lunedì 8 dicembre 2008

Jean Louis Schefer o la solitudine dell'immagine

La vita criminale di Archibaldo de la Cruz trae origine da un ricordo d’infanzia. Non serve un motivo, basta un motivetto: quello del carillon, da lui azionato mentre la bella governante osservava dalla finestra una sommossa popolare. Le rotelle del giocattolo innescano magiche causalità, complice l’ossessione: la ballerina-automa ruota su se stessa, sgranando la melodia della nevrosi; l’irrefrenabile erotismo di un impulso omicida attraversa la mente del bambino; carica della polizia, colpi di pistola; una pallottola colpisce la governante, che si accascia al suolo, irrigidita in una posa lasciva. Da quella notte, Archibaldo non penserà ad altro che a trasformare quel primo caso in necessità, a volgere l’affetto feticista in azione omicida, a farsi protagonista dei propri desideri di amore e morte. Ma il destino seguiterà a beffarlo, votandolo a una carriera di incolpevole omicida seriale, disseminata di morti violente senza delitto né castigo, e condannandolo alla suprema umiliazione del lieto fine. Estasi di un delitto, Luis Buñuel, 1953.



Il sonno del signor Ferrand è tormentato da un incubo, il cui segreto viene svelato progressivamente: è notte e la città dorme; il silenzio è rotto da un ticchettio regolare; il rumore si fa sempre più vicino, sempre più minaccioso. È prodotto da un bastone bianco, che tasta affannoso il selciato. Chi lo impugna è cieco: senz’altro lo stesso Ferrand, bambino. Ma è solo una finzione criminale: il bastone passa attraverso la grata di un cinema chiuso, l’estremità ricurva serve ad avvicinare il carrello delle fotografie del film Quarto potere. Il bambino stacca le immagini ad una ad una, le infila sotto il braccio e fugge a gambe levate, passando davanti a un negozio specializzato in apparecchi acustici. Ferrand si sveglia di soprassalto. Ora fa il regista, ed è sordo. Effetto notte, François Truffaut, 1973.



Ne L’uomo comune del cinema, lo storico dell’arte Jean Louis Schefer — allievo di Barthes e autore di numerosi saggi di semiotica figurativa, dedicati a Paolo Uccello, al Correggio, a El Greco, a Goya o a Chardin — perpetra per trentaquattro volte un analogo delitto, riesumando dal tessuto della propria memoria altrettanti fotogrammi: immagini strappate a un’arte dove l’illusione del movimento serve a mascherare “l’origine del crimine”, ossia il tempo, trasformando lo spettatore in solito sospetto. È un piccolo classico della letteratura cinematografica, e il lettore italiano ha dovuto aspettare un quarto di secolo per poterne finalmente leggere la traduzione dal francese, una vera e propria impresa condotta da Michele Canosa per le edizioni Quodlibet (Macerata).
A metà strada tra il saggio e l’autobiografia in absentia, Schefer ruota attorno all’esperienza della proiezione cinematografica, e fa della stessa proiezione una ruota (o una sfera) il cui centro invisibile coincide con l’occhio dello spettatore. La fonte di luce del libro si trova nella prima parte, appunto dedicata ai fotogrammi cinematografici, ciascuno di essi accompagnato da un testo breve che sembra richiamarsi alla poesia in prosa o, più precisamente, al blasone. Non sono quasi mai foto posate, ma scatti che in origine si inserivano in sequenze drammatiche, comunque dinamiche. Sono dunque fotografie rare, sconosciute, non sempre di qualità eccelsa, in un bianco e nero spesso sgranato. Il testo che le accompagna non è mai infondato, eppure non si limita a commentare le immagini: sembra piuttosto produrle, come se il fotogramma non preesistesse all’“uomo comune”, ma fosse il prodotto, lo “scatto” del ricordo, incerto tra una promessa di azione e la dissolvenza. La memoria dello spettatore-Schefer diventa in tal modo una camera oscura, e quel che in esso è restato imprigionato (impressionato) “non è il contrario dell’oblio, piuttosto il suo rovescio” come diceva Chris Marker nel film Sans soleil.

randian.jpg

L’esperienza dello spettatore è stata spesso paragonata a quella di una persona che sogna. E se il sonno della ragione (o della memoria) genera mostri, non sorprende allora che tutte le immagini di Schefer abbiano il sapore di un incubo. I fenomeni da baraccone in Freaks di Tod Browning, capitanati dal torso umano Prince Randian: “Questo coso è ancora un uomo? già un mostro? Un uomo non coincide forse col suo viso, cioè lì dove può essere indifferentemente sublime e atroce? Non so perché questo personaggio di Freaks condensato o ridotto a un solo membro in fasce (un membro e non un organo), a un manicotto rampante, come ci mostra la fotografia, evochi l’idea husserliana di quella curiosa sottrazione dei fenomeni che permette di raggiungere l’essenza”. E la Mummia sbrindellata di Terence Fisher: “Questa bambola gigantesca, fatta di stracci, di bende (tutto il suo corpo è una corazza purulenta), diventa, fin nei suoi occhi fasciati, uno sguardo della putrefazione che condanna il mondo”. Ma anche il volto incipriato della Nanà di Jean Renoir: “Questo essere non è desiderabile (porta persino la maschera dell’odio verso il desiderio), non è semplicemente mai sazio: è un essere che può tramutare il mondo intero in cibo”. Persino Stanlio & Ollio, Buster Keaton o Charlot sono mostruosi, quando la mente li proietta alla luce di una pallida lampadina nuda, nella cantina dove il bambino Schefer, futuro “uomo comune del cinema”, aspettava che passassero i bombardamenti, la guerra e l’infanzia: “Eppure è solo l’immagine, anzi di più: è la solitudine di quest’immagine”.
E se Schefer decompone e riduce un intero film all’infelicità senza desiderio di una sola immagine, forse è anche perché l’immagine stessa è chiamata alla decomposizione della pellicola, a un destino di disfacimento: “Ma da dove vengono i film?” si chiede Canosa nella postfazione: “e, poi, dove vanno? Comunque sono andati, quanto dire: sono film di un altro tempo (l’infanzia), ma anche spersi, consumati, ormai corrotti. Quel che resta è polvere”.
Un nulla? No: un (non)nulla. Ma se è così, allora perché Archibaldo de la Cruz afferma che il suo ricordo infantile, delizioso e delittuoso, gli è rimasto impresso nella memoria “come fosse una fotografia”?

Nessun commento: