annullata e sostituita dalla volontà di un padrone-burattinaio, quelli di Romero sono cadaveri-baccanti, tornati alla vita per ragioni oscure, privi di qualsiasi movente se non quello — irrazionale ma determinato — di uccidere tutti i viventi, divorandoli, lacerandone il tessuto fisico e sociale.


Nella storia del genere, il postulato dell’esistenza dopo la morte è segretamente consolatorio; Romero è uno dei pochissimi registi ad aver rappresentato l’immortalità come una condizione spaventosa, riducendo l’umano a corpo putrefatto privo di coscienza, a biologia assurda e fine a se stessa. Freud notava che “ora come in passato è estranea al nostro inconscio l’idea della nostra stessa mortalità”(1): nulla sembra più difficile che pensare quel non-luogo che è la morte in sé. Allo stesso modo, quando si considerano i classici della letteratura fantastica, la morte è certo un’avventura frequente, ma raramente il tema stesso del racconto. Per Romero, invece, nulla merita di esser guardato più a fondo, con ottusa ostinazione. Nei “living dead”, quel che conta è il secondo termine; non a caso, il primo scomparirà dai titoli originali dei seguiti. Lo pensava anche André Bazin: “La morte è uno dei rari eventi che giustifichi il termine di specificità cinematografica”(2).



In Zombi (1978) la malattia ha raggiunto livelli epidemici, gli zombi infestano città e centri commerciali. Onnipresenti e numerosissimi, i morti di Romero diventano spesso pretesto ad ampi totali dove la narrazione cede il passo al gusto diabolico di disporre cadaveri ambulanti nello spazio, o a brevi primi piani dove l’identità del volto umano si decompone in maschera di dolore famelico, tra inerzia dello sguardo vitreo e bestialità di mascelle trituranti. Il film raggiunge in quei casi vette di poesia truculenta, che determina un fantastico “stagnante” e trasforma il soprannaturale da apparizione in presenza. Troppo tardi per consolarsi con la distinzione che vorrebbe relegare il fantastico fuori campo. Ormai gli zombi sono troppi, e le loro gueules cassées hanno preso possesso dell’inquadratura.



(1) Sigmund Freud, Il perturbante, in Opere, vol. 9 - L’Io e l’Es e altri scritti (1917-1923), Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 103. Il testo prosegue con strana serenità nel descrivere il timore della morte come atavico ma destinato a venire sommerso per sempre — ossia a non “tornare” più come unheimlich — dai progressi dell’intelletto, della scienza e della pietà. Quasi un secolo dopo (il saggio di Freud fu pubblicato nel 1919) questo momento sembra ancora lontano, e il cinema non ha smesso di mostrare la paura “secondo cui il morto è diventato nemico dei sopravvissuti e mira a prenderli con sé come compagni della sua nuova esistenza” (ibid.).
(2) André Bazin, “Mort tous les après-midi”, in Qu’est-ce que le cinéma?, vol. 1, Editions du Cerf, Paris 1958, p. 68.


domenica 25 gennaio 2009

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

IV — LO SLOGGATO

Au secours.
Il 31 ottobre 1925, il comico muto Max Linder uccide la moglie diciassettenne, Jean Peters, forse consenziente.
Poi si suicida. “Aiuto” è la sua ultima parola.


Quattro spezzoni estratti da una sequenza, di cui ho omesso il controcampo. Indovina il titolo del film (e stavolta dovrai dirci anche il nome del regista) entro mercoledì e riceverai tre pokes. Fra tre giorni ripristinerò i controcampi e ti manderò solo due pokes. Venerdì il filmato sarà più lungo, ma se ci sarai batterai un solo poke.



P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui. Se non hai un account su Second Death vai a giocare su Facespook.

ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA DOMENICA 25 GENNAIO TRA LE 15.58 E LE 16.07.
LA SOLUZIONE ERA "PULSE" ("
回路", 2001), CAPOLAVORO HORROR DI KIYOSHI KUROSAWA, DA NON CONFONDERE COL PESSIMO, OMONIMO REMAKE USA. DEL 2006.
RINGRAZIO IL VINCITORE, AFASOL, DI AVERMI FORNITO GLI IDEOGRAMMI DEL TITOLO ORIGINALE (PRONUNCIA: "KAIRO"), PERMETTENDOMI DI
FIGHETTIZZARE QUESTO POST.
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 1 FEBBRAIO.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA

afasol: 8 pokes.
arcomanno: 2 pokes.

venerdì 23 gennaio 2009

Dacci un Taglio

— Non vi pare giunta l’ora di occuparci di cose serie?
— Sì, certo, ma non tutti allo stesso tempo.
Il capitano de Bœldieu (Pierre Fresnay) e il tenente Maréchal (Jean Gabin) nel lager de La grande illusione (Jean Renoir, 1937).

