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lunedì 29 settembre 2008

Orson Welles — Un fogliettone

VIII
1962-1985: IL FAVORITO DELLA LUNA

Forse il nome di un uomo non conta poi così tanto.
Orson Welles in F per Falso — Verità e menzogna (Orson Welles, 1974).


Il processo (Le Procès, 1962), girato a Zagabria, Monaco, Roma e Parigi, prosegue portandola all’estremo la poetica frammentaria e angosciosa di Otello. È un incubo burocratico-legale dove gli spazi chiusi si avvicendano come scatole cinesi, senza che si capisca quando finisca uno e cominci l’altro: Josef K. esce dalla sala del tribunale varcando una porta la cui maniglia è a tre metri dal suolo, come nella biblioteca borgesiana attraversa corridoi di archivi che sboccano su altri corridoi all’infinito (nella realtà sono gli uffici in disuso della Gare d’Orsay), è inseguito da un manipolo di bambine urlanti, finisce in una gabbia di legno, ascolta il sermone di un prete in una cattedrale barocca, e quando esce si ritrova all’EUR. Un universo solo in apparenza eterogeneo, dove la varietà degli interni configura uno spazio-tempo la cui coerenza opprimente ricorda i campi di concentramento. Nella sua personale lettura, Welles trasforma Kafka in profeta di Auschwitz, rendendo sgradevole persino il protagonista (Anthony Perkins), assediato da un manipolo di personaggi grotteschi interpretati da attori venuti da tutto il mondo, da Romy Schneider a Madeleine Robinson, da Akim Tamiroff a Elsa Martinelli, da Arnoldo Foà a Jeanne Moreau (quest’ultima sarà interprete anche dei film seguenti di Welles e di alcuni progetti abortiti).

Girato tra il 1964 e il 1965, Falstaff (Campanadas a medianoche) è l’ultimo film della trilogia shakespeariana, e forse il migliore. Come aveva già fatto due volte a teatro, il regista estrapola — dall’Enrico IV (Prima e Seconda parte), dal Riccardo III, da Le allegre comari di Windsor, dalle Chronicles of England di Raphael Holinshed, aggiungendo alcuni dialoghi scritti alla maniera di Shakespeare e difficilmente distinguibili da un non specialista — un film incentrato sul personaggio di Falstaff, interpretato dallo stesso Welles. Come L'orgoglio degli Amberson, anche Falstaff racconta la fine di un mondo: la Merry England, rappresentata da Falstaff e dalla sua allegra brigata di “favoriti della luna”, ossia di ladri. Ma a differenza della cadaverica pseudoaristocrazia americana, il mondo di Falstaff è chiaramente quello in cui Welles avrebbe amato vivere. Falstaff è un gradasso ubriacone, grasso e vigliacco, ma è l’ultimo esempio sia pur degenerato degli ideali cavallereschi, un dolceamaro Don Chisciotte che crede solo alla fedeltà in amicizia, l’unico valore che Welles abbia difeso con intransigenza in tutti i suoi film. Per la prima e l’ultima volta, il regista interpreta un personaggio positivo a tutto tondo (è il caso di dirlo, data la mole di Falstaff), “buono come il pane”, stando alle parole dello stesso Welles, e suo segreto autoritratto. E quando nel tumulto della battaglia — che il 18,5 mm rende ancor più simile ai dipinti di Paolo Uccello — Falstaff cerca solo un cantuccio dove nascondersi per scolarsi l’ennesima bottiglia (e Welles alle prese con produttori macellai preferiva scappare in un ristorante brasiliano), nasce il sospetto che con l’avvento dei tempi moderni, la viltà possa essere, a volte, l’ultima, patetica maschera del coraggio e della generosità.

Negli anni seguenti Welles tentò di realizzare un film tratto da due racconti di Karen Blixen. Riuscirà ad adattarne soltanto uno, prodotto dalla televisione francese: Storia immortale, (Une histoire immortelle, 1968), dove Welles è un ricco mercante di Macao, che prima di morire tenta di dar vita a una leggenda di marinai tramandata da secoli. Un delirio di onnipotenza assai simile a quello del regista, che esplora in modo sottile il rapporto tra realtà e falsificazione, tema presente in tutti i suoi film precedenti e che sarà al centro di F per Falso (F for Fake, 1973), strano esperimento di montaggio che mescola in modo inestricabile verità e menzogna. Welles era approdato a Hollywood grazie a un clamoroso falso radiofonico; la sua carriera cinematografica si concluderà con questo vero-finto documentario (a un'epoca in cui il mockumentary non era ancora alla moda): F per Falso alterna immagini d’archivio, un reportage dell’amico François Reichenbach sul falsario Elmyr De Hory, considerazioni sul misterioso magnate Howard Hughes e sulla finta autobiografia scritta da Clifford Irving, un’improbabile avventura erotico-artistica tra Picasso e Oja Kodar, numeri di magia, riflessioni di Welles sulla sua carriera e un appassionato monologo davanti alla Cattedrale di Chartres, esempio supremo di arte senza autore. Per un’ironia della sorte, tre anni prima un incendio aveva devastato la villa di Welles a Madrid, e le fiamme distrussero manoscritti, corrispondenza, documenti, negativi: un materiale unico e di prima mano, la cui scomparsa renderà arduo il lavoro dei biografi, a volte impossibilitati a distinguere tra realtà e leggenda. Così, non si può onestamente escludere che anche in queste righe si annidino inesattezze e mistificazioni.



Il 9 febbraio 1975 l’American Film Institute consegnò a Welles il prestigioso Life Achievement Award. Era la terza volta che il premio veniva attribuito. Era stato preceduto da James Cagney e da John Ford, l’amatissimo regista di Ombre rosse, il film che prima di iniziare le riprese di Quarto potere il giovane Welles aveva studiato decine di volte con Gregg Toland per imparare le regole di quello strano gioco chiamato cinema. Davanti a tutti i potenti di Hollywood riuniti per l’occasione, Welles mostrò due frammenti di The Other Side of the Wind e lanciò un appello ai produttori presenti in sala affinché lo aiutassero a terminare il progetto. Nessuno mise mano al portafogli.

La sera del 9 ottobre 1985, Welles partecipò a una delle ennesime trasmissioni televisive, The Merv Griffin Show: era in compagnia della sua biografa, Barbara Leaming. Ancora una volta, raccontò la storia della sua incredibile carriera, e ancora una volta si esibì in un numero d’illusionismo. L’indomani mattina, solo nella sua casa di Hollywood, stava stilando istruzioni di regia per alcune inquadrature che con l’amico Gary Graver contava di girare nel pomeriggio.
Nessuno sa quale fu l’ultima parola che pronunciò, ma come lo slittino “Rosebud”, il suo corpo venne bruciato, e le ceneri disperse in un’isolata fattoria spagnola, dove a 18 anni Welles aveva passato un’estate indimenticabile.

