lunedì 29 dicembre 2008

È pericoloso sporgersi

“Gli spettatori impietriscono quando passa il treno”: è la prima frase scritta da Franz Kafka nel Diario. A cosa alludeva, in quel pugno di parole vergate nel 1910? A una delle prime proiezioni pubbliche e paganti della storia del cinema, dove pare che il minaccioso avvicinarsi di un treno abbia fatto trasalire la platea (ma nella realtà arrivava alla stazione di La Ciotat: cinquanta secondi impressionati su pellicola da Louis Lumière nel 1895)? Oppure a L’Assalto al treno (Edwin S. Porter, 1903), uno dei primi western, con il primo piano del bandito che punta la rivoltella contro gli spettatori, e spara?
Sono tanti gli indizi che portano a pensare che quella del cinema sia un’ontologia ferroviaria. Fissando la locomotiva, la macchina da presa si rimira nello specchio dell’era industriale: treno e cinema sono le sue più grandi invenzioni. E guardando scorrere in senso orizzontale una pellicola attraversata da un fascio di luce, è fin troppo facile dissolvere l’immagine incrociandola con le luci notturne dei finestrini che rapide si susseguono, fino all’ultimo vagone. Così in Effetto notte, quando Alphonse (Jean-Pierre Léaud) vuole abbandonare le riprese del film che sta girando François Truffaut, il regista lo sprona a superare i capricci personali: “Lo so che c’è la vita privata, ma la vita privata zoppica per tutti. I film sono più armoniosi della vita: nei film non ci sono ingorghi, non ci sono tempi morti. I film avanzano come treni, come treni nella notte”.


Quanti treni sono passati, davanti ai nostri occhi. Quanti treni per Yuma, nei mezzogiorni di fuoco, quando c’era una volta il West e dai vagoni scendevano cavalieri dalle lunghe ombre. A ricordarli tutti ci vorrebbe una vita di cinefago, come l’ideale carta geografica di Borges, che avrebbe dovuto dispiegarsi sull’intero pianeta. Lo sapeva Alfred Hitchcock, che sul tema meriterebbe una rubrica speciale: sui suoi treni scompaiono affabili vecchiette e si incrociano e rivelano destini che avrebbero fatto meglio a restare “sconosciuti”. La ciminiera sbuffa nuvole di fumo nero: “l’ombra di un dubbio” cala sull’amata e attesa figura dello zio Charlie. Una nuvola di fumo bianco: lo zio Charlie, massacratore di vedove, è svanito. E alla fine di Intrigo internazionale (ma il titolo inglese, North by Northwest, evoca un binario dada ed è molto più bello), il treno che trasporta gli sposi Cary Grant e Eva Marie Saint si infila nel tunnel: alludendo a penetrazioni ben più intime.
“Mentre il treno trasportava Mariannina Terranova verso la sua tragica meta, mentre la trasportava inarrestabile come inarrestabile era il fato che la spingeva, lei, piccola e povera creatura del Sud, avvolta nell’antico scialle scuro, simbolo del pudore delle nostre donne, le mani congiunte a torturarsi il grembo, quel grembo da Dio condannato — sacra condanna! — ai beati tormenti della maternità, mentre il treno correva, così, come un incubo incessante, dove risonava il ritmico fragore delle ruote e degli stantuffi, alle orecchie deliranti della povera Mariannina Terranova: disonorata disonorata disonorata disonoratadisonoratadisonorata…” A parlare non è Rocco Buttiglione in preda a raptus retorico scatenato da chissà quali “convinzioni personali”, ma quell’istrione dell’avvocato in Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961): e Fefé (Marcello Mastroianni) se lo beve tutto, quel corposo Salaparuta di parole, pregustando il futuro assassinio dell’insopportabile moglie, già assolto nella coscienza ancor prima che dalla Legge. Sogna la giovanissima Stefania Sandrelli, che però ha già preso la coincidenza per Roma, in Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1965), e invece dell’agognata gloria cinematografica si arena in una villa pariolina dove Ugo Tognazzi in piedi su un tavolo “fa il treno”, mimando con tutto il corpo l’inesorabile pistoneggiare, veloce, più veloce, ancora più veloce: in attesa dell’immancabile collasso cardiaco. La più grande performance d’attore di tutti i tempi. E con Tognazzi ci piacerebbe concludere il viaggio.