giovedì 22 gennaio 2009

Questione morale

Enfin le navire partit ; et les deux berges, peuplées de magasins, de chantiers et d'usines, filèrent comme deux larges rubans que l'on déroule.
Gustave Flaubert, L'Education sentimentale.






mercoledì 21 gennaio 2009

Dacci un Taglio

Il cinema, le molte volte che non è arte, scienza o giornale, si risolve in romanticherie, onde un dire vago ed esaltato, uno sconveniente metaforeggiare (quel rifarsi una vita e ricostruirsi la felicità, ultime incombenze di tutte le coppie dello schermo!), un pensare ed esprimersi al tasto. Imitiamo i direttori dei manicomi: razionalizziamoci sino a diventare crudeli; e con gli spilloni della proprietà e della purezza, si facciano scoppiare, dietro le parole vane, le cose vane.
Leo Pestelli, Parlare italiano, Longanesi, Milano 1967, pp. 44-45.

lunedì 19 gennaio 2009

La caduta di Troia

Il est vrai que Molière œuvrait dans le comique, et c'est toujours le même problème, on finit toujours par se heurter à la même difficulté, qui est que la vie, au fond, n'est pas comique.
Michel Houellebecq, La Possibilité d'une île, Fayard, Paris 2005, p. 387.

Ricordi la scena di Prendi i soldi e scappa (1969), in cui il ladruncolo Woody Allen cerca di evadere dalla prigione fabbricandosi una rivoltella di sapone che si scioglie in una montagna di schiuma quando la punta, sotto la pioggia, contro un secondino? Quasi quarant'anni dopo, Ewan McGregor e Colin Farrell fanno esattamente la stessa cosa: costruiscono due pistole artigianali nel garage, affidandosi ai ricordi d'infanzia. Solo che in Cassandra's Dream, stupidamente intitolato Sogni e delitti dai distributori italiani, la cosa non fa più ridere per niente. Come con Dark Star di Carpenter e Alien di Scott, la parodia ha anticipato il modello "serio", ma qui l'inversione cronologica è ancora più vertiginosa: dimostra che un gag prolungato tradisce un ritardo di maturità, l'insensato desiderio di restare bambini in eterno — è il segno del fascismo, e anche quello dei nostri tempi — e le conseguenze nefaste di tale desiderio.
C'è effettivamente qualcosa di inutilmente profetico, nel gioiellino foggiato da Woody Allen un anno prima del tracollo economico-finanziario. Non a caso, durante un buon terzo del film viene evocata la figura fantasmatica dello "zio d'America e della Cina", allegorica sintesi della ricchezza moderna e mondializzata. E quando lo spirito (Zeitgeist) appare in carne e ossa, come Harry Lime nel Terzo uomo, quello che vediamo è un maiale azzimato, la subumanità a immagine e somiglianza dei subprime.
La lotta di classe ridotta ai minimi termini, quindi: la coppia dei fratelli Farrell e McGregor ha sostituito le bonnes Huppert e Bonnaire de La Cérémonie (Il buio nella mente, 1995: ancora una volta, complimenti al titolo italiano). Chabrol, ma molto più furioso. Cassandra's Dream non assomiglia davvero più al Woody Allen che conoscevamo: questo processo di separazione da se stesso era in atto da un po' di tempo, con alti e bassi, e ormai mi sembra perfettamente compiuto. Il film è irriconoscibile, almeno in apparenza. Dico in apparenza, perché per gli aficionados del regista, Cassandra's Dream è attraversato da una forma di Unheimlich, che gli italiani chiamano "perturbante", sacrificando l'essenziale connotazione familiare del termine. Gli echi deliberati delle opere precedenti non sono il frutto di uno stanco autocitazionismo: la pistola di Prendi i soldi e scappa e quella fabbricata da Farrell, appunto, ma anche il pedinamento omicida di Anjelica Huston in Crimini e misfatti (una pochade, al confronto) e quello dell'uomo d'affari, o la negazione di qualsiasi rappresentazione diretta della violenza, come in Match Point. Qui è in gioco qualcosa di molto più radicale della pigra ripetizione di modelli precedenti. È come se Woody Allen ripercorresse la propria opera per rivelare che essa si è costruita su un odio viscerale del presente. E ci obbligasse a rivisitarne i luoghi, per scoprire che non vi si trovava nulla che somigliasse a un sentimento pacificato nei confronti della realtà. Era solo che questo disprezzo prodigioso si esprimeva in filigrana, come rifiuto di rappresentazione. In altri termini, ci si faceva scudo di cose piacevoli raccontate in modo piacevole, per non essere costretti a guardare impietriti cose spaventose. In Cassandra's Dream, mi sembra che Woody Allen non riesca più a distogliere lo sguardo dalla Gorgone, e che lo faccia con un certo coraggio. La Londra piccoloborghese e contemporanea diventa il rovescio della medaglia della Rockaway Beach yiddish, fantasticata in "quell'inverno del '42" di Radio Days. Meglio: il suo specchio.


