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lunedì 29 dicembre 2008

È pericoloso sporgersi

“Gli spettatori impietriscono quando passa il treno”: è la prima frase scritta da Franz Kafka nel Diario. A cosa alludeva, in quel pugno di parole vergate nel 1910? A una delle prime proiezioni pubbliche e paganti della storia del cinema, dove pare che il minaccioso avvicinarsi di un treno abbia fatto trasalire la platea (ma nella realtà arrivava alla stazione di La Ciotat: cinquanta secondi impressionati su pellicola da Louis Lumière nel 1895)? Oppure a L’Assalto al treno (Edwin S. Porter, 1903), uno dei primi western, con il primo piano del bandito che punta la rivoltella contro gli spettatori, e spara?
Sono tanti gli indizi che portano a pensare che quella del cinema sia un’ontologia ferroviaria. Fissando la locomotiva, la macchina da presa si rimira nello specchio dell’era industriale: treno e cinema sono le sue più grandi invenzioni. E guardando scorrere in senso orizzontale una pellicola attraversata da un fascio di luce, è fin troppo facile dissolvere l’immagine incrociandola con le luci notturne dei finestrini che rapide si susseguono, fino all’ultimo vagone. Così in Effetto notte, quando Alphonse (Jean-Pierre Léaud) vuole abbandonare le riprese del film che sta girando François Truffaut, il regista lo sprona a superare i capricci personali: “Lo so che c’è la vita privata, ma la vita privata zoppica per tutti. I film sono più armoniosi della vita: nei film non ci sono ingorghi, non ci sono tempi morti. I film avanzano come treni, come treni nella notte”.


Quanti treni sono passati, davanti ai nostri occhi. Quanti treni per Yuma, nei mezzogiorni di fuoco, quando c’era una volta il West e dai vagoni scendevano cavalieri dalle lunghe ombre. A ricordarli tutti ci vorrebbe una vita di cinefago, come l’ideale carta geografica di Borges, che avrebbe dovuto dispiegarsi sull’intero pianeta. Lo sapeva Alfred Hitchcock, che sul tema meriterebbe una rubrica speciale: sui suoi treni scompaiono affabili vecchiette e si incrociano e rivelano destini che avrebbero fatto meglio a restare “sconosciuti”. La ciminiera sbuffa nuvole di fumo nero: “l’ombra di un dubbio” cala sull’amata e attesa figura dello zio Charlie. Una nuvola di fumo bianco: lo zio Charlie, massacratore di vedove, è svanito. E alla fine di Intrigo internazionale (ma il titolo inglese, North by Northwest, evoca un binario dada ed è molto più bello), il treno che trasporta gli sposi Cary Grant e Eva Marie Saint si infila nel tunnel: alludendo a penetrazioni ben più intime.
“Mentre il treno trasportava Mariannina Terranova verso la sua tragica meta, mentre la trasportava inarrestabile come inarrestabile era il fato che la spingeva, lei, piccola e povera creatura del Sud, avvolta nell’antico scialle scuro, simbolo del pudore delle nostre donne, le mani congiunte a torturarsi il grembo, quel grembo da Dio condannato — sacra condanna! — ai beati tormenti della maternità, mentre il treno correva, così, come un incubo incessante, dove risonava il ritmico fragore delle ruote e degli stantuffi, alle orecchie deliranti della povera Mariannina Terranova: disonorata disonorata disonorata disonoratadisonoratadisonorata…” A parlare non è Rocco Buttiglione in preda a raptus retorico scatenato da chissà quali “convinzioni personali”, ma quell’istrione dell’avvocato in Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961): e Fefé (Marcello Mastroianni) se lo beve tutto, quel corposo Salaparuta di parole, pregustando il futuro assassinio dell’insopportabile moglie, già assolto nella coscienza ancor prima che dalla Legge. Sogna la giovanissima Stefania Sandrelli, che però ha già preso la coincidenza per Roma, in Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1965), e invece dell’agognata gloria cinematografica si arena in una villa pariolina dove Ugo Tognazzi in piedi su un tavolo “fa il treno”, mimando con tutto il corpo l’inesorabile pistoneggiare, veloce, più veloce, ancora più veloce: in attesa dell’immancabile collasso cardiaco. La più grande performance d’attore di tutti i tempi. E con Tognazzi ci piacerebbe concludere il viaggio.


