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martedì 13 settembre 2022

Non solo Aldrich

È un aspetto credo singolarissimo dell'opera di Quentin Tarantino di cui mi resi conto con Pulp Fiction (il senso di Reservoir Dogs mi sfuggì per anni, sciaguratamente, al cinema mi capita spesso). Nella citazione si tratta di mascherare il riferimento inafferrabile (ma il cineipotalamo può sempre coglierlo) con l'omaggio pop: pop discutibilmente sottovalutato, o a rischio d'oblio altrettanto ingiusto, o fossilizzato nel rispetto accademico. Tarantino riesuma e dà nuova vita (il cinema anima cadaveri, dà movimento a fotogrammi congelati, non ha mai fatto altro) a un cosmo che non ha nulla a che fare con un panico caos postmoderno: per chi vuol vederla c'è una gerarchia, una massima concentrazione prodotta e richiesta. C'è "ordine", "metodo".
Barry Lyndon dietro Mandingo, Rohmer oltre il grindhouse, Lubitsch sotto Castellari.
Godard lo definì: "un facchino".
Non è detto che sia un insulto, anche se per Godard lo era di sicuro (Godard insultava tutti, era il suo "ordine", era il suo "metodo").
Anche perché in fondo, cosa fa un facchino?

– Dans cette valise…
– … Il y a des surprises!




lunedì 8 maggio 2017

No More Mr. Nice Guy: Macron al Louvre

– I expected someone like you. What did you expect? Are you an assassin?
– I'm a soldier.
– You're neither. You're an errand boy, sent by grocery clerks, to collect a bill.

Ai francesi non è stato concesso neppure un giorno di tregua.

Ieri sera, nella messinscena del Louvre, il frastornante "Inno alla gioia" era un trattamento Ludovico imposto a tutta una nazione: il vostro No espresso alla luce del giorno al fascismo di Le Pen si è tramutato al calare del sole in un Sì alla "Costituzione" europea che avevate rigettato nel 2005. "Statece": inchiodati davanti alla tv, con gli occhi sbarrati e il volume a manetta.
La strana camminata – dalla lentezza troppo a scatti per essere ieratica ma priva di umorismo montypythonesco – di una silhouette sfacciatamente bassa compensata da un'ombra sfacciatamente lunga, dove tutti hanno visto Napoleone e forse solo io il William Harford di Eyes Wide Shut cui si aprono finalmente none porte della Legge grazie a un "Fidelio" assegnato a forza da milioni di elettori.
Il volto lunare del prescelto e l'apice di una piramide divina in congiunzione astrale e perfettamente simmetrica ottenuta grazie a un'angolatura dal basso e centrale.
Il tutto in un'oscurità cosmica, nel buio notturno di un ritorno allo spazio riservato ai re, ai tempi in cui torpide Lady Lyndon firmavano assegni a rampanti avventurieri.

Chiaro: non fosse morto, riconosceremmo subito il regista di queste immagini. È lo stesso che girò lo sbarco sulla Luna.

Invece la messinscena è firmata dai comunicatori della campagna di Macron. A un certo punto anche i canali televisivi francesi si sono sentiti in dovere di dare l'informazione, con un brevissimo sottotitolo: "that's entertainment".
È come se i registi dell'incoronazione di Emmanuel Macron avessero avuto un'intuizione. Il nostro candidato viene attaccato come l'uomo dei banchieri, della mano invisibile del potere, del falso, della massoneria, dei produttori di Armstrong che a scatti poggia il piede sulla Luna in uno studio hollywoodiano.
Allora noi li prendiamo in contropiede. Li mandiamo in cortocircuito: eccolo, il caro vecchio Ludwig Van; eccola, l'orgia misterica di tutti i Palazzi della finanza; eccola, l'alba dell'umanità; eccola, la notte di tutte le Républiques. E quindi li lasciamo "radicalizzarsi": la massoneria, la piramide, Dio, la Luna, il dito, la notte, la moglie anziana, il tizio con il berretto, Beethoven. Si facciano esplodere in rete.