Ma purtroppo c’è un altro treno. Scivola nel silenzio di un pomeriggio uggioso del 1985, senza sferragliare, attraversando campagne grigie e deserte. A bordo c’è solo un vecchio capotreno: fa pensare a Buster Keaton, ma non quando interpretava il tenero ferroviere sudista perduto con la sua locomotiva “The General” oltre le linee nemiche; piuttosto alla sua ombra inquietante, fantasma di rughe nel beckettiano Film (1965). Quarant’anni prima quel treno viaggiava senza sosta, in un’unica direzione, sempre pieno di esseri umani; un viaggio lunghissimo, atroce, al termine della notte. Le rotaie portavano a un cancello, sul quale c’era scritto che il lavoro rende liberi. Varcandolo, il treno entrava in Inferno. Il binario era un vicolo cieco, e il viaggio finiva lì. A questo punto, tra quei casermoni abbandonati, il regista Claude Lanzmann ha preso una decisione terribile, introducendo l’unico momento di finzione nel suo documentario. Una scelta eretica, sconvolgente ma indispensabile, per la sopravvivenza del cinema, per la nostra stessa sopravvivenza.
Lanzmann ha diretto il vecchio ferroviere, come fosse un attore. Gli ha chiesto di ripetere il gesto che soleva indirizzare ai passeggeri usciti vivi dal viaggio, ma già fatti allineare da guardie vociferanti, armate di mitra, cani rabbiosi al guinzaglio. Nel deserto di Treblinka, il vecchio ferroviere ci ha guardati, ha stretto il pugno grinzoso accanto alla testa, lasciando fuoruscire l'indice. E ha fatto correre l'indice lungo il collo, da sinistra a destra.


Si dice che il cinema sia una macchina del tempo, nel senso che ci permette di guardare il nostro passato. Ma forse anche perché sulla pellicola qualcosa del futuro, dei suoi peggiori incubi, rimane impresso, come uno spettro, come le ombre calcinate delle vittime di Hiroshima. O come uno shining. E allora forse Franz Kafka pensa a Shoah, scrivendo che gli spettatori impietriscono, quando passa il treno.

domenica 28 dicembre 2008

L'ultimo gioco in città

XXI — IL GIRO DEL MONDO IN 46 SECONDI

Si sostiene inoltre che la landa ha un'influenza dannosa sul cervello. La mente di molti è stata seriamente compromessa durante gli anni che hanno seguito la morte di Nahum, e nessuno di questi ha avuto la forza di andarsene. Quelli che avevano la testa a posto, però, hanno lasciato la regione. Solo gli stranieri hanno tentato di vivere nelle vecchie fattorie in rovina. Tuttavia, anche loro non hanno resistito. Tutti parlano di magia, e dichiarano di essere ossessionati da incubi. In verità l'aspetto di quel luogo sinistro è sufficiente a suscitare sensazioni anormali. Nessun viaggiatore ha mai visto quelle gole tetre senza provare un senso di disagio; gli artisti rabbrividiscono dipingendo quei folti boschi il cui mistero turba l'animo mentre colpisce gli sguardi.
Non chiedetemi la mia opinione: vi risponderei che non so niente.
Howard Phillips Lovecraft, Il colore venuto dallo spazio.

Ultimo ultimo gioco prima di decretare il vincitore dell'anno. Indovina da che film è tratta questa sequenza e vinci tre gettoni per la giostra. Mercoledì aggiungerò un indizio e mi riprenderò un gettone. Venerdì, altro indizio, e a questo punto dovrai sceglierti bene il cavalluccio, perché farai un solo giro in giostra.



P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui. Se non ti piace la mia giostra puoi sempre andare a giocare in un altro giardinetto.

AGGIORNAMENTO (mercoledì 31 dicembre): L'indizio si trova nell'esergo. La posta scende a due gettoni.

AGGIORNAMENTO (venerdì 2 gennaio): Il filmato ora è leggermente più lungo e la posta si riduce a un gettone.

ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA DOMENICA 4 GENNAIO ALLE 01.48.
LA SOLUZIONE ERA "PROVIDENCE" (ALAIN RESNAIS, 1977). IN QUELLA SCENA, IL VECCHIO JOHN GIELGUD DICE AI FIGLI RACCOLTI INTORNO AL TAVOLO (NEL SETTORE DEL CERCHIO CHE HO NASCOSTO), GUARDANDO LA BOTTIGLIA DI ROSSO VUOTA: "ECCO IL PRIMO MORTO DELLA GIORNATA". E, SORRIDENDO: "QUALE SARÀ IL SECONDO?". CHE MI FA PENSARE AL 2008, SOLO CHE QUELL'ANNO SAPEVA DI TAPPO.
SE NON AVESSE RICONOSCIUTO LA VILLA DEL RHODE ISLAND, BIANCA AVREBBE COMUNQUE VINTO LA BOTTIGLIA 2008, CHE POI SARÀ UNA SPILLA FABBRICATA ARTIGIANALMENTE.
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 4 GENNAIO. I PUNTEGGI SARANNO AZZERATI E PER VARIARE UNA DOMENICA SU DUE SARÒ SOSTITUITO DA UN NUOVO MAZZIERE. LA SOLUZIONE SARÀ RICOMPENSATA CON DUE BYTE, E PER FAVORE NON MORDERMI SUL MOUSE.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA DEFINITIVA 2008

bianca
: 11 gettoni.