Di solito, quando un film manca di ironia percepisco tale assenza come un grave difetto (preferisco Sorrisi di una notte d'estate a Sussurri e grida, per esempio). Ma le eccezioni sono troppe per confermare la regola. Quel che mi ha colpito in Cassandra's Dream è stata proprio la sensazione di trovarmi di fronte a un film perfettamente privo di ironia. Perfettamente, e anche furiosamente, perché questa sottrazione del sorriso è perseguita con un accanimento rabbioso. Forse lo preferisco a Match Point, e stavolta la contraddizione che caratterizza i due film mi sembra raggiunga un parossismo difficilmente sostenibile e trovi al contempo un proprio cupo equilibrio: da un canto, la placidità di una messinscena sovrana, perfettamente controllata; dall'altro, una collera profonda, quasi cieca, che nulla è più in grado di trattenere. I due movimenti dovrebbero essere incompatibili; qui si tengono per mano, forse aiutati dall'algido understatement del contesto "british".
Ma l'evocazione di Meduse e Cassandre non tragga in inganno: la categoria del destino è affatto estranea alla visione del mondo del regista newyorchese, e quindi alla sua visione del cinema. Anche nei suoi film meno riusciti, Woody Allen non ha mai rappresentato qualcosa in cui non credeva. Non crede nella possibilità di un senso predefinito, di un qualsivoglia cosmo, e ancor meno nella predeterminazione. In questo senso, è veramente un ateo assoluto. Crede, eventualmente, nella fortuna: ma non come possibile declinazione del destino. E nell'idea dell'opportunità, dell'occasione (quella che pare non si debba mai lasciar "sfuggire"). E nella miseria morale dilagante, al di là delle classi sociali, delle generazioni, del sesso. Quando questi tre elementi si incontrano, il risultato è Cassandra's Dream. La scena in cui Ewan McGregor incontra i genitori della fidanzata attrice è eloquente: il padre, ascoltando i progetti dementi di finanza creativa del giovanotto, confessa che anche lui, un tempo, quando era giovane e pieno di energie, se solo avesse osato, se l'occasione si fosse presentata, se fosse stato un po' più coraggioso

P.S.: Adoro che nella scena del parco (anche stavolta sotto la pioggia, ma senza più alcuna saponetta redentrice) lo spettatore capisca le vere intenzioni dello zio qualche secondo prima di McGregor e Farrell. Saper gestire così bene l'anticipazione, fare in modo che essa non produca noia e delusione, è la caratteristica di un grande artista.


domenica 18 gennaio 2009

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

III — RISOLVERE IL CASO BATTISTI E IL QUIZ DI OGGI

Potremmo usare lui, se solo ricordassimo il suo nome.


Dimmi chi è e vinci due brigadeiros.

P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui. Se non mastichi il portoghese vai a chiedere l'asilo politico in Paraguay.

DUST

ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA DOMENICA 14 GENNAIO ALLE 12.57.
LA SOLUZIONE ERA "ANTONIO DAS MORTES" ("O DRAGÃO DA MALDADE CONTRA O SANTO GUERREIRO", 1969) DI GLAUBER ROCHA. CHE TE LO DICO A FARE CHE IL VINCITORE È AFASOL?

LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 25 GENNAIO.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA

afasol: 5 brigadeiros.
arcomanno: 2 brigadeiros.

sabato 17 gennaio 2009

Dacci un Taglio

Cari pubblicitari, sono disgustato di come noi persone anziane veniamo descritte in televisione. Non siamo tutti allegri e vigorosi maniaci sessuali. Molti di noi sono individui pieni di amarezza e risentimento, che rimpiangono i bei tempi andati, quando i divertimenti erano blandi e inoffensivi. Segue una lista di parole che non voglio più sentire in televisione. Numero uno: reggipetto. Numero due: arrapato. Numero tre: gioielli di famiglia.
Nonno Abraham “Abe” Simpson scrive una lettera nella serie televisiva creata da Matt Groening I Simpson.

mercoledì 14 gennaio 2009

lunedì 12 gennaio 2009

Nel cesso nessuno può sentirti urlare

— Che roba è quella?
— Veramente non lo so.
— Non lo sai. Però la stai mangiando.
— Vedi, una volta superato il riflesso del vomito si apre tutto un mondo di possibilità alimentari.
Il topolino Remy e un topo di fogna con un escremento tra le zampe nel trailer di Ratatouille (Brad Bird e Jan Pinkava, 2007).

Camorra, boss sfugge alla cattura scappando attraverso le fogne.
www.repubblica.it, 12 gennaio 2009.