Una novità: in analoghe messinscene recenti, i personaggi e i canovacci comportavano sempre una componente comica, la battuta, "l'ironia" d'ordinanza, a volte la "simpatica" cialtronaggine, nella peggiore delle ipotesi il ghigno. Il film Macron al Louvre è plumbeo, è il "No more mister Nice Guy" di un horror di Wes Craven che lo psicopatico "fritto" sulla sedia elettrica minacciava sarcastico al mondo intero: prima di reincarnarsi, complice la rete elettrica, su tutti i televisori domestici. È stato invece paragonato nelle ultime ventiquattr'ore a Mitterrand al Panthéon (regia di Serge Moati), ma stranamente non ho sentito nessuno che ricordasse cosa ci facesse nel 1981 il presidente neoeletto al mausoleo: andava a raccogliersi davanti alla tomba di Jean Moulin. Tra Mitterrand e il "sacro" c'era una storia precisa. La storia raccontata dal film era falsa, come si scoprì negli anni, ma qualcosa in quel preciso momento raccontava. Tra Macron e la Piramide non c'è alcuna storia: una pagina bianca. O meglio, riempita di simboli decapitati (i re) o fasulli (icone date in pasto ai complottisti).

Vivo da quarant'anni a Parigi, uno spettacolo così sinistro non l'ho mai visto in tutta la storia politica francese.
Un giorno, a bocce ferme, accantonati i codici Da Vinci e dando per scontato l'allunaggio, di questa oscenità spero che si potrà parlare.



– They told me that you had gone totally insane, and that your methods were unsound.
– Are my methods unsound?

– I don't see any method at all, sir.

mercoledì 4 marzo 2015

Su "Birdman"

I bambini ci guardano; e noi esegeti, noi camarlinghi dell’estetica cinematografica,
maneggiamo camorri verbali come valido e messaggio; estendiamo, fino a non capirci più nulla,
i participiali vibrante e allucinante (rampini nel vuoto), e alimentiamo il debole pensiero con troppo comode atmosfere e suggestioni.
Leo Pestelli, Parlare italiano, Longanesi & C., Milano 1967, p. 44.
 
Non è tanto che scoprano solo ora il piano sequenza. È che scoprendolo male, senza porsi il problema di sapere cosa sia, le questioni che implica, quando è nato, come si è sviluppato e infine come è morto ECCO il punto è che lo scoprono da morto. Ricordo mesi fa una conversazione in un social network, qualcuno sosteneva che un virtuoso e lungo movimento di macchina girato al computer in non so quale produzione Marvel non fosse neppure lontanamente paragonabile, mettiamo, all'inizio de L'infernale Quinlan. E non lo è, si badi, a monte ma anche a valle (e a valle i commentatori digrignavano, lanciando "rampini nel vuoto"). Portando all'estremo quel discorso, direi che ormai il pianosequenza è un espediente kitsch, da sbruffoni maleducati, e probabilmente persino un De Palma oggi lo userebbe solo in quel senso (ma in realtà credo che lo abbia sempre fatto). Ma come, nel 2015 giri due ore e mezza senza mai tagliare e te ne vanti pure? Forse i piani sequenza che salvo sono ormai solo quelli "fantasticati in diretta" e che "in realtà" comportano un numero notevole di stacchi.




P.S.: La prima immagine della sequenza (inizia prima, ed è proprio l'inizio la parte più bella, ma purtroppo in rete non si trova intera) è un omaggio all'ultima scena di Barry Lyndon. Pochi giorni fa mi son reso conto che probabilmente in tutta l'opera di Kubrick non si trova un solo piano sequenza. Forse non era nel suo character.

lunedì 30 novembre 2009

Bara con nighthawk e cowboy

Don't that picture look dusty?
Jesse James (Brad Pitt) nell'Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (Andrew Dominik, 2007).