afasol: 7
gettoni.
arcomanno: 6 gettoni.
malvino: 3 gettoni.
andrea: 2
gettoni.
desaparecida: 2
gettoni.
orsopio: 1
gettoni.
rabbi: 1
gettone e mezzo.
adlimina: 1 gettone
.

venerdì 26 dicembre 2008

Dacci un Taglio

HAROLD PINTER, 10/10/1930 - 25/12/2008

— Un’analisi statistica dei rapporti sessuali all’Università di Kolenzo, Milwaukee, rivela che 70% lo hanno fatto la sera, 29,9% tra le due e le quattro del pomeriggio e 0,1% durante una conferenza su Aristotele.
— Mi stupisce che Aristotele sia nel programma dello Stato del Wisconsin.
Ostriche, peperoncino, zenzero, etica nicomachea… Charley (Stanley Baker) e il Rettore di Oxford (Alexander Knox) in L’incidente (Joseph Losey, 1967, sceneggiatura di Harold Pinter).

giovedì 25 dicembre 2008

... e Pasqua con i buoi

La nostra epoca non è ancora giunta a superare la famiglia, il denaro, la divisione del lavoro; e tuttavia si può dire che la loro realtà effettiva si sia già, per costoro, quasi interamente dissolta, nel semplice spossessamento. Uccelli che non hanno mai avuto preda e l’hanno lasciata per il suo riflesso.
Voce di Guy Debord in In girum imus nocte et consumimur igni (Guy Debord, 1978).


mercoledì 24 dicembre 2008

Dacci un Taglio

Pensavo che avrebbe potuto essere una scena divertente, per esempio, quella in cui gli ex-detenuti sono insieme a tavola alla vigilia di Natale e hanno nostalgia della prigione. E uno dice: “In prigione, cominciavo fin da ottobre a godermi l’idea che avrei avuto il tacchino per Natale. Ora posso comprare il tacchino ogni sabato, ogni giovedì, e così il divertimento se n’è andato dalla vita”.
Fritz Lang (a proposito del suo You and Me, 1938) intervistato da Peter Bogdanovich ne Il cinema secondo Fritz Lang, Pratiche Editrice, Parma 1988, p. 36.

lunedì 22 dicembre 2008

Oltre la siepe, il buio

ROBERT MULLIGAN, 23/08/1925 - 20/12/2008

E mi piangono le mani



Personalmente odio il Natale, come Kate Beringer in Gremlins. Quindi gli auguri li lascio fare a Gualtiero De Marinis. Ma chiamatelo Gughi, altrimenti si arrabbia, come Jena Plissken in 1997: fuga da New York. Il bisillabo gli permette di ripetere ossessivamente "Gughi non sa. Gughi solo piccola pedina in grande gioco della vita", come Mongo in Mezzogiorno e mezzo di fuoco. Con "Gualtiero" non funzionerebbe.
Mongo non sa, ma come tutti sanno Gughi vive quasi esclusivamente in un bar di via Solferino. Per anni firmò abusivamente una rubrica su "Film TV", intitolata "Vita da cani". Dico abusivamente, perché in realtà a scrivere era il suo ghostwriterondemand personale, ossia il suo cane, Lapis, mentre Gughi guardava la Formula Uno. Gughi non sa scrivere, perché gli si lingua la impasta.
"Vita da cani" si occupava di televisione, e quindi parlava di tutto (fuorché di televisione). Spesso indulgeva in confessioni personali e strappalacrime, come quando raccontò del giorno in cui Lapis abbandonò il suo padrone in un autogrill. Molti anni dopo domandai a Gughi se ne soffrisse ancora. Lui guardò tristemente il bicchiere vuoto di martini, sospirò e rispose: "Tu non chiedi me, io non dice bugie te". Testuale.



Accarezza lo squonk qui sotto se vuoi leggere la cartolina d'auguri di Gughi. Questa temo che l'abbia scritta proprio lui, di nascosto, mentre Lapis leggeva i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, in tedesco, il che non costituisce un grande exploit per i cani col pedigree, e capendo assolutamente tutto: il che è concesso solo a Lapis e ad Altamante Fruzzetti, l'uomo più intelligente del mondo.

LO SQUONK DICE: "BIMBA, PERCHÉ NON MI CLICCHI?".

domenica 21 dicembre 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

XX — L'INFERNO DEL CINEFILO

Gli amici di montagna, Mu Mu, Cip Cip, Be Be
ti dicon non partire, ti spiegano il perchè.
Saresti un pesciolino che dall'acqua se ne va
un uccellino in gabbia che di noia morirà.


Indovina da che film è tratto questo fotogramma (clicca per ingrandirlo) e vinci tre holalaidi. Mercoledì la candida Mu Mu, il tenero Cip Cip e quella vecchia zozzona di Be Be ti porteranno un indizio candido come te e se ne andranno portandosi via un holalaido. Venerdì, forse passerà addirittura il caro nonnetto, con un altro indizio, e poi se ne tornerà nel suo mondo fantastico (accipicchia!) trastullandosi anche lui col suo bell'holalaido nuovo di zecca e appena munto da capretta.