Giù per il tubo. Geniali le lumache: prese dal panico fuggono urlando. Uno stampede degno del Fiume rosso, ma a due centimetri all'ora. Pedagogia per i più piccini: flushed away, poco meno di una promessa d'avvenire, lo scolo del cesso come ultimo orizzonte. Sotto un sole artificiale a bere piscio di gatto. Tanto quel che conta è il contegno: ossia la cannuccia, l'ombrellino e l'immancabile oliva.


domenica 11 gennaio 2009

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

II — TARGETS

Vedere qualcuno nel momento in cui muore, di morte improvvisa. Questo è di per sé un motivo per rimanere attaccato allo schermo. È istruttivo, guardare un uomo colpito a morte mentre guida tranquillamente la macchina in una giornata di sole. Dimostra una verità elementare, che ogni respiro che fai ha due possibili conclusioni. E non è tutto. Comunque qui si cela una burla, un crudele sberleffo che in fondo sei disposto ad apprezzare anche se la cosa ti fa sentire un po' in colpa. Forse la vittima è un babbeo, una specie di tonto da film muto, tipicamente scalognato. Se l'è voluta, in un certo senso, per essersi lasciato riprendere dalla videocamera. Perché una volta che il nastro comincia a scorrere può finire soltanto in un modo. Questo è quanto richiede il contesto.
Don DeLillo, Underworld (traduzione di Delfina Vezzoli), Einaudi, Torino 1999, p. 166.

Ho estrapolato tre inquadrature da una sequenza, e ho tolto quel che si trovava in mezzo e la colonna audio. Indovina il titolo del film entro mercoledì e riceverai tre pallottole full metal jacket. Altrimenti aggiungo il sonoro e ti faccio secco con due sole pallottole. Poi venerdì ristabilisco l'integrità del filmato, ma mi incazzo da bestia e ti stendo con una pallottola in mezzo agli occhi.



P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui. Se non sai maneggiare il fucile e preferisci una pistola, sei un uomo morto e vai a fare da tirassegno a San Miguel.

ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA DOMENICA 11 GENNAIO ALLE 15.40.
LA SOLUZIONE ERA "DISTRETTO 13 — LE BRIGATE DELLA MORTE" ("ASSAULT ON PRECINCT 13", 1976), SECONDO E MIGLIOR FILM DI JOHN CARPENTER, ALMENO SECONDO ME. IL VINCITORE È LO SCATTANTE "AFASOL", CHE SI PIAZZA IN TESTA ALLA GRADUATORIA.

LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 18 GENNAIO.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA

afasol: 3 pallottole.
arcomanno: 2 pallottole.

lunedì 5 gennaio 2009

C'est vraiment Deguello

Alla fin fine la storia di un uomo è un po’ noiosa;
la storia di un’amicizia offre scene migliori.
Howard Hawks intervistato da Joseph Mc Bride
in Hawks on Hawks (University of California Press, 1982).


Un dollaro d'onore è pura alchimia. Anni fa, rivedendolo capii perché alcuni sostengono che John Wayne è un grande attore (su Walter Brennan e "Dude" Dean Martin già da tempo non nutrivo dubbi). Lo sanno anche i topi, ma è bene ripeterlo: è un western senza frontiera né cavalli, senza fiumi né ferrovie, senza mucche né piantagioni. Solo i segni essenziali: il dettaglio di uno sperone, due tre colpi di pistola, la stella dello sceriffo e una diligenza appena menzionata. Un’azione sostanzialmente ridotta a due luoghi: il carcere e la stanza d'albergo, con alcuni personaggi che fanno la spola. Hawks ha l'America a disposizione, e sceglie due camerette. Dentro, ci mette la vita. Tutta la vita. Più che una gabbia, è un'ideale bilancia dove ogni evento, azione, passione, sesso, età, dolore, canzoni, nostalgia, commedia, dramma ha il suo esatto peso specifico. E nessuna urgenza o necessità da colt o winchester può mai permettersi di frenare completamente il movimento legittimo di ogni essere umano, fino al singolo, gaudente atomo epicureo. In una sorta di logica d'acciaio (o di aurea verosimiglianza, se preferisci), tutto ha diritto d'esistere nel Kammerspiel hawksiano, tranne la morte. Roba da perdere la testa.



“Sei tu, Howard? Credevo te ne fossi andato” disse Ford, aspirando il sigaro.
“Son tornato a dirti arrivederci, Jack.”
“Arrivederci, Howard.”
Hawks stava per uscire dalla stanza quando venne richiamato da Ford: “Howard”.
“Sì, Jack?”
“Volevo dire veramente arrivederci.”
“Veramente arrivederci, Jack?”
“Veramente.”
Si strinsero la mano e Hawks si allontanò.
Tre giorni prima di morire, John Ford dice arrivederci all'amico Howard Hawks.
Lo racconta Peter Bogdanovich nel libro Il cinema secondo John Ford (Pratiche).