Parlo da ex cinefilo e poi ex cinefago. Per entrambi, senza Hopper non si dà né lo Huston urbano di Città amara né il Malick agreste dei Giorni del cielo (dove la fotografia dell'ormai quasi cieco Almendros si nutre di moltissime altre influenze, da Vermeer a Wyeth). Ognuno parla guardando le storie, i film che si proietta: il che significa che ognuno parla senza ascoltare quel che dice. Proprio stasera, rivedendo un pezzo del would-be Malick ma non disonorevole Jesse James di Dominik, mi sono detto che se proprio si volesse fare un appunto a Hopper, esso muoverebbe da una blanda critica per un eccesso di nitidezza iperrealista, che sembra rassicurare sulla presenza viva dell'essere proprio mentre vorrebbe rappresentarne la sottrazione. Non dico che l'artista avrebbe avuto in pugno l'Unheimlich se si fosse limitato a rendere blurry le sue figure come nelle immagini di questo strano film dove il futuro assassinio di un uomo si rappresenta borgesianamente agli occhi dell'omicida come già compiuto, inesorabile: "His fingers skittered over his ribs to construe the scars where Jesse was twice shot. He manufactured a middle finger that was missing the top two knuckles. He imagined himself at 34. He imagined himself in a coffin. He considered possibilities and everything wonderful that could come true". È come se Hopper fosse scivolato sulla rutilante superfice della tradizione americana senza mai scrivere la propria Isola del tesoro, che infatti firmò uno scozzese ma in cui c'era già tutto Peckinpah, più classico di quel che si pensa, se "classico" significasse qualcosa. Raccontare the ultimate pirate story, sapendo che quel tempo è concluso, e integrare la consapevolezza di questa narrazione post mortem all'interno del quadro stesso.
L'isola del tesoro è scritto come in soggettiva, da una bara. Più che alla celebre sequenza di Vampyr, penso a Long John Silver e ai suoi pirati come a un mucchio selvaggio ante litteram o anche alla didascalia finale di Barry Lyndon, assente dal romanzo di Thackeray. E forse ci ho pensato anche perché sono convinto che la grandezza del romanzo di Stevenson risieda nella sua perfetta inadattabilità, nel suo essere un libro fatto esclusivamente di carta, che comincia e finisce in letteratura. Il fallimento dei vari adattamenti mi sembra confermarlo, e persino il Fleming richiede allo spettatore di non aver letto o di accantonare il ricordo del libro e di guardare esclusivamente Wallace Beery. Mentre in effetti ci sono pittori che sembrano aspettare di essere adattati (e risolti, spesso in modo migliore) al cinema, il che non toglie nulla al loro genio ma ai miei occhi li rende l'equivalente pittorico e "alto" di uno Stephen King, scrittore tutt'altro che spregevole, a scanso d'equivoci.
Ma d'altra parte, può darsi che Hopper abbia avuto l'intuizione della contemporaneità, qualcosa che Stevenson forse non poteva immaginare, ossia la presa del potere non da parte di Luigi XIV, e neppure da parte del "popolo" o del "cittadino", ma dell'ascensore, e che si sia adattato a rappresentare una metafisica d'ascensore, un'attesa dell'ascensore, un'assenza di Dio nell'ascensore.

lunedì 1 dicembre 2008

Stanley Kubrick for dummies

Stanley Kubrick e il fotografo Weegee.

II

1962-1999

LOLITA, 1962
Humbert Humbert perde la testa per Lolita, che porta occhiali a forma di cuoricino e succhia ancora i leccalecca. Ma lo perseguita Quilty, sempre pronto a guastargli la festa e ad assillarlo con allusioni oscene. Forse non esiste, forse è un fantasma dell’Overlook Hotel, o un monolito pecoreccio. Forse è solo la voce della coscienza, grottesco senso di colpa (Quilty/Guilty). Nel libro di Nabokov Kubrick intravede quello che, assieme all’Odissea, è il suo mito primordiale: Pinocchio.

DOTTOR STRANAMORE, OVVERO COME IMPARAI A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA (DR. STRANGELOVE OR: HOW I LEARNED TO STOP WORRYING AND LOVE THE BOMB, 1964)
Doveva essere un film serio: follie individuali, errori nel sistema di comunicazione e dispositivi segreti di reazione “preventiva” rendono possibile l’annientamento termonucleare dell’umanità. Ma nella strada che porta alla morte, troppa Vodka, troppa Coca-Cola, troppi missili fallici, troppi fluidi vitali repressi. E troppi, troppi Peter Sellers. Kubrick ce la mette tutta per ritardare l’esplosione, ma alla fine scoppia a ridere (e pare che nel film lo si possa sentire). L’atto di nascita del cinema demenziale.