Ma purtroppo c’è un altro treno. Scivola nel silenzio di un pomeriggio uggioso del 1985, senza sferragliare, attraversando campagne grigie e deserte. A bordo c’è solo un vecchio capotreno: fa pensare a Buster Keaton, ma non quando interpretava il tenero ferroviere sudista perduto con la sua locomotiva “The General” oltre le linee nemiche; piuttosto alla sua ombra inquietante, fantasma di rughe nel beckettiano Film (1965). Quarant’anni prima quel treno viaggiava senza sosta, in un’unica direzione, sempre pieno di esseri umani; un viaggio lunghissimo, atroce, al termine della notte. Le rotaie portavano a un cancello, sul quale c’era scritto che il lavoro rende liberi. Varcandolo, il treno entrava in Inferno. Il binario era un vicolo cieco, e il viaggio finiva lì. A questo punto, tra quei casermoni abbandonati, il regista Claude Lanzmann ha preso una decisione terribile, introducendo l’unico momento di finzione nel suo documentario. Una scelta eretica, sconvolgente ma indispensabile, per la sopravvivenza del cinema, per la nostra stessa sopravvivenza.
Lanzmann ha diretto il vecchio ferroviere, come fosse un attore. Gli ha chiesto di ripetere il gesto che soleva indirizzare ai passeggeri usciti vivi dal viaggio, ma già fatti allineare da guardie vociferanti, armate di mitra, cani rabbiosi al guinzaglio. Nel deserto di Treblinka, il vecchio ferroviere ci ha guardati, ha stretto il pugno grinzoso accanto alla testa, lasciando fuoruscire l'indice. E ha fatto correre l'indice lungo il collo, da sinistra a destra.
Si dice che il cinema sia una macchina del tempo, nel senso che ci permette di guardare il nostro passato. Ma forse anche perché sulla pellicola qualcosa del futuro, dei suoi peggiori incubi, rimane impresso, come uno spettro, come le ombre calcinate delle vittime di Hiroshima. O come uno shining. E allora forse Franz Kafka pensa a Shoah, scrivendo che gli spettatori impietriscono, quando passa il treno.

lunedì 8 dicembre 2008

Jean Louis Schefer o la solitudine dell'immagine

La vita criminale di Archibaldo de la Cruz trae origine da un ricordo d’infanzia. Non serve un motivo, basta un motivetto: quello del carillon, da lui azionato mentre la bella governante osservava dalla finestra una sommossa popolare. Le rotelle del giocattolo innescano magiche causalità, complice l’ossessione: la ballerina-automa ruota su se stessa, sgranando la melodia della nevrosi; l’irrefrenabile erotismo di un impulso omicida attraversa la mente del bambino; carica della polizia, colpi di pistola; una pallottola colpisce la governante, che si accascia al suolo, irrigidita in una posa lasciva. Da quella notte, Archibaldo non penserà ad altro che a trasformare quel primo caso in necessità, a volgere l’affetto feticista in azione omicida, a farsi protagonista dei propri desideri di amore e morte. Ma il destino seguiterà a beffarlo, votandolo a una carriera di incolpevole omicida seriale, disseminata di morti violente senza delitto né castigo, e condannandolo alla suprema umiliazione del lieto fine. Estasi di un delitto, Luis Buñuel, 1953.

Il sonno del signor Ferrand è tormentato da un incubo, il cui segreto viene svelato progressivamente: è notte e la città dorme; il silenzio è rotto da un ticchettio regolare; il rumore si fa sempre più vicino, sempre più minaccioso. È prodotto da un bastone bianco, che tasta affannoso il selciato. Chi lo impugna è cieco: senz’altro lo stesso Ferrand, bambino. Ma è solo una finzione criminale: il bastone passa attraverso la grata di un cinema chiuso, l’estremità ricurva serve ad avvicinare il carrello delle fotografie del film Quarto potere. Il bambino stacca le immagini ad una ad una, le infila sotto il braccio e fugge a gambe levate, passando davanti a un negozio specializzato in apparecchi acustici. Ferrand si sveglia di soprassalto. Ora fa il regista, ed è sordo. Effetto notte, François Truffaut, 1973.



