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lunedì 11 ottobre 2021

Squid Game (Hwang Dong-Hyuk, 2021)

Finito due sere orsono. L'idea che mi sono fatto è che lo sceneggiatore e regista Hwang Dong-Hyuk avesse ben chiari (pare da un decennio e mezzo) i primi due episodi e l'ultimo, ma non si sia reso conto di quanto il secondo episodio mandi in tilt di verosimiglianza il tutto (finire là dentro, passi; tornarci, andava spiegato meglio). Fuori da quella sceneggiatura non c'è niente o quasi (quel "quasi" è forse il motivo per cui l'ho vista per intero, come per altre serie recenti, da Mare of Easttown a The Undoing): quindi la serie è solo quella sceneggiatura, con i suoi pregi e difetti. In mezzo c'è un "bolo" moderatamente avvincente, moderatamente spassoso, non esattamente originale. Eufemismo: La settima vittima di Robert Sheckley è datato 1953 e su questa striminzita distopia satirica si è ricamato con centinaia di libri, film, fumetti, videogiochi, serie. Il fatto che negli ultimi decenni la televisione, internet e parte dell'umanità (come protagonista, spettatrice o entrambi) abbia trasformato quella distopia in realtà non giustifica la ripetizione, a meno che essa non si concentri precisamente su quell'inveramento. La serie non fa questo. Quel bolo non è privo di qualità (principalmente un parco attori eccelso, cosa che in Corea del Sud è norma da tempo), ma manca di qualsiasi qualità particolare (Eigenschaften), in un certo senso simile alla "perfezione" di un Parasite, che colpisce al cuore tutti gli spettatori e nessuno di noi preso individualmente, qui, ora. Non c'è un minimo dettaglio della scenografia, dei costumi, dei colori, delle figure geometriche che non sia raccattato con più o meno furbizia, più o meno latrocinio, dall'immaginario Walmart degli ultimi settant'anni: dal disneyano e lievemente sottovalutato Buco nero alla Nintendo di SuperMario, dall'inguardabile Fuga di Logan ai simboli del controller PlayStation (non oso nominare Black Mirror perché sarebbe insulto eccessivo, Black Mirror è veramente il Male assoluto). Tutto in "salsa" coreana, senza nulla del genio coreano. Cucina internazionale, installazione esausta, macchina celibe e in fin dei conti il Kitsch secondo la definizione di Hermann Broch (che comprendeva già il fulmineo e quindi necessariamente, inevitabilmente effimero successo planetario non come riscatto ma come sintomo). La fotografia è Netflix per difetto, quando va bene; nulla, quando va male.
Nessuna immagine per illustrare il post, perché già ora non ne ricordo una.

EDIT e P.S.: Un'immagine, via, e malgrado tutto. Forse questa, presa dall'ultimo episodio, sicuramente il migliore. La serie ha i suoi momenti, le sue verità più o meno casuali, più o meno involontarie, più o meno logiche. Tra esse, l'idea di un "catfight" nel fango esclusivamente virile: ci viene in altri termini risparmiata l'inverosimiglianza ludico-politica di una o addirittura due "femmine" nella finale di un gioco che presentandosi come "egualitario" ripropone, conferma ed esalta tutti i rapporti di forza possibili immaginabili, che siano "naturali" o meno (non che questa contraddizione tra gli intenti del gioco e il suo svolgimento sia mai veramente trattata). Quindi un California Dolls in versione truculenta (negli anni mi son fatto l'idea che l'ultima opera di Robert Aldrich, forse ingiustamente considerata minore in Occidente, sia amatissima nei Paesi asiatici), fatto di soli maschi, in chiave ovviamente bromance e cripto-gay, di modo che la componente erotica esclusa dalla porta principale del copione rientra per pochi istanti dalla finestra della confusissima "règle du jeu".

sabato 15 giugno 2019

Us (Jordan Peele, 2019)

Il primo film di Peele, Get Out, elogiatissimo, era sorprendentemente mediocre, ma del resto se ci si diverte con Black Mirror non mi sorprendo più di nulla. Il suo secondo, essendo meno lodato, speravo fosse più interessante.
Ci ho azzeccato, il film è migliore del precedente, anche se forse oltre al frullare marpionescamente vari materiali non c'è molto altro. Ma rispetto a Get Out, Us ha sicuramente qualche punto in più. L'attesa metafora razziale che invece si rivela esclusivamente sociale non è un brutto spiazzamento, anche se rimane metafora pesantissima e di quello spiazzamento non viene combinato nulla. Nel primo la componente "politica" e le pretese di satira uccidevano tutto, qui si nota un certo gusto (post tutto, ma ormai è la norma) per il genere in sé, una progressione decente, anche se alla fine lo scherzo va per le lunghe. L'ho guardato insomma con indulgenza, chiedendomi spesso dove volesse andare a parare al di là del compitino ben fatto e non trovando risposte soddisfacenti.
La butto lì: di fatto siamo forse di fronte a un paradosso storico. Il cinema americano, principale produttore in termini quantitativi di film horror e similia, e noto per il suo andare "al sodo" rispetto ad altre cinematografie, europee e non solo ("se vuoi mandare un messaggio usa la posta" ecc. ecc.) si trova di fronte a due modelli del genere, Dawn of the Dead e The Shining, che ha visto sempre e solo nell'edizione in cui le componenti politica, sociale, satirica o anche semplicemente confusionaria o arraffatutto erano prevalenti rispetto ai montaggi europei di Argento o dello stesso Kubrick, in cui tutto veniva ricondotto alle esigenze (in teoria pur "americane", qui il paradosso) della spettacolarità immediata, come direzione e senso principali ma senza sminuire – anzi! – gli aspetti di cui sopra, che essendo sfoltiti colpiscono più direttamente, alleggeriti da inutili mediazioni volontaristiche. I Jordan Peele, ma anche il tizio di It Follows, e tanti altri, hanno visto i film giusti, ma nel montaggio sbagliato.