P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui. Se vuoi puoi attraversare le Alpi e andare a giocare da Hannibal Lecter.

ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA DOMENICA 21 DICEMBRE ALLE 18.41.
PER LA SECONDA VOLTA CONSECUTIVA IL VINCITORE È "AFASOL".
IL TITOLO DA INDOVINARE ERA "RICOMINCIO DA CAPO" ("GROUNDHOG DAY", 1993) DI HAROLD RAMIS.
L'ULTIMA SFIDA DELL'ANNO SI TERRÀ DOMENICA 28 DICEMBRE. LA POSTA IN GIOCO E LA VALUTA SONO ANCORA IN FORSE.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
bianca: 10 holalaidi
.
Afasol: 7 holalaidi.
arcomanno: 6 holalaidi.
malvino: 3 holalaidi.
andrea: 2
holalaidi.
desaparecida: 2
holalaidi.
orsopio: 1
holalaido e mezzo.
rabbi: 1
holalaido e mezzo.
adlimina: 1
holalaido.

venerdì 19 dicembre 2008

Dacci un Taglio

Certe persone, pur non sopportando più una cosa, per un po’ resistono. Poi esplodono.
Il narratore ne La forza dei sentimenti (Alexander Kluge, 1983).

lunedì 15 dicembre 2008

Memento mori

Il kolossal e il porno: sono in assoluto i generi che detesto di più, da sempre e a priori. Non sopporto neppure Spartacus di Kubrick e La regina delle piramidi di Hawks, e ho detto tutto (anche se nel secondo c'è Joan Collins giovanissima). Quel che vedo sullo schermo mi sembra sistematicamente inverosimile, dall'inizio alla fine: I don't buy it. Non riesco a credere che si possa avere la benché minima idea di come viveva la gente duemila anni fa.
La serie televisiva Roma è l'eccezione che conferma la regola. Sono state girate due stagioni, da alea jacta est a Ottaviano imperatore. Poi basta (troppo cara, suppongo).
Una buona serie si riconosce dai titoli di testa (quasi sempre: The Shield mostra solo il badge spezzato con pessima musica rap ed è ottimo; Desperate Housewives ha un'apertura geniale, ma poi si rivela insopportabile). Roma rispetta due regole scontate: un minimo di pertinenza storica, e qualche ammiccamento ai nostri tempi (cinema di metafora). I titoli di testa aggiungono un terzo elemento (di cui in qualche modo l'intera serie tiene conto), avvertendoci che quanto stiamo per vedere non è la realtà documentata, la vita in movimento, ma la sua rievocazione fantasmatica. Graffiti animati, insomma, e thanatos in campo (ma l'eros non manca, e Polly Walker marcia è ancora più gnocca di Joan Collins giovane). Sic stantibus rebus, allora mi va bene.



P.S. Te pareva: "La versione italiana presenta delle differenze rispetto all'originale, per ovviare a scene di sesso e violenza ritenute troppo esplicite queste sono state sostituite (ma sarebbe meglio dire censurate) con scene girate appositamente per l'Italia, inoltre il doppiaggio ha eliminato molte delle scurrilità verbali presenti nell'originale" (Fonte: Wikipedia).
Ciò detto, il cofanetto dvd di Roma è in vendita (la prima stagione, almeno). Viene presentato come "versione integrale": questo dovrebbe significare che lì almeno la censura non ha infierito.

domenica 14 dicembre 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

XIX — WHEN I'M OUT IN THE STREETS

Indovina il titolo del film e vinci quattro oh ("I walk the way I wanna walk"). Se non hai trovato, mercoledì aggiungerò un pugno di secondi al filmato e dirò un oh di meno perché "I talk the way I wanna talk". Venerdì la soluzione sarà talmente facile che dirò solo oh oh.



P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui. Se vuoi puoi attraversare la strada e andare a giocare dai guerrieri della notte.

ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA DOMENICA 14 DICEMBRE ALLE 19.03.
LA SPLENDIDA SOGGETTIVA È STATA RICONOSCIUTA DA "AFASOL", NUOVO BENVENUTO IL CUI NOME EVOCA UNA BOMBOLETTA CHE POTREBBE AVER INVENTATO JOKER. SI RITROVA TERZO CON UNA SOLA POZIONE.
IL TITOLO DA INDOVINARE ERA "LE FOLLI NOTTI DEL DOTTOR JERRYLL" (TITOLO ORIGINALE: "THE NUTTY PROFESSOR) DI JERRY LEWIS. TEMPO PERMETTENDO, TI FARÒ VEDERE L'INTERA SOGGETTIVA, DEGNA DI "PROFESSIONE: REPORTER" (BUM).
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 21 DICEMBRE. LA POSTA IN GIOCO E LA VALUTA SONO ANCORA IN FORSE.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
bianca: 10 oh
.
arcomanno: 6 oh
.
Afasol: 4 oh.
malvino: 3 oh.
andrea: 2 oh
.
desaparecida: 2 oh
.
orsopio: 1 oh
e mezzo.
rabbi: 1 oh
e mezzo.
adlimina: 1 oh
.