2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (2001: A SPACE ODYSSEY, 1968)
Furiosamente ateo, Kubrick fissa su pellicola un’immagine di Dio in grado di soddisfarlo: un parallelepipedo regolare, senza asperità, opaco e perfetto. È un buco nero, e chi lo attraversa compie “the ultimate trip”, come promettevano le locandine dell’epoca (con doppi e tripli sensi). Come capita spesso alle anticipazioni, il tempo ha trasformato 2001 in ucronia. Ma stavolta le previsioni erano rigorosamente esatte; siamo noi a vivere in un presente sbagliato. Cambiamolo.

ARANCIA MECCANICA (A CLOCKWORK ORANGE, 1971)
Tanto il futuro di 2001 assumeva le sembianze di una tecnologia asettica proiettata nel cosmo, tanto l’avvenire piccolo borghese dell’Inghilterra di Alex DeLarge promette solo fatiscenti periferie metropolitane, ascensori rotti, graffiti osceni, barbarie e ultraviolenza. La scimmia preistorica, divenuta feto astrale alla fine di 2001, non sfocia nel superuomo, ma regredisce fino a ritrovare le proprie origini, neonato bestiale “senza legge” (A-lex).


BARRY LYNDON, 1975
Modificando l’obiettivo Zeiss, Kubrick trasforma la cinepresa in macchina del tempo. Si ritrova nell’Inghilterra del Settecento, pochi anni prima della Rivoluzione francese. Sembra un documentario “impossibile”, ma le focali sensibilissime obbligano le persone all’atarassia delle belle statuine. Poco male: tanto non hanno nulla da dire. Finché uno di loro lascia cadere il braccio lungo il corpo, e invece di uccidere il nemico, spara per terra. Ed esce dal quadro.

SHINING (THE SHINING, 1980)
Jack Nicholson, Shelley Duvall e il figlio scelgono di passare l’inverno all’Overlook Hotel, costruito su un cimitero indiano. Pessima idea. Il figlio pedala solo soletto sul suo triciclo, e a furia di girare in tondo confonde ieri, oggi e domani. L’albergo è infestato di fantasmi dei roaring Twenties; la famiglia americana, già dissestata di suo, se la divorano a mezzanotte, obbligando padre e figlio a un remake gore di Bip-bip e il coyote. Ma a ridere resta solo Jack: in una fotografia scattata al ballo della festa dell’Indipendenza, il 4 luglio 1921.

FULL METAL JACKET (1987)
Dallo smoking dei fantasmi all'uniforme dei marines, dai cessi rossi dell'Overlook Hotel alle latrine blu di Parris Island: un world full of shit, letteralmente, in cui i soldati del sergente Hartman sono immersi come fosse l'unico dei mondi possibile, grazie a un eraserhead (film amatissimo dal regista) e reset cerebrale. Poi tutti a perdersi nel labirinto di Hue, senza sapere di essere a Londra. Un film ossessionato dall'assenza di donne, con una prima parte dedicata al fucile da battezzare con nomi femminili e una seconda che si chiude sul volto di una vietcong morente. Al centro, un culo di prostituta che si allontana ancheggiando. Un film tagliato in due: non come un'arancia; piuttosto come due natiche.

EYES WIDE SHUT (1999)
Un progetto perseguito per più di trent'anni, realizzato fino all'ultimo respiro di un montaggio a mio avviso non definitivo. Un uomo qualsiasi, come qualsiasi erano Dave Bowman o Jack Torrance, scopre attraverso il moltiplicarsi dei fenomeni sessuali che altro controlla, determina e dirige la sua esistenza. E che questo altro, questa "stoffa di cui son fatti i sogni” non è che il Tempo, qui incarnato nel perdurare eterno del desiderio fisico. Sì, la parola "forever" che le gemelle macellate sussurravano al piccolo Danny è terrificante, come nota Nicole Kidman. Meglio scopare.