NOTE
Questo fogliettone deve praticamente tutto alla dettagliata "Cronologia" del volume di Peter Bogdanovich, This is Orson Welles, nuova ed. Da Capo Press, New York 1998.
Dopo aver accuratamente infilato questo fogliettone nell'archivio "Come vivere senza?", fra due settimane potrai leggere l'assai più sintetico Orson Welles for Dummies, che troverà un posticino già pronto nella cartella "se ne sentiva il bisogno".

lunedì 15 settembre 2008

Orson Welles — Un fogliettone

VII
1955-1958: CONTRO TUTTI

Nel 1955 Welles iniziò a lavorare su un adattamento di Don Chisciotte, ambientato nel presente. Cercherà di portare avanti il progetto per oltre quindici anni, girando il mondo con la sua macchina da presa e impressionando pellicola ogni volta che le circostanze — tempo, denaro, attori — lo permettevano. Non riuscì mai a terminarlo: il film, che ironicamente Welles ribattezzò When are you going to finish Don Quixote? (“Quando finirete il Don Chisciotte?”) rimarrà incompiuto, e il materiale raccolto, variamente montato da altri, circolerà qua e là nei festival. È in assoluto il suo più celebre progetto irrealizzato, la cui lista immensa comprende il thriller The Deep (da un romanzo di Charles Williams che verrà portato sullo schermo da Philip Noyce, Ore 10: calma piatta, 1989), l’adattamento del racconto di Karen Blixen The Dreamers e The Other Side of the Wind, satira del mondo hollywoodiano con John Huston (nella foto) nei panni di un anziano regista, che Welles continuerà a girare e montare fino alla morte, aiutato dalla compagna Oja Kodar e dai registi Gary Graver e Peter Bogdanovich.

Alla fine dell'anno, Welles tornò negli Stati Uniti per allestire il Re Lear, annunciato in pompa magna dal sindaco di New York in persona. La settimana prima del debutto, si ruppe una gamba. La sera della prima, zoppicante, si ruppe l’altra. Ma rispettò l’impegno e le rappresentazioni proseguirono, con Welles-Lear su un trono a rotelle. Quindi riallacciò i rapporti con Hollywood, recitando in film minori dove dondolava, gigione olimpico, la sua sempre crescente corpulenza, dicendo le battute a tutta velocità per poter tornare al più presto ai suoi molteplici progetti.
Il 26 dicembre 1956, la Universal contattò l’attore Charlton Heston per chiedergli di recitare con Welles nell’adattamento di un giallo di Whit Masterson, Badge of Evil. Heston rispose che avrebbe accettato qualsiasi cosa pur di lavorare sotto la direzione del regista di Quarto potere. In realtà i produttori pensavano a Welles solo in quanto attore, ma era troppo tardi per chiarire il malinteso: Heston aveva appena interpretato Mosé nei Dieci comandamenti, ed era meglio non contraddire un uomo in grado di separare le acque del Mar Rosso. Convinto di essere agli inizi di una nuova carriera, Welles riscrisse in cinque giorni la sceneggiatura di Paul Monash, e in poco più di un mese terminò le riprese del film. Dopo due mesi di moviola, L'infernale Quinlan (Touch of Evil) era pronto. I produttori si aspettavano un normale poliziesco di serie B, e non erano preparati alla stralunata violenza visiva del film. Nominarono un nuovo montatore, vietando a Welles l’accesso alla moviola, fecero girare da Harry Keller scene aggiuntive fuori tono, imposero i titoli di testa sulla scena iniziale, passata alla storia come uno dei più straordinari piani sequenza mai realizzati. Il film uscì tagliato di una ventina di minuti; nel 1976 fu ripresentato in una versione più lunga, che nella sostanza si limitava ad aggiungere brutte inquadrature non girate da Welles. Fortunatamente il regista aveva scritto un disperato “memo” dove il suo montaggio era scrupolosamente dettagliato. Sulla base di tale documento, il montatore Walter Murch e il critico Jonathan Rosenbaum procedettero nel 1998 a una nuova edizione del film.
Collaboratore del Ministero della Giustizia messicana, Mike Vargas (Charlton Heston) è in viaggio di nozze con la moglie Susie (Janet Leigh) quando improvvisamente, a Los Robles, cittadina di frontiera con gli Stati Uniti, l’automobile del potente Linnekar esplode davanti ai suoi occhi. Vargas si trova così coinvolto nelle indagini, dirette dall’ispettore Hank Quinlan.(Orson Welles). Stimato da tutta la comunità, Quinlan ritiene che l’efficacia dei risultati vada ottenuta a scapito del rispetto della legge. Con metodi poco ortodossi, Quinlan arresta il giovane Sanchez, membro di una gang locale diretta da “Zio” Grandi (Akim Tamiroff), per l’omicidio di Linnekar. Fermamente convinto della supremazia del diritto, Vargas inizia a dubitare dell’integrità dell’ispettore, e sfugge per un pelo a un attentato. Quando la sua reputazione viene macchiata dal sospetto, Quinlan perde le staffe, e dopo aver fatto violentare e drogare la moglie di Vargas, in un raptus strangola Grandi e arresta Susan per l’omicidio. Vargas riuscirà a smascherare l’ispettore, ma affinché la legge trionfi dovrà scendere a patti con la propria morale. E, Quinlan morto, si scoprirà che il colpevole dell’omicidio di Linnekar era proprio Sanchez.

Nell'Infernale Quinlan Welles offre una delle sue più riuscite prove d’attore: trasudante grasso da tutti i pori, Quinlan è un ispettore psicopatico, razzista, brutale, corrotto e omicida, che regna indisturbato su una cittadina di frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Un essere diabolico, che in nome della giustizia è pronto a fabbricare prove per incastrare i colpevoli, da lui riconosciuti grazie a un intuito tanto infallibile quanto moralmente osceno. Convinto che lo stato di diritto debba sempre prevalere sull’arbitrio, il regista Welles non ha tentennamenti nel tratteggiare la figura di un mostro; ma come attore, è tenuto a farsi l’avvocato di Quinlan, che un tempo era stato un poliziotto esemplare, onesto e coraggioso. Una contraddizione che fa dell'Infernale Quinlan un’insuperabile riflessione cinematografica sul Bene e il Male, con un ritmo incalzante ottenuto grazie a un alternarsi di lunghi piani sequenza e brevissime inquadrature, lampi di immagini violente e contrastatissime dovute al fotografo Russell Metty. Accompagnato dal rock latino di Henry Mancini, Quinlan attraversa il film come un bolide impazzito, facendo tremare con la sua mole gigantesca bodegas che spacciano droga e tequila, commissariati da dittatura sudamericana, squallide stanze d’albergo, vicoli oscuri e strade immerse nel sole abbacinante del deserto, succhiando caramelle e vomitando fiele, livore e odio contro tutti (è il titolo italiano del romanzo di Masterson). Finirà abbattuto dal suo migliore amico e collega in una lurida pozzanghera, mentre non lontano risuona la pianola meccanica della chiromante zingara la cui maschera di cera nasconde un’irriconoscibile Marlene Dietrich, con la sigaretta perennemente pencolante dalle labbra sporche di rossetto. E guardando Quinlan riverso nel fango — ossia l’amico Welles, che vent’anni prima si divertiva, da esperto illusionista, a segarla in due per il divertimento dei G.I. —, sarà proprio la Dietrich a chiudere il film, con una formula definitivamente ambigua: “He was some kind of a man”. L'infernale Quinlan non è un film poliziesco; è un’allucinazione morale.