giovedì 11 dicembre 2008

Sentimental tarzanel (extended version)

[Stralcio di una mail intitolata "Un giorno da GOD" e rivolta agli altri GOD]

Mi scrive G. più di un mese fa. Un suo amico è venuto a vivere a Parigi, gli ha dato la mia mail, numero di telefono ecc. Qualche giorno fa il tipo in questione si fa vivo. Dice che è solo e che ha bisogno di un amico con cui bere. Non sembra un tipo allegro. Ma con questi chiari di luna va bene tutto, mi dico. E quindi ieri alle sette e mezza esco per incontrare questo sconosciuto: curiosità zero o quasi, ma tant'è. Fa un freddo inimmaginabile (da settimane), e mentre cammino attraversando mezza Parigi, mi metto a pensare al freddo, a mettere in piedi parole per condensare pensieri sul freddo. Poi mi dico che quando uno pensa troppo alla meteorologia 1) è arrivato proprio alla frutta della mente; 2) è diventato vecchio.
Nell'enoteca che doveva essere deserta, stando alle garanzie del tipo, e che invece è letteralmente intasata come un vagone della metro alle sei del pomeriggio, vedo spuntare in fondo uno tracagnotto, calvo e con una faccia da Droopy, ma ancora più triste. Carnagione da zombi, ma sul serio.
Che ci faccio qui?
Mi siedo, e gli chiedo cosa è venuto a fare a Parigi. Lui dice è una lunga storia (ahi). E comincia a raccontarmi la sua vita. Anzi, non dice la sua vita. Questa sarebbe la sua terza vita. Dice è la mia terza vita e tu quante vite hai avuto? Cioè, mi chiede proprio così: tu quante vite hai avuto?
Che ci faccio qui?
Non mi viene in mente nulla di spiritoso, in realtà non capisco neppure di che cazzo stia parlando. Dico boh, credo neppure mezza. Poi la padrona dell'enoteca ci dice che dobbiamo levarci dai coglioni perché il tavolo è riservato e sono arrivati i clienti.
Lo porto in un ristorante abbastanza pessimo. Si mangia. Lui continua a raccontarmi la sua vita. È venuto a Parigi con 5000 euro in tasca. Fino alla fine non capirò perché. Pare abbia pure una ragazza a B., in Italia, poi dice che è brutto ma da seduttore ha la battuta pronta, però qui col francese se la cava maluccio e parla male il francese, insomma gli piacerebbe rimorchiare. Alle undici e mezza gli propongo di alzarci e uscire, lui mi chiede per andare dove? Io andrei a casa, se vuoi possiamo farlo a piedi (lui va nella stessa mia direzione). Cinque minuti dopo siamo davanti alla fermata della metro, Rambuteau, e fa freddo e sono stufo. Prendiamo la metro, dai. Prima di lasciarci lui fa la seguente considerazione, dice che il sesso con le francesi un po' lo preoccupa, perché insomma i francesi non hanno il bidé in casa. Eh già, vecchio problema, faccio io, ma cosa c'entra col sesso? Sì, insomma, perché solitamente prima ci si lava. Ah sì, cioè una dice sul più bello, aspetta che mi lavo? Ma no, che c'entra, è che in Italia "quasi sempre" (mi ricordo quel "quasi") dopo che uno o una ha fatto la cacca si lava col bidé. E vabbé, dico, però il sesso che c'entra? Mah, sai, pensavo per quella cosa che si chiama cunnilingus...
(Un'immagine: sono mesi che medito di mettere una scena di "Rules of Attraction" di Ellis adattato da Avary. Si vede un ragazzo che si sveglia e va al cesso a cacare. Poi srotola un pezzo di carta igienica e si pulisce il culo due, tre volte. A un certo punto guarda il pezzo di carta con cui si è strofinato. Sconsolato, si rende conto che l'operazione non è finita. Il culo è ancora sporco. Gli tocca proseguire. Non ricordo se l'operazione controllo/avvilimento/ripresa delle operazioni si ripeta più di una volta. Comunque metterei la sequenza col titolo "La condizione umana".)