Ne L’uomo comune del cinema, lo storico dell’arte Jean Louis Schefer — allievo di Barthes e autore di numerosi saggi di semiotica figurativa, dedicati a Paolo Uccello, al Correggio, a El Greco, a Goya o a Chardin — perpetra per trentaquattro volte un analogo delitto, riesumando dal tessuto della propria memoria altrettanti fotogrammi: immagini strappate a un’arte dove l’illusione del movimento serve a mascherare “l’origine del crimine”, ossia il tempo, trasformando lo spettatore in solito sospetto. È un piccolo classico della letteratura cinematografica, e il lettore italiano ha dovuto aspettare un quarto di secolo per poterne finalmente leggere la traduzione dal francese, una vera e propria impresa condotta da Michele Canosa per le edizioni Quodlibet (Macerata).
A metà strada tra il saggio e l’autobiografia in absentia, Schefer ruota attorno all’esperienza della proiezione cinematografica, e fa della stessa proiezione una ruota (o una sfera) il cui centro invisibile coincide con l’occhio dello spettatore. La fonte di luce del libro si trova nella prima parte, appunto dedicata ai fotogrammi cinematografici, ciascuno di essi accompagnato da un testo breve che sembra richiamarsi alla poesia in prosa o, più precisamente, al blasone. Non sono quasi mai foto posate, ma scatti che in origine si inserivano in sequenze drammatiche, comunque dinamiche. Sono dunque fotografie rare, sconosciute, non sempre di qualità eccelsa, in un bianco e nero spesso sgranato. Il testo che le accompagna non è mai infondato, eppure non si limita a commentare le immagini: sembra piuttosto produrle, come se il fotogramma non preesistesse all’“uomo comune”, ma fosse il prodotto, lo “scatto” del ricordo, incerto tra una promessa di azione e la dissolvenza. La memoria dello spettatore-Schefer diventa in tal modo una camera oscura, e quel che in esso è restato imprigionato (impressionato) “non è il contrario dell’oblio, piuttosto il suo rovescio” come diceva Chris Marker nel film Sans soleil.


L’esperienza dello spettatore è stata spesso paragonata a quella di una persona che sogna. E se il sonno della ragione (o della memoria) genera mostri, non sorprende allora che tutte le immagini di Schefer abbiano il sapore di un incubo. I fenomeni da baraccone in Freaks di Tod Browning, capitanati dal torso umano Prince Randian: “Questo coso è ancora un uomo? già un mostro? Un uomo non coincide forse col suo viso, cioè lì dove può essere indifferentemente sublime e atroce? Non so perché questo personaggio di Freaks condensato o ridotto a un solo membro in fasce (un membro e non un organo), a un manicotto rampante, come ci mostra la fotografia, evochi l’idea husserliana di quella curiosa sottrazione dei fenomeni che permette di raggiungere l’essenza”. E la Mummia sbrindellata di Terence Fisher: “Questa bambola gigantesca, fatta di stracci, di bende (tutto il suo corpo è una corazza purulenta), diventa, fin nei suoi occhi fasciati, uno sguardo della putrefazione che condanna il mondo”. Ma anche il volto incipriato della Nanà di Jean Renoir: “Questo essere non è desiderabile (porta persino la maschera dell’odio verso il desiderio), non è semplicemente mai sazio: è un essere che può tramutare il mondo intero in cibo”. Persino Stanlio & Ollio, Buster Keaton o Charlot sono mostruosi, quando la mente li proietta alla luce di una pallida lampadina nuda, nella cantina dove il bambino Schefer, futuro “uomo comune del cinema”, aspettava che passassero i bombardamenti, la guerra e l’infanzia: “Eppure è solo l’immagine, anzi di più: è la solitudine di quest’immagine”.
E se Schefer decompone e riduce un intero film all’infelicità senza desiderio di una sola immagine, forse è anche perché l’immagine stessa è chiamata alla decomposizione della pellicola, a un destino di disfacimento: “Ma da dove vengono i film?” si chiede Canosa nella postfazione: “e, poi, dove vanno? Comunque sono andati, quanto dire: sono film di un altro tempo (l’infanzia), ma anche spersi, consumati, ormai corrotti. Quel che resta è polvere”.
Un nulla? No: un (non)nulla. Ma se è così, allora perché Archibaldo de la Cruz afferma che il suo ricordo infantile, delizioso e delittuoso, gli è rimasto impresso nella memoria “come fosse una fotografia”?