(CONTINUA...)

lunedì 1 settembre 2008

Orson Welles — Un fogliettone

VI
1947-1955: EVERYWHERE AND NOWHERE

Niente discorsi. Propongo un brindisi alla maniera georgiana. In Georgia i brindisi cominciano con un racconto. Ho sognato un cimitero dove gli epitaffi erano bizzarri: 1822-1826, 1930-1934... Si muore ben giovani qui, dico a qualcuno; il tempo è molto breve fra la nascita e la morte. Non più che altrove, mi si risponde, ma qui, come anni di vita, contano solo gli anni che è durata un’amicizia.
Beviamo all’amicizia!
Gregory Arkadin (Orson Welles) in Rapporto confidenziale (Orson Welles, 1954-1955).


Nel 1947 Welles riuscì a spillare una cifra irrisoria alla Republic Pictures, specializzata in B-movies, per realizzare un adattamento del Macbeth. Dopo una rappresentazione teatrale a Salt Lake City e poche settimane di ripetizioni, girò il film in 23 giorni. Il suo Macbeth destò sconcerto: i personaggi sono rivestiti di grezze pellicce e si muovono in una densa nebbia i cui vapori nascondono una scenografia di cartapesta, che più che a una reggia fa pensare a una caverna preistorica. Il testo shakespeariano si trasforma in dramma primordiale, cupo e brutale; Macbeth e la sua corte sembrano esseri pre-storici, armati di lance nodose come clave e soverchiati da forze ctonie.



Inseguito dal fisco, alla fine del 1948 Welles lasciò l’America, che comunque gli offriva sempre meno opportunità di lavoro. Lo stesso anno, iniziò a girare Otello (Othello, a.k.a. The Tragedy of Othello: The Moor of Venice; uscì nel 1952), in condizioni talmente avventurose da spingerlo trent'anni dopo a dedicarvi Filming “Othello” (1979), un documentario realizzato per la televisione tedesca. Le riprese durarono un anno e mezzo, negli studi Scalera per gli interni, in Marocco (Mogador, Safi, Mozagan) e in Italia (Venezia, Toscana, Roma, Viterbo, Perugia e Torcello) per gli esterni. L’attrice che interpretava Desdemona fu sostituita durante le riprese da Suzanne Cloutier, bisognò ricominciare daccapo, il lavoro veniva interrotto continuamente per mancanza di fondi, alcuni attori non erano più disponibili tra una fase di lavorazione e l’altra, si dovette ricorrere a controfigure per quasi tutti i controcampi: Otello usciva da un palazzo veneziano e si trovava in una piazza marocchina, parlando con Iago — in realtà una controfigura incappucciata —, i cui primi piani erano stati girati un anno prima a Viterbo. I costumi per l’assassinio di Rodrigo vennero a mancare, e la scena fu improvvisata in un bagno turco, ricoprendo gli attori con asciugamani. Con due anni di lavoro in sala di montaggio, Welles riuscì in modo geniale a sfruttare l’eterogeneità del materiale, conferendo al film un ritmo rapidissimo. La sua cifra visiva, date le circostanze, non poteva più affidarsi alla fluidità del piano sequenza, ma a bruschi tagli di montaggio e inquadrature espressive, spesso oblique e dal basso. I dialoghi shakespeariani sono pronunciati a tutta velocità da attori che passano all’interno della stessa frase da uno sfondo di bifore a una fortificazione araba, da una scogliera naturale a un salone regale. Più che un adattamento, l’Otello secondo Welles è un incubo evocato da Shakespeare, e del sogno possiede l’ubiquità e il segreto rigore degli eventi, la cui successione obbedisce meno alla logica che a un movimento inesorabile di volti, pietre, luci.



In Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, 1954-1955), l’ubiquità diventerà metafora del Potere. La storia di Gregory Arkadin — ricco armatore di origini georgiane parzialmente ispirato alla figura dell’avventuriero Basil Zaharoff — era già stata scritta da Welles per una delle puntate radiofoniche di The Adventures of Harry Lime. Come Quarto potere, il film inizia dalla fine: un aereo senza pilota né passeggeri vola alla deriva. È il jet privato di Arkadin, che al pari di Kane è ovunque e in nessun luogo, tutti e nessuno. Simulando un’amnesia, il vecchio e potente Arkadin manipola un losco personaggio, Van Stratten, affinché investighi sul proprio passato e sulle origini delle ricchezze accumulate. Le indagini portano Van Stratten in Grecia, in Spagna, a Monaco, Parigi, Roma, per rintracciare i testimoni di un’oscura biografia. Ma appena posa piede a terra, Arkadin è già lì, ad aspettarlo. E i testimoni, interpretati da caratteristi straordinari (tra i quali non si può omettere il sublimemente grottesco Akim Tamiroff, che seguirà Welles nei suoi progetti futuri), finiscono uccisi uno dopo l’altro. Alla fine, Gregory Arkadin non riuscirà a trovar posto per l’ultimo volo: nel mondo moderno, dove una trasmissione radiofonica può far tremare milioni di persone e dove basta un viaggio in Brasile per passare dal potere assoluto alla miseria, non vi è più spazio per i giganti shakespeariani. Se prima si era pronti a dare un regno per un cavallo, tutta la fortuna di Arkadin non basterà a procurargli un biglietto aereo, così come la legislazione sui trasporti in tempo di guerra aveva paralizzato il giovane Welles a Rio De Janeiro. In Rapporto confidenziale, il regista doppiò moltissimi attori, e pare addirittura che le voci di alcuni personaggi femminili siano la sua. Anche in una colonna sonora, quindi, può nascondersi il potere dell’ubiquità.



