giovedì 26 giugno 2008

Saldi d'estate: Leggiti un Aleph e guardane tre!

Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo viste nell’andito di una casa di calle Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi ad Inverness una donna che non dimenticherò, vidi la violenta chioma, l’altero corpo, vidi un tumore nel petto, vidi un cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero, vidi in una casa di Adrogué un esemplare della prima versione inglese di Plinio, quella di Philemon Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo meravigliarmi che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un tramonto a Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala, vidi la mia stanza da letto vuota, vidi in un gabinetto di Alkmaar un globo terracqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine, vidi cavalli dalla criniera al vento, su una spiaggia del mar Caspio all’alba, vidi la delicata ossatura d’una mano, vidi i sopravvissuti a una battaglia in atto di mandare cartoline, vidi in una vetrina di Mirzapur un mazzo di carte spagnolo, vidi le ombre oblique di alcune felci sul pavimento di una serra, vidi tigri, stantuffi, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi in un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise, che Beatriz aveva dirette a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo, vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo.

Jorge Luis Borges, L’Aleph.






5 commenti:

Andrea ha detto...

Grande, grande libro, Alt. Congratulescions.

ilbaco.ilcannocchiale.it

adlimina ha detto...

rileggerlo tout d'un coup è sempre emozionante

arcomanno ha detto...

Forse è banale e non si adatta bene con il tag "finiremo male", ma la prima cosa che mi è venuta agli occhi leggendo il pezzo di Borges è questa.

Stenelo ha detto...

