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giovedì 13 maggio 2021

In the Earth (Ben Wheatley, 2021)

Quatto quatto e per quattro sterline, Ben Wheatley (uno dei registi più interessanti degli ultimi dieci anni) ti rifila con In the Earth il primo film sulla pandemia.
Lo fa dimostrando che nel cinema la sceneggiatura conta poco o nulla: in questo caso fa acqua da tutte le parti. Regia e montaggio trasformano ogni singola falla nello scafo in nesso onirico. Il Covid-19 è un incubo, dove la coppia di turisti psicopatici di Sightseers finisce nell'huis clos a cielo aperto di A Field in England: l'inferno sono più che mai gli altri, anche se fortunatamente a Sartre non si pensa mai, piuttosto a Shyamalan, al Peter Strickland di Berberian Sound Studio, alle famiglie di attori scorrette, scorreggione, esilaranti e spaventose di Inside No. 9 e di The League of Gentlemen (qui rappresentata da Reece Shearsmith, forse il più Proteo di tutta la cricca, sempre irriconoscibile e immediatamente identificabile), forse agli splendidi The Battery, Tex Montana Will Survive! e After Midnight di Jeremy Gardner, nonché, ovvio, a tutta la tradizione british del folk-horror, rivisitata con massima sprezzatura e minimo disprezzo, così come di fatto quella tradizione ha sempre fatto nei confronti di se stessa, è la sua forza, è per quello che sopravvive e "a volte ritorna".
Un incubo, sì, ma un incubo cinematografico. Wheatley sa che è un ossimoro, perché l'incubo è squisita espressione soggettiva, mentre il cinema conosce solo il racconto in terza persona. Quindi anche David Lynch. Quindi anche Stanley Kubrick. E detto sottovoce, quatto quatto, molto Ben Wheatley.
(Cinque virgola due su imdb. Contenti loro.)


P.S.: L'immagine che ho scelto si trova poco dopo l'inizio – splendido e "seminale": una serie di incomprensibili variazioni sulla mascherina, chi ce l'ha, chi non ce l'ha, chi la toglie e chi la rimette: senza che mai si colga una logica sanitaria o narrativa – e credo sia quasi una costante nell'opera di Wheatley. Segue un movimento di macchina kubrickiano, di avvicinamento minaccioso o gnostico, ma senza che la distanza tra la cinepresa e i personaggi venga realmente colmata o anche solo ridotta. Mi son chiesto come si ottenesse quell'effetto, e rivedendo la sequenza un paio di volte credo che sia combinando un carrello avanti con una lievissima panoramica verticale verso l'alto, che di fatto "toglie la terra da sotto i piedi" dando l'illusione o la segreta verità di uno spazio umano che si riduce.

giovedì 5 settembre 2019

The Dead Don't Die (Jim Jarmusch, 2019)

The Dead Don't Die, dato il tema e il cast francamente obeso, era prevedibilmente inutile, forse divertito e di certo poco divertente. La visione conferma le magre aspettative, anche se il film si rivela meno irritante di Only Lovers Left Alive, altra incursione in chiave languido-poeticistica nel genere horror, che al nostro sembra interessare poco o nulla, come sembra interessargli poco o nulla da un ventennio qualsiasi cosa faccia. Questo menefreghismo lo spaccia per sprezzatura, e in alcune scene, per esempio di Paterson, la truffa sembra quasi funzionare. Nulla da obiettare in particolare (salvo i folli e inerti riferimenti metafilmici, Adam Driver cui "Jim" ha dato da leggere "l'intero copione" mentre il povero Bill Murray ha avuto accesso solo alle sue scene, simili sciocchezze e strizzatine d'occhio costellano tutto il film, sono sempre state una pessima idea, almeno in Mezzogiorno di fuoco Mel Brooks le raggruppava tutte nel trascurabile finale). Il film non è irrispettoso nei confronti dei suoi predecessori, anzi. Solo che essi lo spiaccicano senza pietà. O meglio: lo spettatore assiste leggermente sbigottito allo spettacolo di un regista che si stende in mezzo all'autostrada facendosi travolgere da una teoria di autotreni, da quello targato Twin Peaks a quello che trasporta "trilogia di Romero" e lo spin-off Diary of the Dead, dalle finte e geniali parodie Shaun of the Dead e The Battery alla Pussy Wagon che trasporta The Bride Uma Thurman e già che ci siamo anche Michonne di The Walking Dead, se abbiamo Tilda Swinton non facciamoci mancare nulla, anzi no, improvvisamente arriva un'astronave e se la porta via, sembra un po' il sogno da fantascienza depressa de L'uomo che non c'era e un po' quello di un uomo che dorme senza sognare nulla, un uomo felice, a suo modo felice. Tutti doviziosamente omaggiati, quasi tutti ricordati nei titoli di coda, ringraziati, venerati, anche forse un po' disprezzati, come forse è un po' disprezzato lo spettatore, ma sempre con tanto affetto "molto molto" newyorchese.

The Dead Don't Die rivela una certa verità del cinema di Jarmusch, che da giovane era stato allievo e amico di un Nicholas Ray ormai abbastanza impazzito. In fondo Jarmusch è la versione contemporanea e pop di Louis Malle, che abbandonò da giovane una carriera abbastanza promettente di documentarista per darsi al "cinema d'autore", stando sempre bene attento a non turbare nessuno, a cogliere le idee più originali e innovative quando esse erano diventate perfettamente identificabili, decifrabili, accettabili, in una parola "culturali".

NOTA

Molti film di Jarmusch non sono esattamente pallosi. È abbastanza palloso Stranger Than Paradise, tutta la parte di Down by Law con il solo Benigni lasciato incontrollato è pallosissima, come pallosissimi sono Mystery Train (tranne forse l'episodio giapo) e aiutami a dire Night on Earth, è alla lunga palloso l'Indiano che spiega le cose in Dead Man, certe inquadrature dall'alto con filo a piombo ripetute con pigro compiacimento in Only Lovers Left Alive, qui la gag su "Sarà stato un animale, o forse tanti animali", forca caudina sotto la quale devono passare prima Murray, poi Driver, infine Sevigny, quando arriva Sevigny già lo sai che deve dire quella cosa là e che tu dovrai ridere, quindi subisci due minuti, due minuti al cinema possono essere un'eternità, e quell'eternità non produce nulla, è solo un'esperienza sfiancante, finché lei dice "Sarà stato un animale" ecc. e non ridi, e quel tuo non ridere a sua volta non cambia nulla della tua esistenza, né è grave che lo faccia o meno, stai solo subendo il tutto mentre qua e là cogli qualche lacerto di bellezza comunque compreso nel prezzo, per esempio Adam Driver per ora continua a essere un corpaccione singolare, ma è merito credo abbastanza naturale di Adam Driver e del suo singolare corpaccione, va bene anche se a riprenderlo è Alan Smithee. È quello il problema, che spesso quello che ci piace in Jarmusch ci sarebbe piaciuto comunque, anche senza Jarmusch.