È a partire da Rapporto confidenziale che Welles iniziò a usare sistematicamente il 18,5 mm, un obiettivo che accresce smisuratamente la profondità di campo deformando in modo grottesco la prospettiva: una stanza di dieci metri quadri è ampia quanto un’arena, i personaggi si avvicinano alla cinepresa con falcate che percorrono chilometri. E con il 18,5 mm, Welles tornò in America, per realizzarvi, grazie a una serie di circostanze fortunate, il suo più gran capolavoro dai tempi di Quarto potere: L’infernale Quinlan. (CONTINUA...)

lunedì 21 luglio 2008

Orson Welles — Un fogliettone

V
1943-1949: NELLE FOGNE E TRA GLI SPECCHI

Altre persone, così ho letto, fanno tesoro dei momenti memorabili della loro vita: la volta in cui sono saliti sul Partenone all’alba, la notte d’estate in cui hanno incontrato una ragazza solitaria a Central Park, e stabilito una tenera amicizia, come si dice nei libri. Anch’io una volta ho incontrato una ragazza a Central Park, ma non c’è molto da ricordare. Quello che ricordo io è quando John Wayne uccise tre uomini con una carabina mentre cadeva nella polvere in Ombre rosse e la volta in cui il gattino trovò Orson Welles sulla soglia del portone nel Terzo uomo.
Walker Percy, L’uomo che andava al cinema, Milano 1989, p. 13.

Durante la guerra Welles dedicò buona parte delle sue energie a collaborare allo sforzo bellico, realizzando trasmissioni radiofoniche di propaganda, divertendo i soldati con numeri di illusionismo, scrivendo editoriali e rubriche di politica, società e cultura (comprese ricette gastronomiche e previsioni di astrologia). Nel 1943 produsse (non accreditato) e interpretò La porta proibita (Jane Eyre) di Robert Stevenson. Se si esclude Terrore sul Mar Nero, di dubbia attribuzione, è il suo primo ruolo in un film non diretto da lui. Privo di potere contrattuale, la carriera d’attore servirà a Welles per finanziare i suoi progetti cinematografici: fu protagonista o comparsa d’onore in decine di film, alcuni di pessima fattura, spesso riservandosi il privilegio di scrivere le proprie battute. Si sospetta altresì che in alcuni casi sia passato dietro la macchina da presa per realizzare le scene in cui appare: un’ipotesi più che verosimile, ma difficilmente dimostrabile.
Dei film interpretati da Welles, il più importante è indubbiamente Il terzo uomo (1949; The Third Man) di Carol Reed: assieme alla Guerra dei mondi, la caratterizzazione del truce ma simpatico trafficante Harry Lime resta la sua migliore interpretazione e il suo più grande successo popolare, e nel 1951 rivestì la voce del personaggio in un ciclo di avventure scritte in buona parte da lui per la radio inglese (The Adventures of Harry Lime). Per chi volesse vedere il vero Welles, senza trucco, questa pare sia l’unica occasione (anche se alcuni sospettano un naso finto). Dato per morto ma nominato continuamente, Lime esce improvvisamente dall’ombra solo dopo la metà del film, totalizzando sullo schermo una presenza di appena cinque minuti. Il film vortica così attorno a un vuoto, creando un’attesa che l’arrivo di Welles esalta, nel dialogo sulla Gran ruota del Prater e durante l’inseguimento finale nelle fogne di Vienna. L’autore di Quarto potere aveva accettato di recitare nel film per finanziare il suo Otello. Si disse che Welles aveva collaborato alla regia del film, ma mi sembra un sospetto infondato: ne Il terzo uomo si ritrovano le qualità principali del cinema di Reed, dallo sguardo documentaristico al leggero umorismo. Sembra tuttavia probabile che Welles scrisse le sue brevi battute, arricchendo il ritmo scoppiettante del film con il suo torbido personaggio, al contempo cinico e inconsciamente tormentato. Sua è una delle considerazioni destinata a restare tra le più celebri della storia del cinema: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia e cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”.


SAME PLAYER SHOOTS AGAIN, AND IN ITALIAN TOO!


Tra gli altri film interpretati da Welles, vale la pena menzionare Cagliostro (1947; Black Magic) di Gregory Ratoff, Moby Dick, la balena bianca (1956; Moby Dick) di John Huston, Frenesia del delitto (1959; Compulsion) di Richard Fleischer, l’episodio “La Ricotta” di Pier Paolo Pasolini in RoGoPaG o Laviamoci il cervello (1962), Un uomo per tutte le stagioni (1966; A Man for all Seasons) di Fred Zinnemann, l’episodio di Joe McGrath in Casino Royale (1967), Comma 22 (1970; Catch-22) di Mike Nichols, Dieci incredibili giorni (1971; La Décade prodigieuse) di Claude Chabrol, Malpertuis (1971) di Harry Kumel.
Nel corso degli anni, sempre alla ricerca di fondi per finanziare i suoi film, Welles farà davvero di tutto, dalle pubblicità a spettacoli di magia a Las Vegas, dalla voce narrante per documentari sugli animali o per Bugs Bunny Superstar (1975) ad apparizioni televisive in The Dean Martin Show o nel Muppets Show, da letture su audiocassetta di testi letterari destinate al mercato giapponese a incisioni della propria voce su dischi di musica heavy-metal (Battle Hymns, 1984), da comparsate in film erotici (Butterfly, 1981) a frequentazioni assidue di ristoranti di lusso per sfamare la vorace golosità adescando improbabili mecenati dalle dubbie origini.

Durante il 1944, da fervido democratico, Welles partecipò attivamente alla campagna di rielezione del presidente, scrivendo discorsi per Franklin D. Roosevelt e tenendo conferenze in tutto il paese. Nell’estate 1946, investì quasi tutti i suoi guadagni per montare con il Mercury Theatre un’ambiziosa rappresentazione teatrale del Giro del mondo in 80 giorni, piena di effetti speciali e con musiche di Cole Porter. Lo spettacolo divise la critica e malgrado il successo di pubblico, i fondi per la tournée vennero a mancare e nell’Adelphi Theatre di New York l’assenza di l’aria condizionata si fece presto sentire. Nell’impresa, Welles perdette personalmente 320.000 $, che non riuscì a detrarre dalle tasse. Così presero inizio i problemi fiscali, che lo assilleranno fino alla morte. Lo stesso anno cercò di convincere Hollywood di poter essere un regista qualsiasi, capace di girare una storia lineare rispettando tempi e preventivi: ad eccezione di un paio di sequenze, Lo straniero (The Stranger), dove Welles incarna un criminale di guerra nazista che cela la propria identità in una tranquilla cittadina di provincia americana, è il suo film più impersonale, senza dubbio il meno interessante.
Il matrimonio contratto con Rita Hayworth nel 1943 permise a Welles di realizzare La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai). Nel 1946, la moglie aveva fatto girare la testa a milioni di spettatori in Gilda, mentre sfilandosi i lunghi guanti di seta nera cantava “Put the Blame on Mame”. Ma più di tutto, a cristallizzare l’oggetto dei desideri era la lunga chioma scura dell’attrice. Welles decise di tagliarla cortissima e di ossigenarla. Le offrì un personaggio di perfida assassina che abbindola un improbabile marinaio irlandese (interpretato da Welles) in un giallo dalla sceneggiatura del tutto pretestuosa e la lasciò morire da sola in una galleria di specchi infranti. Il pubblico non apprezzò. Ancora una volta, il film subì pesanti tagli, ma alcune sequenze, e soprattutto il finale, entrarono nell’antologia ideale di tutti i cinefili. Welles ne ricavò un rapido divorzio e, ad eccezione de L'infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958), la condanna a non girare mai più un film in condizioni produttive normali.