Gaza dolce Gaza

Non so se avete notato, ma c'è un grosso casino attorno alla striscia di Gaza. È un fatto più unico che raro, dato che solitamente quella zona, come tutti sappiamo, è considerata una specie di "buen retiro" più tranquillo di una pensione sulla costa californiana, e infatti è principalmente abitata da ricchissimi anziani tedeschi e svizzeri, che vengono lì per godersi un meritato riposo, all'ombra degli ulivi e col bel mare davanti. E poi il clima è assolutamente ideale. Ora questo piccolo paradiso è sotto una tempesta di merda.
Dal 2001 si ripete lo stesso scenario di azione-reazione, che alla fine stufa i telespettatori, sarebbe ora di chiedere agli sceneggiatori un guizzo di originalità. Dev'essere l'effetto F4, detto anche "basito in automatico" ben descritto nella serie "Boris". A un attacco di potenza 1 si risponde con un attacco di potenza 10. Siccome una banda di stronzi dementi abbatte due torri, io ti cancello due Paesi dalla cartina geografica. Magari mi dimentico di cancellarli dalla realtà (vedi dopo), ma insomma comunque faccio un casotto madornale. Non dico che quel che gli israeliani si beccano in testa quotidianamente siano petardi e tric-trac. Ma insomma non se li beccano quasi mai in testa, perché quando vedono che arriva un razzo generalmente si scansano. Poi a volte uno se lo becca in testa e muore. Allora gli altri si incazzano e fanno fuori cento palestinesi, con un missile solo. Questi cento morti sono equamente divisi in a) terroristi; b) vecchi; c) donne; d) bambini; e) uomini disoccupati; f) lavoratori precari; g) pecorella (al singolare, perché ogni missile israeliano è programmato per uccidere una sola pecorella). Il programma del missile è basato su logaritmi molto complicati che solo Chiappalupi potrebbe spiegare, e non perché Chiappalupi ce lo sa, ma perché ce lo ha descritto con tanto di grafici e disegnini Altamante Fruzzetti. Ma alla fine è solo un programma, e perché il programma funzioni è necessaria la partecipazione di tutti, in primis dei palestinesi. Mica basta pigiare il tasto F4. Se il missile fa i suoi cento morti previsti ed equamente divisi nelle categorie suddette (e ho omesso le sottocategorie, ma Chiappalupi o meglio Fruzzetti assicurano che ci sono), il motivo è semplice: i palestinesi, contrariamente agli israeliani, non si scansano. Mai.


I palestinesi sono un po' scemi.
Però anche loro hanno delle qualità. Ad esempio.
La striscia di Gaza ha smesso di essere il luogo ultrasicuro e tranquillo dove tutti sogniamo di andare a vivere in pensione perché i palestinesi se lo sono meritato. È una cosa che dicono gli esperti, non dico esperti quanto Altamante Fruzzetti, ma comunque esperti, di certo più di Chiappalupi, per intenderci.
I palestinesi se lo sono meritato. Ed è giusto che sia così, secondo me. È una regola che vale per tutte le cose. Non è che vuoi una cosa e subito ce l'hai, questo lo credono i bambini. Poi diventi grande e allora impari che se vuoi una cosa, qualsiasi cosa, te la devi meritare. Lo vuoi un gelato al pistacchio? Te lo devi meritare. Lo vuoi un avanzamento di carriera? Te lo devi meritare. Ti piacerebbe ritrovarti con il tetto sfasciato da un missile che finisce direttamente nella stanza dove dorme tuo figlio dimodoché devi rifare il tetto e un altro figlio perché quello di prima non andava bene? Telodevimeritare. (E secondo me, un po' se lo deve meritare anche il figlio, perché in famiglia ciascuno deve fare la sua parte.) Cioè, non è che le cose piovono dal cielo. I missili sì, ma qui mi si lingua la impasta e non so più a che metafa appendermi.

Comunque sapevatelo: gli italiani hanno parecchio da imparare dai palestinesi, in materia di meritocrazia. Infatti Brunetta ha già previsto un viaggio di studi, con full immersion (e le malelingue già si scatenano, su questa immersione; fortuna che Veltroni apre subito il dialogo e pacifica gli animi dicendo che "Brunetta fa le immersioni nella realtà palestinese ma anche nel mare blu, e noi ci batteremo per ottenere risultati su ambedue i fronti, sempre con il pensiero rivolto agli italiani che faticano a tornare all'inizio del mese").