Shadowboxing





lunedì 8 dicembre 2008

Jean Louis Schefer o la solitudine dell'immagine

La vita criminale di Archibaldo de la Cruz trae origine da un ricordo d’infanzia. Non serve un motivo, basta un motivetto: quello del carillon, da lui azionato mentre la bella governante osservava dalla finestra una sommossa popolare. Le rotelle del giocattolo innescano magiche causalità, complice l’ossessione: la ballerina-automa ruota su se stessa, sgranando la melodia della nevrosi; l’irrefrenabile erotismo di un impulso omicida attraversa la mente del bambino; carica della polizia, colpi di pistola; una pallottola colpisce la governante, che si accascia al suolo, irrigidita in una posa lasciva. Da quella notte, Archibaldo non penserà ad altro che a trasformare quel primo caso in necessità, a volgere l’affetto feticista in azione omicida, a farsi protagonista dei propri desideri di amore e morte. Ma il destino seguiterà a beffarlo, votandolo a una carriera di incolpevole omicida seriale, disseminata di morti violente senza delitto né castigo, e condannandolo alla suprema umiliazione del lieto fine. Estasi di un delitto, Luis Buñuel, 1953.

Il sonno del signor Ferrand è tormentato da un incubo, il cui segreto viene svelato progressivamente: è notte e la città dorme; il silenzio è rotto da un ticchettio regolare; il rumore si fa sempre più vicino, sempre più minaccioso. È prodotto da un bastone bianco, che tasta affannoso il selciato. Chi lo impugna è cieco: senz’altro lo stesso Ferrand, bambino. Ma è solo una finzione criminale: il bastone passa attraverso la grata di un cinema chiuso, l’estremità ricurva serve ad avvicinare il carrello delle fotografie del film Quarto potere. Il bambino stacca le immagini ad una ad una, le infila sotto il braccio e fugge a gambe levate, passando davanti a un negozio specializzato in apparecchi acustici. Ferrand si sveglia di soprassalto. Ora fa il regista, ed è sordo. Effetto notte, François Truffaut, 1973.



Ne L’uomo comune del cinema, lo storico dell’arte Jean Louis Schefer — allievo di Barthes e autore di numerosi saggi di semiotica figurativa, dedicati a Paolo Uccello, al Correggio, a El Greco, a Goya o a Chardin — perpetra per trentaquattro volte un analogo delitto, riesumando dal tessuto della propria memoria altrettanti fotogrammi: immagini strappate a un’arte dove l’illusione del movimento serve a mascherare “l’origine del crimine”, ossia il tempo, trasformando lo spettatore in solito sospetto. È un piccolo classico della letteratura cinematografica, e il lettore italiano ha dovuto aspettare un quarto di secolo per poterne finalmente leggere la traduzione dal francese, una vera e propria impresa condotta da Michele Canosa per le edizioni Quodlibet (Macerata).
A metà strada tra il saggio e l’autobiografia in absentia, Schefer ruota attorno all’esperienza della proiezione cinematografica, e fa della stessa proiezione una ruota (o una sfera) il cui centro invisibile coincide con l’occhio dello spettatore. La fonte di luce del libro si trova nella prima parte, appunto dedicata ai fotogrammi cinematografici, ciascuno di essi accompagnato da un testo breve che sembra richiamarsi alla poesia in prosa o, più precisamente, al blasone. Non sono quasi mai foto posate, ma scatti che in origine si inserivano in sequenze drammatiche, comunque dinamiche. Sono dunque fotografie rare, sconosciute, non sempre di qualità eccelsa, in un bianco e nero spesso sgranato. Il testo che le accompagna non è mai infondato, eppure non si limita a commentare le immagini: sembra piuttosto produrle, come se il fotogramma non preesistesse all’“uomo comune”, ma fosse il prodotto, lo “scatto” del ricordo, incerto tra una promessa di azione e la dissolvenza. La memoria dello spettatore-Schefer diventa in tal modo una camera oscura, e quel che in esso è restato imprigionato (impressionato) “non è il contrario dell’oblio, piuttosto il suo rovescio” come diceva Chris Marker nel film Sans soleil.


L’esperienza dello spettatore è stata spesso paragonata a quella di una persona che sogna. E se il sonno della ragione (o della memoria) genera mostri, non sorprende allora che tutte le immagini di Schefer abbiano il sapore di un incubo. I fenomeni da baraccone in Freaks di Tod Browning, capitanati dal torso umano Prince Randian: “Questo coso è ancora un uomo? già un mostro? Un uomo non coincide forse col suo viso, cioè lì dove può essere indifferentemente sublime e atroce? Non so perché questo personaggio di Freaks condensato o ridotto a un solo membro in fasce (un membro e non un organo), a un manicotto rampante, come ci mostra la fotografia, evochi l’idea husserliana di quella curiosa sottrazione dei fenomeni che permette di raggiungere l’essenza”. E la Mummia sbrindellata di Terence Fisher: “Questa bambola gigantesca, fatta di stracci, di bende (tutto il suo corpo è una corazza purulenta), diventa, fin nei suoi occhi fasciati, uno sguardo della putrefazione che condanna il mondo”. Ma anche il volto incipriato della Nanà di Jean Renoir: “Questo essere non è desiderabile (porta persino la maschera dell’odio verso il desiderio), non è semplicemente mai sazio: è un essere che può tramutare il mondo intero in cibo”. Persino Stanlio & Ollio, Buster Keaton o Charlot sono mostruosi, quando la mente li proietta alla luce di una pallida lampadina nuda, nella cantina dove il bambino Schefer, futuro “uomo comune del cinema”, aspettava che passassero i bombardamenti, la guerra e l’infanzia: “Eppure è solo l’immagine, anzi di più: è la solitudine di quest’immagine”.
E se Schefer decompone e riduce un intero film all’infelicità senza desiderio di una sola immagine, forse è anche perché l’immagine stessa è chiamata alla decomposizione della pellicola, a un destino di disfacimento: “Ma da dove vengono i film?” si chiede Canosa nella postfazione: “e, poi, dove vanno? Comunque sono andati, quanto dire: sono film di un altro tempo (l’infanzia), ma anche spersi, consumati, ormai corrotti. Quel che resta è polvere”.
Un nulla? No: un (non)nulla. Ma se è così, allora perché Archibaldo de la Cruz afferma che il suo ricordo infantile, delizioso e delittuoso, gli è rimasto impresso nella memoria “come fosse una fotografia”?