(CONTINUA...)

lunedì 7 luglio 2008

Orson Welles — Un fogliettone

IV
1941-1942: MA CHE DIAVOLO SEI ANDATO A FARE A RIO DE JANEIRO?

I started at the top and worked my way down.
Orson Welles.

Welles accarezzò l’idea di fare un film dedicato a Landru, ma alla fine vendette il soggetto a Charles Chaplin che lo realizzerà sei anni dopo (Monsieur Verdoux, 1947). A contrastare l’audacia di Quarto potere, come secondo film del contratto con la RKO Welles scelse infine di adattare un romanzo di Booth Tarkington, L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Ambersons), classica saga narrante la decadenza di una famiglia di ricchi possidenti e l’avvento della civiltà di massa, borghese e industriale, incarnata nell’automobile. Welles aveva già realizzato una versione radiofonica del libro, ed è l’unico film in cui il regista non compare come attore, ma sua è la voce del narratore. Doveva essere un film “normale”, ma con occhio spietato la macchina da presa osserva un mondo decrepito, dilaniato da passioni edipiche, presuntuoso, violento e ottuso, con una crudità davvero inusitata unita a una comprensione umana di rara raffinatezza psicologica e stilistica.
Welles ne curò le riprese di giorno, tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942, mentre durante la notte produceva e interpretava la terza opera prevista dal contratto, Terrore sul Mar Nero (Journey Into Fear): il sospetto che spesso il mediocre regista Norman Foster abbia lasciato Welles libero di dirigere questo gradevolmente assurdo spy-movie è più che lecito. “Welles e Del Rio insieme! Come l’Uomo Terrore contro la Donna Leopardo!” gridava lo slogan. È un’esotica serie B, con la troupe del Mercury Theatre quasi al completo: Welles è l’improbabile Colonnello Haki, capo dell’ovviamente feroce polizia segreta turca, tutti si divertono e noi con loro. Film così non se ne fanno più, anche se il regista-produttore non doveva essere particolarmente interessato al progetto, pensato come una serie B il cui basso costo avrebbe rimborsato il denaro perso da Quarto potere restituendo a Welles un valore contrattuale incrinato.

Nel frattempo l’America era entrata in guerra. Per partecipare allo sforzo bellico, Welles accettò di girare un documentario in tre parti sul Brasile, It’s All True. Lo scopo era di rafforzare le relazioni inter-americane. Il 1° febbraio 1942 terminò le riprese di Terrore sul Mar Nero. Il 2 e il 3 si trovava a Miami per dare precise indicazioni a Robert Wise, montatore de L’orgoglio degli Amberson. Finita una prima versione, Wise avrebbe raggiunto Welles in Brasile, dove il lavoro doveva essere portato a termine. Il 4 febbraio Welles partì per Rio De Janeiro. Commettendo il più grave errore della sua carriera. In Brasile, l’organizzazione delle riprese era nel caos totale, l’équipe tecnica non era al completo, mancavano le luci, un attore protagonista morì in mare, le comunicazioni con gli Stati Uniti erano difficilissime. Wise non riuscì mai a recarsi in Brasile, dove Welles rimarrà intrappolato per più di cinque mesi a causa delle leggi speciali riguardanti i trasporti in tempo di guerra. Intanto alla RKO era avvenuto un cambio di direzione: al posto di George J. Shaefer, protettore di Welles, era subentrato Charles J. Koerner, per il quale il regista di Quarto potere non era che un presuntuoso provocatore, buono solo a far perdere soldi. Wise terminò da solo il primo montaggio, di 132 mn, seguendo in buona parte le indicazioni fornitegli dal regista. E il film venne presentato il 17 marzo al pubblico di Pomona per una proiezione-test.


Quarto potere era genialmente irruento e “barocco”; L’orgoglio degli Amberson potrebbe essere considerato il suo opposto, una tragedia camuffata da melodramma in tre atti, solo in apparenza semplice e lineare. L’ultima parte del film doveva essere la migliore, di una cupezza insostenibile: lo spettatore assisteva alla fine di ciascun personaggio, votato alla solitudine, alla malattia, alla morte. Insostenibile, appunto: così verrà giudicato il film dalla maggior parte degli spettatori invitati a dare la loro opinione. Vennero eseguiti alcuni tagli (17 minuti in tutto), e il 19 marzo il pubblico di Pasadena reagì positivamente. Ma ormai per Koerner tutta la vicenda aveva assunto i tratti di una questione personale. La RKO decise allora di rimontare il film, massacrandolo. Nuove sequenze vennero girate da Wise e da registi infimi, e soprattutto l'intera ultima parte venne troncata e sostituita con un lieto fine assolutamente incongruo: il film fu ridotto a 88 mn. L’orgoglio degli Amberson resta un capolavoro, ma cosparso di ferite aperte e di vistose cicatrici. Uscirà in due sale a Los Angeles, in doppio programma con Mexican Spitfire Sees A Ghost, una commedia dozzinale con l’attrice messicana Lupe Velez: inutile dire che non ebbe alcun successo. L’integrità del film è irrimediabilmente perduta: il 10 dicembre, la RKO mandò al macero il negativo scartato. Terrore sul Mar Nero fu un fiasco. It’s All True non uscì mai. Parte del materiale girato in Brasile sarà ritrovata da Bill Krohn nel 1985 e montata assieme a Myron Meisel e Richard Wilson [It’s All True (È tutto vero), 1993]. Hollywood non è un quartiere di Rio de Janeiro, e il cinema non è un carnevale brasiliano: la RKO reputò che lo scherzo era durato abbastanza, e il 1° luglio 1942 fece cacciare il Mercury Theatre dai propri studios.