Quindi i palestinesi se lo sono meritato. Io questo l'ho letto, giuro che l'ho letto. La cosa è opinabile, ma a me sembra soprattutto espressa in modo maldestro. È un'opinione, e le opinioni sono sacrosante, mentre il ragionare è blasfemo, lo ha detto pure il Papa l'altra sera al bar Settimiano. Però secondo me l'opinione sarebbe stata più convincente (l'opinione ha sostituito gli argomenti, non so se celosapevate, comunque sapevatelo, ora si convince a colpi di opinione) se fosse stata formulata nel modo seguente: "Hamas se lo è meritato". Però sono quisquilie, perché in fin dei conti Hamas è stato votato dai palestinesi, e quindi quel che si merita Hamas se lo meritano pure i palestinesi, che infatti pare siano felicissimi di meritarsi tutto questo ben di Dio. La democrazia, lo dice da sempre il nostro Presidente del Consiglio Berlusconi, comincia e finisce il giorno in cui vai a votare. Se voti, è democrazia. Poi se voti Berlusconi è pure meglio della democrazia, ma non complichiamo. Democrazia=elezioni e basta, sapevatelo, razza di asini ignoranti. Perché poi i palestinesi della striscia di Gaza abbiano votato Hamas, questo non ci interessa, siamo reduci dall'indimenticabile omelia del Papa al bar Settimiano, il sapere è blasfemo, e quindi credo quia absurdum est, che in italiano vuol dire una mela al giorno leva il medico di torno e vai pure in discoteca con Eva Grimaldi. E comunque con Hamas non si parla, anche perché nessuno capisce la loro lingua del cazzo, e non si può passare il tempo a fare full immersion di qua e di là, non c'è mica solo la striscia di Gaza da visitare, ci sono anche Capri, Acapulco e Bangkok, in tempi di crisi solo l'industria del turismo potrà salvarci, altro che God e God. E poi quelli di Hamas sono antipatici. Pare che ci vogliono ammazzare tutti. E lo dicono pure.



Un altro antipatico, ma molto, è Ahmadinejad. Infatti a me Ahmadinejad non piace. È pure brutto, tra l'altro. Ogni volta che mi telefona e dice: "Ti va un grappino dopocena al Settimiano?", io ci rispondo: "No, grazie, per stasera passo, perché devo ancora smaltire la sbornia di ieri sera col gaffeur e il Papa". Dico così perché non mi piace offendere nessuno, ma in realtà è proprio che non mi va, sarà che sono ebreo e Ahmadinejad dice che vuole ammazzare tutti gli ebrei, è chiaro che non gli piacciono, ciascuno ha le sue idiosincrasie, io ad esempio non sopporto le persone a cui puzza l'alito, e li vorrei non dico ammazzare ma almeno obbligare a fare i gargarismi quotidiani col botot o ad andare dal dentista o a mangiare meno aglio o insomma comunque a occuparsi della questione molare, come direbbe quell'imbecille del fratello gemello di Fruzzetti. Comunque e quand'anche, Ahmadinejad non è proprio l'ideale, come amicone, infatti preferisco il Papa, anche se quando beve troppi grappini si mette a parlare in tedesco e io non parlo il tedesco, scusami pardòn.

Ahmadinejad è come Hamas: nun ce se pò parla'. E quindi giù bombe, secondo lo scenario descritto sopra. Si cancella tutto: Irak, Afghanistan, Libano, striscia di Gaza. Poi come dicevo non si cancella niente ma si fa solo un gran casino, e in tutto 'sto casino finisce che gli arabi si annoiano, perché è sempre la stessa storia, e a furia di meritarsi tutte queste belle cose, finiscono per dirsi che gli piacerebbe meritarsi pure altro, magari più bello. Non sono mai contenti, gli arabi: gli dai una mano, e si prendono tutto il braccio. Dev'essere la frenesia dei consumi. Dev'essere che nei Paesi che dentro ci sono questi arabi non c'è la crisi. Infatti Tremonti ha già previsto una full immersion con triplo salto mortale e piroetta "a bomba" nel Golfo Persico per sondare le acque e il polso della situazione con Rolex incorporato nel succitato polso.

Allora le cose vanno così: noi (perché pare che quelli che lanciano i missili sono "noi", che decidiamo chi se li merita e chi no, perché un metro deve pur esserci, e siccome abbiamo grossi missili che vanno molto lontano, noi abbiamo il kilometro di giudizio, come il dente, per restare in alitudine), noi, dicevo, sparacchiamo migliaia di missili, facciamo bum bububum bububum e ammazziamo un sacco di gente che se l'è meritato, diciamo che su uno che ci ammazzano loro (noi ci meritiamo poco, siamo una civiltà in crisi), gliene ammazziamo cento. E gli chiediamo di non scansarsi, perché non vale. Sennò che gioco è?