Grazie, Andrea. Sì, è un grande libro: ma non l'ho scritto io.
adlimina: ormai, un taglia/incolla e ci ritroviamo l'infinito a portata di clic.
arcomanno: no, non è banale, è evidente, nel miglior senso del termine, e nel senso che ambedue vedono e mostrano quel che vedono (e en passant: funzionava con il tag "finiremo male" perché quel tag vuol solo indicare al lettore che quel che sta vedendo è la fine di un film: "MIB", in questo caso. Ma in un'operazione di saldi sarebbe stato incongruo. Tra la merce in svendita a volte capita di trovare, in mezzo alla ciarpa, un gioiello vero. Che so, alla bancarella di cd di Porta Portese, tra Britney Spears e la canzone dell'estate, il clavicembalo ben temperato, magari suonato da Richter. Ma non trovi Bach e Gardel nello stesso stand, l'uovo di cristallo di Wells, l'Aleph di Borges e l'oltrinfinito kubrickiano. Altrimenti sarebbero altri tempi. (E comunque, quale preferisci tra i tre oggetti in svendita?)
Ripeto, evidente. Infatti il riassunto per i three dogs (per tacer dell'uomo) era congegnato come un pastiche (e stavolta, l'ho scritto io, scimmiottando come Moonwatcher: salta i primi due capoversi e vai subito al punto):
L’alba dell’uomo. In una landa desolata, circondata da rocce aride, pantere feroci e placidi tapiri, sopravvive a stento una tribù di scimmie. L’unico punto d’acqua è oggetto di continue scaramucce con un gruppo rivale. Un mattino, la scimmia dominante sveglia gli altri con grugniti ansiosi. Davanti alla grotta si erge un perfetto parallelepipedo, opaco e senza alcuna asperità. Tra timore e curiosità, il branco si avvicina al monolito, lo sfiora con dita pelose. Poco dopo (un’ora, un giorno, un anno) il capotribù è accovacciato davanti alla carcassa di un tapiro. La sta guardando. Sta guardando il monolito. Afferra un osso. E vede: tapiri schiantarsi, crani fracassati, distruzione. Vede: l’osso. Vede: l’arma. La pantera che ogni giorno esigeva il suo macabro pasto sarà abbattuta, è abbattuta. La tribù che rivendicava il dominio dell’acqua sarà sgominata, è sgominata. Il monolito è scomparso, e molto resta ancora da compiere con quell’osso che la scimmia — l’uomo — scaraventa in cielo, accompagnando il volo con un urlo di conquista. L’osso sale, sale; poi inizia la lenta discesa di un vascello spaziale. Tutt’intorno, nel cosmo che circonda la Terra, volteggiano astronavi e satelliti: un valzer. È il 1999. Il vascello trasporta un solo passeggero: il dottor Floyd, in missione segreta. Un artefatto alieno è stato rinvenuto in un cratere lunare. Un parallelepipedo, opaco e regolare. Floyd e i suoi colleghi si avvicinano, curiosi e stupefatti; e con i loro rozzi guanti d’astronauti toccano il monolito. Che emette un sibilo acuto. Verso Giove.
Missione Giove. 18 mesi dopo. Il Discovery solca lentamente lo spazio infinito. All’interno, sei passeggeri, diretti per la prima volta verso Giove. L’obiettivo della missione è noto solo ai tre scienziati in ibernazione. La navigazione è supervisionata da Frank Poole e dal comandante Dave Bowman. Ma in realtà l’equipaggio è sotto il controllo del sesto passeggero, HAL. Un computer. L’ultima creazione dell’uomo, la più perfetta. A Dave e Frank non resta che giocare a scacchi, poltrire sotto gli ultravioletti, praticare attività sportiva, e dormire. Un giorno, HAL annuncia un guasto imminente dell’antenna parabolica. È necessaria un’escursione nello spazio. Bowman esce dal Discovery per sostituire il pezzo sospetto. Le analisi non mostrano alcun difetto: HAL si è sbagliato. Dave e Frank si appartano in una capsula spaziale, per prendere gravi decisioni: Frank compirà una nuova escursione, per ricollocare il pezzo; poi i due sconnetteranno HAL, conservando solo i circuiti essenziali. Nella capsula, HAL non può sentirli. Ma il suo occhio scarlatto può vederli. E vede: i movimenti delle labbra dei due uomini. Nel silenzio del vuoto spaziale, Frank esce dalla capsula e si libra sull’antenna. La capsula — teleguidata da HAL — apre le tenaglie e si avventa su di lui. Dave esce a sua volta per recuperarlo. Troppo tardi; in assenza di Dave, Hal interrompe le funzioni vitali dei tre scienziati, e blocca gli accessi del Discovery. Dave riesce comunque a rientrare, penetra nella stanza del computer e sconnette, uno alla volta, i circuiti di HAL. Il Discovery è un relitto alla deriva. Ma ormai Giove è vicino, e la capsula individuale è ancora funzionante.
Giove e oltre l’infinito. Nello spazio appare il monolito. E davanti alla capsula si apre un varco. Dave viene risucchiato. I suoi occhi grigioazzurri vedono: caleidoscopi di forme, luci e colori. Galassie, nebulose, esplosioni di supernova. Vedono: canyon blu, oceani rossi, deserti. Vedono: una stanza. Arredata con gusto settecentesco, illuminata come un ospedale, funzionale come la suite di un albergo. Dave vede: se stesso, senza scafandro. Il quale vede: se stesso, invecchiato, intento a cenare. Lascia cadere il calice di vino. E quando rialza il capo, l’anziano Dave vede: se stesso, vecchissimo, steso sul letto, agonizzante. Prima di morire, ritto dinanzi a sé, Dave vede: il monolito. Tende la mano artritica. Forse è il monolito a vedere, raggomitolato sul letto: un feto. Il feto entra nel monolito. Ed esce nello spazio. E nello spazio, i suoi grandi occhi grigioazzurri vedono: noi, e la Terra.

Stenelo ha detto...

In altri termini, per vedere (o è un guardare?) un Aleph servono eyes wide shut, come nella foto del bibliotecario: che a scanso di equivoci e demistificando, quando scrisse quel racconto non era affatto cieco (lo divenne dopo; e da allora scrisse cose meno belle, nel complesso). Cieco era un altro. Ma già, non c'entra, quella è tutt'un'altra storia, tutt'un'altra Odissea, tutt'un'altro Bowman, Arco [;)].