domenica 7 dicembre 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

XVIII — SPARSE LE ALGHE MORBIDE

Indovina il titolo del film e vinci tre perle d'ostrica. Se non hai trovato, mercoledì potrai vedere un filmato più lungo e un'ostrica che si richiude. Venerdì la soluzione sarà talmente facile che meriterai una sola perla.



P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso l'avvocato Giorgio Poseidone e possono essere consultate qui. Ma i subbacqui dilettanti possono sempre allenarsi nella marana.

ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA DOMENICA 7 DICEMBRE ALLE 15.49.
IL CORPO DI OFELIA È STATO RIPESCATO DA MALVINO, NOTO ANCHE COME "LA LILLIAN GISH ITALIANA": ASSIEME A SHELLEY WINTERS RACCOGLIE TRE PERLE PIAZZANDOSI IN TERZA POSIZIONE AL SUO PRIMO TENTATIVO: COMPLIMENTI, PERCHÉ IL GIOCO ERA DIFFICILE, SECONDO ME.
IL TITOLO DA INDOVINARE ERA "LA MORTE CORRE SUL FIUME" (TITOLO ORIGINALE: "NIGHT OF THE HUNTER", CAPOLAVORO E UNICO FILM DI CHARLES LAUGHTON). ENTRO STASERA, TEMPO PERMETTENDO, MOSTRERÒ L'INTERA SEQUENZA.
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 14 DICEMBRE. LA POSTA IN GIOCO E LA VALUTA SONO ANCORA IN FORSE.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
bianca: 10 perle
.
arcomanno: 6
perle.
malvino: 3 perle.
andrea: 2
perle.
desaparecida: 2
perle.
orsopio: 1
perla e mezzo.
rabbi: 1
perla e mezzo.
adlimina: 1 perla
.

venerdì 5 dicembre 2008

Dacci un Taglio

Se bella giu satore
Je notre so cafore
Je notre si cavore
Je la tu la ti la twah

La spinash o la bouchon
Cigaretto Portabello
Si rakish spaghaletto
Ti la tu la ti la twah

Senora pilasina
Voulez-vous le taximeter?
Le zionta su la seata
Tu la tu la tu la wa

Sa montia si n’amora
La sontia so gravora
La zontcha con sora
Je la possa ti la twah

Je notre so lamina
Je notre so cosina
Je le se tro savita
Je la tossa vi la twah

Se motra so la sonta
Chi vossa l’otra volta
Li zoscha si catonta
Tra la la la la la la!

Dopo aver resistito per nove anni al sonoro, Charlie Chaplin si decide, in Tempi moderni (1936), a far ascoltare la sua voce. La canzone “Titine” sarà il solo suono emesso dal personaggio Charlot.

martedì 2 dicembre 2008

Dacci un Taglio

Il cinema, persino il cinema muto, non è mai riuscito ad essere un cinema completamente silenzioso: si tratta più che altro di un cinema assorbito dal mormorio (per esempio, le didascalie lette a bassa voce ai bambini nel corso della proiezione). E attraverso il silenzio bisbigliato nelle prime immagini, un ritorno di questa polvere nel nostro intimo, di questa luce, di questi corpi grigi; come se un bambino, seduto dentro di noi, ci tenesse ancora per mano.
Jean Louis Schefer, L’uomo comune del cinema (traduzione di Michele Canosa), Quodlibet, Macerata 2006, p. 87.

lunedì 1 dicembre 2008

Stanley Kubrick for dummies

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Stanley Kubrick e il fotografo Weegee.

II

1962-1999

LOLITA, 1962
Humbert Humbert perde la testa per Lolita, che porta occhiali a forma di cuoricino e succhia ancora i leccalecca. Ma lo perseguita Quilty, sempre pronto a guastargli la festa e ad assillarlo con allusioni oscene. Forse non esiste, forse è un fantasma dell’Overlook Hotel, o un monolito pecoreccio. Forse è solo la voce della coscienza, grottesco senso di colpa (Quilty/Guilty). Nel libro di Nabokov Kubrick intravede quello che, assieme all’Odissea, è il suo mito primordiale: Pinocchio.