Quel gioco si chiama guerra. Ne abbiamo fatte quattro, negli ultimi anni: Afghanistan, Irak, Libano, Georgia. Le abbiamo perse tutte. Vabbe', l'importante è partecipare, però le abbiamo perse tutte comunque. Roba da serie C, da Paulinho Cotechiño. Certo, la cosa fa incazzare. Come se per sette anni di seguito il Brasile di Pelé perdesse dieci partite consecutive contro l' A.S. Pizzighettone under 18. Mo' pare che i bookmaker inglesi diano perdente pure Israele, in questa partita in corso. Ma secondo me i bookmaker non c'imbroccano mai. E comunque se Israele perde, è tutta colpa dell'arbitro cornuto. Con Collina certe cose non sarebbero mai successe. Voglio vedere il replay.

Ora, ogni volta che perdiamo una guerra, la vince Ahmadinejad. Nel senso che Ahmadinejad ci mette tutto il suo stipendio, in tasca ai bookmaker. E ora è ricco sfondato e gira in SUV, bastardo del cazzo. Secondo me qui c'è di mezzo la mafia. Hanno truccato tutte le partite. Altro che Sky.

Ricapitolando. Irak, 1 a 0 per Ahmadinejad. Afghanistan, 1 a 0 per Ahmadinejad, Libano, 1 a 0 per Ahmadinejad. Fanno 3 a 0. Se gli allibratori (che non sono i coccodrilli, anche se li confondo sempre quando mi si bagnano gli occhi di lacrime, come direbbe il caimano) azzeccano pure l'ultimo pronostico, "noi" perdono pure il derby contro Gaza. 4 a 0.



Di solito, quando uno fa una guerra a un altro quattro volte di seguito, sbagliando sempre allo stesso modo, sarà meglio cambiare strategia o chiedere consigli a Trapattoni. Di solito, quando uno fa una guerra a un altro e la perde, gli tocca parlare con chi ha vinto. Forse quando ne hai perse quattro è quattro volte più vero, ma forse no, forse, come diceva uno coi baffi grossi così "quel che non ti uccide ti rende più forte", e quindi dai e dai, capace che a furia di perdere tutte le guerre possibili immaginabili siamo diventati invincibili, come Batman. Io non lo so, bisognerebbe chiedere l'opinione convincente degli strateghi. (No, Scroto: il baffone non è Stalin, non mi rompere e famme fini' de parla'. No, nun me lo ricordo chi era, magari John Lennon.)

E invece no. Son tutte regole nuove, perché se di tanto in tanto non cambi le regole sono i telespettatori che cambiano canale perché gli viene la biocca, e i telespettatori devono guardare Rai o Mediaset, Al-Jazeera non datur. Quindi, nell'attesa che ci si decida una buona volta a sostituire l'arbitro cornuto con il replay, abbiamo cambiato la guerra. Ora, sapevatelo: quando facciamo la guerra e perdiamo, siamo noi che dettiamo le nostre condizioni al vincitore. La guerra è un gioco per bambini, alla fine è solo un passatempo: "Devi capire Israele, fra poco ci sono le elezioni, e il Governo era obbligato ad agire perché sennò vince Netanyahu". Cioè, la guerra non è più l'ultima ratio, che in italiano vuol dire meglio un uovo oggi che una gallina domani. No, è una non stop televisiva, come il calcio d'estate. Ci sono le elezioni fra un mese, quindi guerra totale. Per coprire il palinsesto. La guerra è un gioco per bambini, poi si passa alla roba seria, che si chiama politica internazionale.



Quindi, riassumendo. In guerra c'è chi vince e chi perde. E vabbe': c'est la vie, come dice sempre un mio amico. Poi si passa alla politica (nelle nuove regole l'ordine è questo, la politica è l'ultima ratio, che in italiano si pronuncia razio, ma non è il Papa ubriaco e neppure il missile che forse, magari, chissà, un giorno finiremmo col meritarci pure noi, se proprio ce la mettiamo tutta e uniamo le risorse e affrontiamo coraggiosamente il futuro senza guardare in faccia a nessuno). E quando si passa alla politica chi ha vinto la guerra non conta un cazzo. Chi detta le condizioni è il più simpatico. Noi abbiamo perso (almeno) tre guerre contro Ahmadinejad in sei anni, ma con Ahmadinejad non parliamo perché è antipatico. (E poi è brutto, diciamoci la verità.)

Tutto chiaro?

Ahmadinejad pare dica che non è proprio così chiaro. Ma se continua a non capire glielo spieghiamo meglio. Però se la deve meritare, la nostra spiegazione. E siccome siamo stati così chiari in Afghanistan, Irak, Libano e striscia di Gaza, e siccome al confronto l'Iran è una piccola dittatura sudamericana tipo Panama sotto Noriega, dovrebbe andarci ancora meglio di prima, commettendo esattamente gli stessi giustissimi errori.

