lunedì 29 settembre 2008

Orson Welles — Un fogliettone

VIII
1962-1985: IL FAVORITO DELLA LUNA

Forse il nome di un uomo non conta poi così tanto.
Orson Welles in F per Falso — Verità e menzogna (Orson Welles, 1974).


Il processo (Le Procès, 1962), girato a Zagabria, Monaco, Roma e Parigi, prosegue portandola all’estremo la poetica frammentaria e angosciosa di Otello. È un incubo burocratico-legale dove gli spazi chiusi si avvicendano come scatole cinesi, senza che si capisca quando finisca uno e cominci l’altro: Josef K. esce dalla sala del tribunale varcando una porta la cui maniglia è a tre metri dal suolo, come nella biblioteca borgesiana attraversa corridoi di archivi che sboccano su altri corridoi all’infinito (nella realtà sono gli uffici in disuso della Gare d’Orsay), è inseguito da un manipolo di bambine urlanti, finisce in una gabbia di legno, ascolta il sermone di un prete in una cattedrale barocca, e quando esce si ritrova all’EUR. Un universo solo in apparenza eterogeneo, dove la varietà degli interni configura uno spazio-tempo la cui coerenza opprimente ricorda i campi di concentramento. Nella sua personale lettura, Welles trasforma Kafka in profeta di Auschwitz, rendendo sgradevole persino il protagonista (Anthony Perkins), assediato da un manipolo di personaggi grotteschi interpretati da attori venuti da tutto il mondo, da Romy Schneider a Madeleine Robinson, da Akim Tamiroff a Elsa Martinelli, da Arnoldo Foà a Jeanne Moreau (quest’ultima sarà interprete anche dei film seguenti di Welles e di alcuni progetti abortiti).



Girato tra il 1964 e il 1965, Falstaff (Campanadas a medianoche) è l’ultimo film della trilogia shakespeariana, e forse il migliore. Come aveva già fatto due volte a teatro, il regista estrapola — dall’Enrico IV (Prima e Seconda parte), dal Riccardo III, da Le allegre comari di Windsor, dalle Chronicles of England di Raphael Holinshed, aggiungendo alcuni dialoghi scritti alla maniera di Shakespeare e difficilmente distinguibili da un non specialista — un film incentrato sul personaggio di Falstaff, interpretato dallo stesso Welles. Come L'orgoglio degli Amberson, anche Falstaff racconta la fine di un mondo: la Merry England, rappresentata da Falstaff e dalla sua allegra brigata di “favoriti della luna”, ossia di ladri. Ma a differenza della cadaverica pseudoaristocrazia americana, il mondo di Falstaff è chiaramente quello in cui Welles avrebbe amato vivere. Falstaff è un gradasso ubriacone, grasso e vigliacco, ma è l’ultimo esempio sia pur degenerato degli ideali cavallereschi, un dolceamaro Don Chisciotte che crede solo alla fedeltà in amicizia, l’unico valore che Welles abbia difeso con intransigenza in tutti i suoi film. Per la prima e l’ultima volta, il regista interpreta un personaggio positivo a tutto tondo (è il caso di dirlo, data la mole di Falstaff), “buono come il pane”, stando alle parole dello stesso Welles, e suo segreto autoritratto. E quando nel tumulto della battaglia — che il 18,5 mm rende ancor più simile ai dipinti di Paolo Uccello — Falstaff cerca solo un cantuccio dove nascondersi per scolarsi l’ennesima bottiglia (e Welles alle prese con produttori macellai preferiva scappare in un ristorante brasiliano), nasce il sospetto che con l’avvento dei tempi moderni, la viltà possa essere, a volte, l’ultima, patetica maschera del coraggio e della generosità.



Negli anni seguenti Welles tentò di realizzare un film tratto da due racconti di Karen Blixen. Riuscirà ad adattarne soltanto uno, prodotto dalla televisione francese: Storia immortale, (Une histoire immortelle, 1968), dove Welles è un ricco mercante di Macao, che prima di morire tenta di dar vita a una leggenda di marinai tramandata da secoli. Un delirio di onnipotenza assai simile a quello del regista, che esplora in modo sottile il rapporto tra realtà e falsificazione, tema presente in tutti i suoi film precedenti e che sarà al centro di F per Falso (F for Fake, 1973), strano esperimento di montaggio che mescola in modo inestricabile verità e menzogna. Welles era approdato a Hollywood grazie a un clamoroso falso radiofonico; la sua carriera cinematografica si concluderà con questo vero-finto documentario (a un'epoca in cui il mockumentary non era ancora alla moda): F per Falso alterna immagini d’archivio, un reportage dell’amico François Reichenbach sul falsario Elmyr De Hory, considerazioni sul misterioso magnate Howard Hughes e sulla finta autobiografia scritta da Clifford Irving, un’improbabile avventura erotico-artistica tra Picasso e Oja Kodar, numeri di magia, riflessioni di Welles sulla sua carriera e un appassionato monologo davanti alla Cattedrale di Chartres, esempio supremo di arte senza autore. Per un’ironia della sorte, tre anni prima un incendio aveva devastato la villa di Welles a Madrid, e le fiamme distrussero manoscritti, corrispondenza, documenti, negativi: un materiale unico e di prima mano, la cui scomparsa renderà arduo il lavoro dei biografi, a volte impossibilitati a distinguere tra realtà e leggenda. Così, non si può onestamente escludere che anche in queste righe si annidino inesattezze e mistificazioni.



Il 9 febbraio 1975 l’American Film Institute consegnò a Welles il prestigioso Life Achievement Award. Era la terza volta che il premio veniva attribuito. Era stato preceduto da James Cagney e da John Ford, l’amatissimo regista di Ombre rosse, il film che prima di iniziare le riprese di Quarto potere il giovane Welles aveva studiato decine di volte con Gregg Toland per imparare le regole di quello strano gioco chiamato cinema. Davanti a tutti i potenti di Hollywood riuniti per l’occasione, Welles mostrò due frammenti di The Other Side of the Wind e lanciò un appello ai produttori presenti in sala affinché lo aiutassero a terminare il progetto. Nessuno mise mano al portafogli.

La sera del 9 ottobre 1985, Welles partecipò a una delle ennesime trasmissioni televisive, The Merv Griffin Show: era in compagnia della sua biografa, Barbara Leaming. Ancora una volta, raccontò la storia della sua incredibile carriera, e ancora una volta si esibì in un numero d’illusionismo. L’indomani mattina, solo nella sua casa di Hollywood, stava stilando istruzioni di regia per alcune inquadrature che con l’amico Gary Graver contava di girare nel pomeriggio.
Nessuno sa quale fu l’ultima parola che pronunciò, ma come lo slittino “Rosebud”, il suo corpo venne bruciato, e le ceneri disperse in un’isolata fattoria spagnola, dove a 18 anni Welles aveva passato un’estate indimenticabile.

NOTE
Questo fogliettone deve praticamente tutto alla dettagliata "Cronologia" del volume di Peter Bogdanovich, This is Orson Welles, nuova ed. Da Capo Press, New York 1998.
Dopo aver accuratamente infilato questo fogliettone nell'archivio "Come vivere senza?", fra due settimane potrai leggere l'assai più sintetico Orson Welles for Dummies, che troverà un posticino già pronto nella cartella "se ne sentiva il bisogno".

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