DOTTOR STRANAMORE, OVVERO COME IMPARAI A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA (DR. STRANGELOVE OR: HOW I LEARNED TO STOP WORRYING AND LOVE THE BOMB, 1964)
Doveva essere un film serio: follie individuali, errori nel sistema di comunicazione e dispositivi segreti di reazione “preventiva” rendono possibile l’annientamento termonucleare dell’umanità. Ma nella strada che porta alla morte, troppa Vodka, troppa Coca-Cola, troppi missili fallici, troppi fluidi vitali repressi. E troppi, troppi Peter Sellers. Kubrick ce la mette tutta per ritardare l’esplosione, ma alla fine scoppia a ridere (e pare che nel film lo si possa sentire). L’atto di nascita del cinema demenziale.

2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (2001: A SPACE ODYSSEY, 1968)
Furiosamente ateo, Kubrick fissa su pellicola un’immagine di Dio in grado di soddisfarlo: un parallelepipedo regolare, senza asperità, opaco e perfetto. È un buco nero, e chi lo attraversa compie “the ultimate trip”, come promettevano le locandine dell’epoca (con doppi e tripli sensi). Come capita spesso alle anticipazioni, il tempo ha trasformato 2001 in ucronia. Ma stavolta le previsioni erano rigorosamente esatte; siamo noi a vivere in un presente sbagliato. Cambiamolo.

ARANCIA MECCANICA (A CLOCKWORK ORANGE, 1971)
Tanto il futuro di 2001 assumeva le sembianze di una tecnologia asettica proiettata nel cosmo, tanto l’avvenire piccolo borghese dell’Inghilterra di Alex DeLarge promette solo fatiscenti periferie metropolitane, ascensori rotti, graffiti osceni, barbarie e ultraviolenza. La scimmia preistorica, divenuta feto astrale alla fine di 2001, non sfocia nel superuomo, ma regredisce fino a ritrovare le proprie origini, neonato bestiale “senza legge” (A-lex).

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BARRY LYNDON, 1975
Modificando l’obiettivo Zeiss, Kubrick trasforma la cinepresa in macchina del tempo. Si ritrova nell’Inghilterra del Settecento, pochi anni prima della Rivoluzione francese. Sembra un documentario “impossibile”, ma le focali sensibilissime obbligano le persone all’atarassia delle belle statuine. Poco male: tanto non hanno nulla da dire. Finché uno di loro lascia cadere il braccio lungo il corpo, e invece di uccidere il nemico, spara per terra. Ed esce dal quadro.

SHINING (THE SHINING, 1980)
Jack Nicholson, Shelley Duvall e il figlio scelgono di passare l’inverno all’Overlook Hotel, costruito su un cimitero indiano. Pessima idea. Il figlio pedala solo soletto sul suo triciclo, e a furia di girare in tondo confonde ieri, oggi e domani. L’albergo è infestato di fantasmi dei roaring Twenties; la famiglia americana, già dissestata di suo, se la divorano a mezzanotte, obbligando padre e figlio a un remake gore di Bip-bip e il coyote. Ma a ridere resta solo Jack: in una fotografia scattata al ballo della festa dell’Indipendenza, il 4 luglio 1921.

FULL METAL JACKET (1987)
Dallo smoking dei fantasmi all'uniforme dei marines, dai cessi rossi dell'Overlook Hotel alle latrine blu di Parris Island: un world full of shit, letteralmente, in cui i soldati del sergente Hartman sono immersi come fosse l'unico dei mondi possibile, grazie a un eraserhead (film amatissimo dal regista) e reset cerebrale. Poi tutti a perdersi nel labirinto di Hue, senza sapere di essere a Londra. Un film ossessionato dall'assenza di donne, con una prima parte dedicata al fucile da battezzare con nomi femminili e una seconda che si chiude sul volto di una vietcong morente. Al centro, un culo di prostituta che si allontana ancheggiando. Un film tagliato in due: non come un'arancia; piuttosto come due natiche.

EYES WIDE SHUT (1999)
Un progetto perseguito per più di trent'anni, realizzato fino all'ultimo respiro di un montaggio a mio avviso non definitivo. Un uomo qualsiasi, come qualsiasi erano Dave Bowman o Jack Torrance, scopre attraverso il moltiplicarsi dei fenomeni sessuali che altro controlla, determina e dirige la sua esistenza. E che questo altro, questa "stoffa di cui son fatti i sogni” non è che il Tempo, qui incarnato nel perdurare eterno del desiderio fisico. Sì, la parola "forever" che le gemelle macellate sussurravano al piccolo Danny è terrificante, come nota Nicole Kidman. Meglio scopare.