(CONTINUA...)

lunedì 23 giugno 2008

Orson Welles — Un fogliettone

III
1939—1941: POTERE ASSOLUTO


La mia carriera è iniziata con un falso, l’invasione dei marziani.
Sarei dovuto andare in prigione.
Non posso lamentarmi.
Sono finito a Hollywood.
Orson Welles in F for fake-Verità e menzogna (Orson Welles, 1974).


Nell’estate del 1939 la casa di produzione RKO riuscì ad ammaliare il giovane prodigio, proponendogli un contratto unico nella storia di Hollywood, che gli permetterà di produrre, realizzare, interpretare e montare il suo primo film in condizioni di libertà totale. Welles aveva solo ventiquattro anni e nessuna esperienza cinematografica: mai un regista era riuscito a ottenere tanto, e forse la professione non gli perdonò una simile fortuna.
Tra i progetti presi in considerazione da Welles e accantonati, il più serio fu un adattamento di Cuore di tenebra, tratto dal racconto di Joseph Conrad. Memore dell’esperienza radiofonica, Welles avrebbe interpretato Kurtz, ma anche il narratore, Marlow. Il film doveva essere girato interamente in soggettiva, dal punto di vista di Marlow, che lo spettatore avrebbe intravisto solo grazie a giochi di riflesso. Il procedimento era del tutto innovativo, ma un po’ laborioso; anni dopo verrà attuato da Robert Montgomery in Lady in the Lake (1947; La donna nel lago), applicandolo al personaggio del chandleriano detective — nomen omen — Philip Marlowe. Cuore di tenebra diventerà il primo titolo della lunga filmografia fantasma di Welles.

Orson Welles lavora al trattamento di Cuore di tenebra.
Dietro di lui, l'enigmatica equazione tra il disegno di un occhio e la lettera "i".
Traducendo "i" con "io", si ottiene una metafora della soggettiva cinematografica.

Nel febbraio del 1940 Welles assunse Herman J. Mankiewicz come co-sceneggiatore: il suo primo film avrebbe raccontato la storia di un magnate della stampa. Si intitolava Orson Welles* 1, più tardi mutato in American: uscì il 1° maggio 1941 al Palace Theatre di New York con il titolo Citizen Kane. La critica era pronta a stroncare la presunzione giovanile del regista, ma il film fu giudicato un capolavoro da quasi tutti, e nel complesso il pubblico lo accolse trionfalmente.
Ciononostante, Quarto potere fu un fiasco colossale. La ragione è nota: nel narrare la vita di Charles Foster Kane, dall’infanzia alla morte, Welles e Mankiewicz si erano parzialmente e impudicamente ispirati alla figura di un magnate dell’epoca, William Randolph Hearst, poco sensibile alle sottili distinzioni tra verità e finzione, e tanto potente quanto permaloso. Dopo aver cercato di ostacolare le riprese, Hearst affidò alla sua regina dei pettegolezzi, Louella Parsons, il compito di orchestrare una campagna stampa violentissima (mentre Welles era difeso dalla rivale Hedda Hopper), e tentò persino di riacquistare il negativo per bruciarlo. Il film fu girato, ma in fin dei conti, tanta ostile perseveranza ottenne l’effetto desiderato: la RKO fu intimorita dalle pressioni di Hearst, che possedeva molte sale disseminate nel paese. Le minacce e i ricatti fecero cedere i distributori indipendenti, che preferirono non proiettare il film. Malgrado i plausi di critica e pubblico, Hearst riuscì così a distruggere il destino commerciale di Quarto potere. Il film ottenne nove nominazioni all’Oscar (comprese quelle per miglior film, miglior regista e miglior attore) e ne ricevette uno soltanto, condiviso con Mankiewicz, per la migliore sceneggiatura originale. In Europa le cose non andarono meglio. A causa della guerra, il film uscì quando il potere di Welles era ormai in rovina: in Francia, nel 1946 (dove fu stroncato da Jean-Paul Sartre, ma colpì André Bazin e una manciata di giovanissimi spettatori, che anni dopo lo osannarono nei “Cahiers du Cinéma” prima di diventare protagonisti della Nouvelle Vague); in Italia, nel 1948.


Quarto potere è la storia dell’inchiesta condotta da un uomo chiamato Thompson, redattore di un cinegiornale […], sul significato delle ultime parole di Kane morente. […] Reputa che le parole di un moribondo possano spiegare la sua vita. Forse è vero. Non scoprirà mai cosa intendesse Kane, ma gli spettatori sì. Le sue ricerche lo portano da cinque persone che conoscevano bene Kane — che gli volevano bene o lo amavano o lo odiavano a morte. Narrano cinque storie diverse, ciascuna parziale, di modo che la verità su Kane, così come la verità su ogni uomo, non può essere che il risultato della somma di tutto ciò che è stato raccontato su di lui.
Kane, ci viene detto, amava solo sua madre, solo il suo quotidiano, solo la sua seconda moglie, solo se stesso. Forse amava tutto ciò, forse nulla. Sta agli spettatori giudicare. Kane era egoista e disinteressato, un idealista, una canaglia, un uomo grandissimo e piccolissimo. Dipende da chi parla di lui. Non viene mai giudicato con obiettività, e lo scopo del film non è tanto la soluzione del problema quanto la sua presentazione.”
Sono parole dello stesso Welles, in un testo pubblicato il 14 febbraio 1941 su “Friday” e intitolato “Citizen Kane Is Not About Louella Parson’s Boss”.

È impossibile riassumere in poche righe l’importanza storica e artistica di Quarto potere. Dire che è in assoluto il film che maggiormente influenzò i registi a venire è insufficiente. Sarebbe più esatto affermare che è tuttora inammissibile che un cineasta possa debuttare senza averlo visto almeno una volta. In meno di due ore, Welles sconvolge la struttura narrativa, i tempi del racconto, le tecniche di ripresa e il montaggio. La trama inizia con la morte del protagonista interpretato dallo stesso Welles, e procede a ritroso in modo frammentario, seguendo le testimonianze raccolte da un giornalista alla ricerca del significato dell’ultima parola pronunciata da Kane: “Rosebud”.


