Mio nonno aveva svariati fratelli e sorelle. Non ne ho conosciuto nessuno (uno l'ho intravisto da ragazzino) e di loro so poco. Ora sono tutti morti. So che a parte una di loro furono tutti resistenti, ma credo che solo una abbia ammazzato con le
proprie mani. Il giorno della fine del fascismo,
almeno così mi hanno raccontato, sfila su un carro per le vie di
Roma. Arrivati a piazza Venezia, due giovani soldati sotto il famoso
balcone puntano il fucile contro il camion. Tutti scendono e scappano.
Lei invece si dirige dritta verso quei due, strappa loro il fucile di
mano e molla due ceffoni a ciascuno.
1990. Da quel che
so, lei soffriva di una grave forma di depressione. Il marito, uno storico, si era rotto
una gamba e veniva a medicarlo un'infermiera. Un giorno l'infermiera
suonò alla porta. Invece di aprirle, la mia prozia preferì buttarsi dalla
finestra. Credo che abitassero al quarantesimo piano.
Mia nonna era nata in Germania ed era ebrea. Nel '33 si dissero che era meglio espatriare. Lei andò in Italia, il fratello in America. La sorella più giovane emigrò a Londra. Durante la guerra si guadagnò da vivere facendo la saldatrice per la RAF, forse fu proprio uno dei "suoi" aerei che rase al suolo la casa di famiglia, a Berlino. È ancora viva e il suo secondo nome è Estrella.
Grazie alla rete, ho scoperto pochissimi anni fa che Stenelo era lo
pseudonimo di un altro fratello di mio nonno. Io credevo di chiamarmi
così per motivi religiosi (Stenelo figlio di Capaneo, bestemmiatore di
Dio). Anche lui si era sposato con un'ebrea tedesca, lei ho fatto in
tempo a conoscerla.
Roma fine anni Settanta, retate a gogo. Mio
cugino, figlio di Stenelo, mi raccontò di esser stato
fermato dalla polizia, per strada, e portato in commissariato.
Cominciano a torchiarlo: "Tua madre è ebrea? Eh?
Una puttana, eh? Quanti cazzi succhia, eh?". Puntandogli il dito contro,
facendolo indietreggiare. Quel poliziotto conosce il
tipo che ha di fronte: lombrosianamente, prima o poi risponderà con le
cattive, in famiglia siamo abbastanza maneschi e mio cugino può
permetterselo: è un armadio, con pugni grossi come incudini. Il
poliziotto vuole esattamente quello. Come tutti, mio cugino avrà fatto
anche lui qualche fesseria, nella sua vita, ma quella volta non commette
l'errore di
non guardare dietro di sé: dove lo aspetta, invitante, una finestra, naturalmente aperta. Lui l'ha scampata.
Il 28 luglio 1993, a mezzanotte e otto, mi trovavo a Roma, zona Monteverde vecchio, nel grande appartamento dei miei nonni, ambedue scomparsi. Sentii un forte boato, questo lo ricordo. Non ricordo cosa pensai al momento, probabilmente nulla, e neppure se dopo pochi minuti scoprii quel che era successo perché lo vidi in televisione (credo non funzionasse più) o perché mi telefonò mio cugino, sempre lui. Via del Velabro, certo. Ci vive suo fratello, con la vecchia madre. Pochi minuti dopo siamo lì. La polizia ha già bloccato il quartiere: "Non si può passare". "Come non si può passare, testa di cazzo, lì ci abita mia madre, ti spacco la faccia."
A mezzanotte e otto il cugino del Velabro era per strada e stava infilando la chiave nella toppa del portone. L'autobomba si trovava a pochi metri di distanza. Rientrando, ci era passato davanti una manciata di secondi prima. Il soffio lo ha catapultato all'indietro. Scardinato, il portone pesantissimo è stato proiettato in avanti. Se gli fosse cascato addosso, probabilmente mio cugino sarebbe morto. Se l'è cavata senza un graffio.
Saliamo all'appartamento. Fa buio pesto, in tutta la zona è saltata l'elettricità. Andiamo nella stanza della mia prozia. Tranquilla, in camicia da notte. Ricordo le torce nell'oscurità, e la voce di uno dei figli: "Fortuna che già dormiva invece di leggere seduta, sennò
la mamma ce l'eravamo giocata". E il fascio di luce a sciabolare la
parete, una trentina di centimetri sopra il letto: un Seurat di schegge
di vetro conficcate nel muro, sparate nella stanza dalla finestra esplosa.
La mia prozia morì sette anni dopo. Ricordo che mi recai alla camera ardente, ed entrai nel momento esatto in cui ne usciva Luciano Violante. All'epoca era Presidente della Camera, e il suo discorso d'insediamento è rimasto tristemente celebre. Un Presidente della Camera "non dovrebbe mai agire come se stesse scrivendo la Storia". Non so se la sua presenza risultasse gradita. Ma è anche vero che non puoi sceglierti i dirimpettai e a volte sei costretto a mangiarti la minestra, sperando che non sia cicuta.
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