Poi c'è chi dice che l'Iran è una nazione, tipo di quelle toste, che persino i dissidenti più agguerriti e magari in esilio, se sapessero che laggiù gli iraniani si stanno meritando le stesse belle cose che si sono meritati i palestinesi, magari persino loro nel loro piccolo s'incazzano, mentre dovrebbero ringraziarci, perché noi tutte queste fatiche le facciamo tutte per loro, che gli vogliamo bene e gli vogliamo regalare la democrazia, che è quella cosa che un giorno uno vota per meritarsi altre bellissime cose nuove. Ma pare che siano dicerie, roba blasfema da intelligence, che in inglese significa malelingue. Sono gli stessi che dicono che in Iran si vota già, non proprio come da noi che ci meritiamo Berlusconi, loro sono un Paese di sfigati mica possono avere tutto subito, ma comunque dicono che si vota, laggiù.

Però io mica ci credo.

domenica 4 gennaio 2009

L'ultimo gioco in città

I — ANDARE LONTANO (CANTO D'AMORE DI J.A.PRUF.GOD)

Come annunciato, con l'anno nuovo a volte sarò sostituito da un nuovo mazziere, altrettanto perverso, e polimorfo quanto gli atomi di polvere di Lucrezio. Il gioco di oggi lo ha commesso lui.
Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui. Se blogspot non ti piace puoi sempre andare a giocare su splinder. Ma in tutti i casi heaven, heaven is a place, a place where nothing nothing ever happens.

Quando fracassando la porta l'esterno fa irruzione sottoforma di pompieri
how you gonna come, con le mani sui soprammobili o intente a documentare il tutto sul blog ?
Oh, allora,
quando i libri non letti tonfano valangando dalla mensola e ci sono compiti dei figli da controllare
quando le dita non colpiscono i tasti, intirizzite dall'inverno del tuo scontento (benché parecchio scontato, l'avrete notato)
e ti chiedi sentendoti un lazzarone perché cazzo sei tornato dalla vulcanica Lanzarote nella torpida Patatonia
quando i piatti volano ma non perché sei in un b-movie fantascientifico anni '50 e se comincia la caccia all'alieno l'alieno sei tu
quando ti rendi infine conto che faces & books stanno distruggendo lo schermo che ti faceva da schermo e non è il caso di scherzare, non è opportuno schernire, non puoi più sterzare
quando temi una mattina di svegliarti da sogni agitati trasformato in uno schermorario

oh, è questo il momento
in cui ti chiederai qual è quella cosa che anche se non la fai non succede assolutamente nulla a nessuno
e se comunque la fai succede pochissimo a pochissimi
e quel pochissimo dura così poco che già dirlo effimero è prolungargli l'esistenza di un'eternità
e se qualcuno vorrà lodare quel qualcosa e preservarlo nel tempo quasi fosse una gemma tu stesso giudicherai quel qualcuno un po' gonzo
e ti domanderai perché ciò che è virtuale è irrazionale e insieme così relativo però assai poco complesso e comunque niente di trascendentale
e capirai in un solo momento quanto è falsa la promessa di un socialnettismo dal volto umano e che i socialnetworkers non saranno mai compagni ma al massimo amici

Oh, in quell'ora,
quali reti ti salveranno, pescatore di anonimi
quali nodi saranno abbastanza sicuri, scorsoio a parte
quali captcha freneranno la tua caduta da quel campo di seghe sulla collina, fin giù nel reale
su quali piattaforme soffici riposerai
quali siti accoglieranno te, navigatore naufragato e stanco, surfista imbolsito a forza di ipertestate, nuotatore schifato dal linkuame che lo circonda

Te, che rododattilo diteggi su tastiere alle sei del mattino
Te, che libero dalla ragnatela finirai avviluppato nel monotono e implacabile e peneloopiano farsi e disfarsi della tela domestica
Te, che potrai vantarti un giorno forse per un solo disegno di germano finito in un francobollo da tre cent
Mentre l'alzavola altrui sarà su quello da ventinove (*)

(*) e in queste due ultime righe si annida il quiz cinematografico di oggi. Premio: due byte.

DUST

ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA SULL'ALTRO TAVOLO DA GIOCO DOMENICA 4 GENNAIO ALLE 15.27.
LA SOLUZIONE ERA "FARGO" (JOEL & ETHAN COEN, 1995). E SE È VERO CHE "HEAVEN IS A PLACE WHERE NOTHING EVER HAPPENS", È ALTRETTANTO VERO CHE "A LOT CAN HAPPEN IN THE MIDDLE OF NOWHERE", COME RICORDAVA LA LOCANDINA ORIGINALE DEL FILM. IL VINCITORE DEL PRIMO GIOCO DELL'ANNO È IL FELINO ARCOMANNO
.
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 11 GENNAIO.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA

arcomanno: 2 byte.

giovedì 1 gennaio 2009

Vedi Fontana e poi muori

Lucio Fontana
Concetto spaziale "Attesa"
1960