Ma è chiaro che la parola misteriosa è solo un pretesto per raccontare settant’anni di storia americana attraverso lo specchio deformante di un personaggio emblematico e contraddittorio, di cui nulla viene nascosto allo sguardo e alle orecchie, in un incrociarsi solo apparentemente caotico di opinioni, aneddoti, falsi cinegiornali e pettegolezzi che percorrono (e spesso ripercorrono, modificando l’angolatura) tutti i lati possibili della personalità di Kane, grazie a una macchina da presa tanto indiscreta quanto onnipotente, capace di sfidare le leggi spazio-temporali, e di giudicare con la semplice forza dell’obiettivo. Si è parlato molto dei numerosi prodigi tecnici del film: della fotografia di Gregg Toland, dell’uso di obiettivi ideati per l’occasione, che deformano la prospettiva esaltando una profondità di campo dove ogni dettaglio, dal primo piano allo sfondo, è ugualmente a fuoco in lunghi e complicatissimi piani sequenza; dei soffitti costruiti appositamente nei teatri di posa e valorizzati da audacissime angolature dal basso, miranti a restituire la megalomania di Kane e insieme a “schiacciarla”; di una colonna sonora ricchissima, memore delle sperimentazioni radiofoniche e splendidamente accompagnata dalle musiche di Bernard Herrmann. Gli storici hanno ormai provato ampiamente che ognuno di questi aspetti, preso singolarmente, aveva conosciuto precedenti nella storia del cinema. A rivedere Quarto potere, oggi la vera violazione delle regole cinematografiche allora vigenti sembra nascondersi nell’insieme del film, e più particolarmente nella palese intrusione della macchina da presa come vero protagonista, entità divina mossa da un’ambizione smisurata (e segretamente consapevole del proprio inevitabile scacco): raccontare la vita di un uomo.
Nelle ultime immagini, Welles disvelerà, per il solo spettatore e per un attimo appena, la “verità”, prima che le fiamme di un gigantesco forno la divorino, e forse il celebre finale (secondo molti attribuibile a Mankiewicz) è l’unica caduta di tono del film. Ma in fondo, persino quest’informazione riservata non era che un tassello sconnesso del puzzle: che Rosebud fosse lo slittino d’infanzia del magnate non è poi determinante, ai fini della storia. Chi fosse, realmente, Charles Foster Kane, non lo sapremo mai. Forse nulla, come suggerisce il fumo nero sprigionato dal forno nell’ultima immagine.


(CONTINUA...)

lunedì 9 giugno 2008

Orson Welles — Un fogliettone

II
DOMENICA, 30 OTTOBRE 1938: MAMMA, LI MARZIANI!

A New York sono le otto di sera: tra euforia per la ripresa economica e timori per l’avvenire (la crisi di Monaco risale ad appena trentacinque giorni prima), l’America si prepara per la festa di Halloween. Sulla CBS risuonano le note dell’orchestra di Ramon Raquello, che interpreta La Paloma e La Cumparsita. Alle 20h03 un comunicato interrompe la musica: dall’Osservatorio Mont Jennings di Chicago il professor Farrell ha appena avvistato un’esplosione di gas incandescente proveniente da Marte e diretta verso la Terra. Un fenomeno naturale, assicura l’eminente professore dell’Osservatorio di Princeton, Richard Pierson. L’orchestra riprende a suonare Stardust (“Polvere di stelle”). Poco dopo arriva la notizia di una scossa sismica nei pressi di Princeton, mentre su Marte continuano a verificarsi strane deflagrazioni.
Sono le 20h12: sul canale NBC il ventriloquo Edgar Bergen e la sua marionetta Charlie McCarthy hanno appena concluso la puntata della trasmissione più seguita d’America, The Chase and Sanborn Hour. Gli ascoltatori, all’incirca nove milioni di persone, si sintonizzano su CBS. All’oscuro di tutto, capiscono presto che sta avvenendo qualcosa di assai preoccupante: al posto di Orson Welles e del suo Mercury Theatre, si avvicendano vertiginosamente e nella confusione più totale bollettini sempre più angoscianti. L’inviato speciale Carl Phillips si trova a Grovers Mill, una fattoria sperduta del New Jersey, vicino a Trenton, dove si è appena schiantato un meteorite dal diametro di trenta metri. Il giornalista fatica a descrivere quel che vede, balbetta e incespica sulle parole. Tra brusio del microfono, sirene della polizia, rumori della folla e interviste ai contadini esterrefatti, le notizie sono frammentarie e approssimative.


Ricordano la più celebre (fino allora) diretta radiofonica, quando invece di atterrare dolcemente, il 6 maggio dell’anno prima l’Hindenburg si sfracellò al suolo con tutti i suoi passeggeri. Solo che stavolta non si tratta di uno zeppelin caduto dal cielo, ma di qualcosa venuto dallo spazio profondo, e la tesi dell’asteroide comincia a sembrare inverosimile, dato che l’oggetto è ricoperto di metallo, probabilmente extraterrestre. Persino il professor Pierson non sa più che pesci prendere.
Il sospetto diventa certezza quando la cupola della meteora si apre: alle 20h16 la CBS offre all’America sbigottita il resoconto precisamente commosso del primo incontro con esseri venuti da un altro pianeta. Si tratta di mostri ripugnanti, che l’emozione di Phillips rende ancora più chimerici: grandi come orsi, con tentacoli al posto delle braccia e occhi da rettile. Alle 20h19 Phillips sente un rombo provenire dal cratere. Pochi secondi dopo vede una fiammata inghiottire le prime file di astanti. Tra grida d’orrore, l’incendio divora uomini, alberi, fattorie, automobili… Eroicamente, Phillips descrive tutto, mentre il fuoco si avvicina sempre più al radiocronista. Poi, il silenzio.
Alla CBS un presentatore annuncia che è stato perso il contatto radio con Grovers Mill. Un’interruzione musicale tenta di placare gli animi, ma è ormai chiaro a tutti che qualcosa non va. Infatti, poco dopo il presentatore riprende a parlare: a Grovers Mill sono morte 40 persone.
I marziani stanno invadendo la Terra.


Alle 20h19 il New Jersey è sotto legge marziale. Alle 20h24 viene riesumato il corpo carbonizzato di Phillips. Alle 20h26 gli alieni, con robot a tre gambe alti come grattacieli e muniti di raggio termico e gas letale, controllano la metà dello Stato. Le linee di comunicazione tra la Pennsylvania e l’Atlantico sono impraticabili, le ferrovie tra New York e Philadelphia distrutte. Le autostrade sono intasate dalla gente in fuga, e la polizia e i riservisti non riescono a contenere il panico. Alle 20h27, invece di rassicurare gli americani, il comunicato del Ministero degli Interno accresce l’allarme. Intanto i cilindri spaziali continuano a precipitare sugli Stati Uniti: prima in Virginia (20h29), poi ancora nel New Jersey. Sulle Watchung Mountains, alle 20h31 inizia la battaglia decisiva tra esercito e marziani. In meno di quattro minuti l’artiglieria e l’aviazione americana vengono sbaragliati. Alle 20h36 arriva l’ordine di sgomberare il New Jersey. Alle 20h37 i mostri sono alle porte di New York. Con la voce rotta dall’emozione, un anonimo cronista racconta quanto sta succedendo, in quelli che forse saranno gli ultimi minuti della storia della radio. Dal tetto dell’emittente, vede salpare navi gremite di profughi, ascolta l’inno liturgico salire dalla cattedrale mentre, all’orizzonte, cinque robot attraversano l’Hudson come fosse un ruscello. Migliaia di persone si buttano nell’East River. Scene analoghe avvengono a Chicago, Saint Louis, Buffalo… I fumi tossici si avvicinano al cronista: cento metri… cinquanta metri… Silenzio.
Un radioamatore tossicchia il suo vano appello: “2X2L chiama CQ… 2X2L chiama CQ… New York… Qualcuno mi sente? C’è qualcuno?… 2X2L…”


Alle 20h41, la CBS decise che era ora di finirla. Un presentatore annunciò, con perfetta sobrietà: “State ascoltando la CBS che vi presenta Orson Welles e il Mercury Theatre on the Air in un adattamento originale della Guerra dei mondi di H.G. Wells”. Presa in corso dalla maggior parte degli ascoltatori, la trasmissione aveva gettato nel panico circa 1.750.000 persone. Erano fuggite di casa seminude, a piedi o in automobile, avevano intasato i centralini dei commissariati, cercato rifugio in cantina, nelle chiese, nelle foreste. Fu al contempo il più grande scherzo del secolo e il fenomeno che rivelò al mondo il potere delle comunicazioni di massa, di cui La guerra dei mondi divenne al contempo l’emblema e la critica definitivi. E pensare che ancora pochi minuti prima di andare in onda, Welles, John Houseman e il Mercury Theatre erano convinti che la sceneggiatura — improvvisata a partire da un brogliaccio di Howard Koch — fosse pessima (fino all’ultimo momento si chiesero infatti se non fosse meglio sostituirla con Lorna Doone). Per salvare la faccia, si eran detti che presentare il tutto come un concitato radiogiornale, ispirandosi al resoconto della catastrofe dell’Hindenburg, fosse la soluzione più onorevole.


Alla fine della trasmissione, l’America ascoltò una voce dall’educata ironia (la stessa di Pierson, del comandante Smith, del capitano Lansing, di un ufficiale d’artiglieria pesante, di un operatore radio e del cronista new-yorchese) annunciare: “Signore e signori, qui parla Orson Welles, che abbandona le vesti del suo personaggio per assicurarvi che La guerra dei mondi non ha altro significato che il divertimento che voleva essere. Il Mercury Theatre, a suo radiofonico modo, si è coperto con un lenzuolo per sbucare da un cespuglio e dire BUH!. […] È così che abbiamo annientato il mondo davanti alle vostre orecchie, e distrutto da cima a fondo la CBS. Spero tirerete un sospiro di sollievo scoprendo che stavamo scherzando, e che ovviamente le istituzioni sono sempre funzionanti. Quindi, arrivederci a tutti, e non dimenticate, per piacere, per i prossimi giorni, la terribile lezione di stasera. L’invasore orribile, incandescente, globuloso del vostro salotto è l’abitante di una zucca vuota. Se suonano alla vostra porta e non c’è nessuno, non è un Marziano. È Halloween”.


Già allora, Welles era un prestigiatore professionista, e durante la guerra divertì i soldati americani tagliando in due Marlene Dietrich; inventò molti trucchi, alcuni dei quali tutt’ora imitati dagli illusionisti. Ma quella del 30 ottobre 1938 rimase, è indubbio, la sua migliore falsificazione, e la più celebre. Quel giorno l’America scoprì di aver dato i natali a un genio. Orson Welles aveva appena 23 anni. Quando il 7 dicembre 1941 la radio annunciò che l’aviazione giapponese aveva distrutto la base di Pearl Harbor, molti credettero a una sua ennesima burla.
Welles non raggiunse mai più un simile livello di popolarità, ma all’epoca non poteva immaginare che con l’arrivo a Hollywood, la sua carriera di protagonista della cultura avrebbe iniziato a declinare. Nei quarant’anni seguenti, il credito acquistato in meno di un decennio si logorò poco a poco. Una traversata del deserto senza fine, durante la quale Welles scoprirà che la sua vera passione era il cinema e si imporrà contro tutti, compreso se stesso, come il più grande cineasta di tutti i tempi. (CONTINUA…)

lunedì 26 maggio 2008

Orson Welles — Un fogliettone

I
1915—1940: UN FUMETTISTA, UN ATTORE E UN POETA

Orson Welles con il cagnolino Caesar

George Orson Welles nasce a Kenosha, nel Wisconsin, il 6 maggio 1915. La madre, Beatrice Ives, pianista, campionessa di tiro e attiva femminista, muore nel 1924; il padre, Richard Head, eccentrico inventore e industriale, nel 1928. A 13 anni, Orson Welles finisce sotto la tutela del Dr. Maurice Bernstein. La sua infanzia si svolge in un clima di effervescente creatività artistica. A 3 anni debutta all’opera di Chicago, come comparsa in Sansone e Dalila; a 5 rivela un precoce talento di pianista (che la morte della madre interrompe bruscamente); il 26 febbraio 1926, un articolo a lui dedicato nel “Madison Journal” titola: “A soli 10 anni, un fumettista, un attore e un poeta”. Nel 1926 Welles entra alla Todd School di Woodstock, dove perfeziona le doti drammaturgiche, recitando e realizzando per il teatro scolastico, tra la redazione di critiche per quotidiani e viaggi in Europa e in Asia. Nel 1931 si reca in Irlanda per darsi alla pittura, la sola vocazione che rimarrà inespressa e che Welles rimpiangerà per tutta la vita. Intanto negli Stati Uniti lo aspetta, consistente e minacciosa, una borsa di studio per l’Università, che Welles vorrebbe evitare a tutti i costi. Fa allora credere a Hilton Edwards, regista del prestigioso Dublin Gate Theatre, di essere un noto attore americano. Viene assunto seduta stante nella troupe, per recitare in varie opere — tra cui Suss l’ebreo, Tre sorelle, La locandiera e buona parte del repertorio shakespeariano —, realizzando personalmente alcune di esse.
Nel 1933, Welles si prepara a calcare le scene londinesi, ma la Gran Bretagna gli rifiuta il permesso di lavoro. Torna negli Stati Uniti, da cui riparte subito per il Marocco e la Spagna, dove sopravvive pubblicando racconti polizieschi e cimentandosi nella tauromachia. Di ritorno a New York è assunto nella troupe di Katharine Cornell, che segue nella tournée di Romeo e Giulietta. Nel 1934 cura un’edizione delle opere di Shakespeare e realizza il suo primo cortometraggio cinematografico, Hearts of Age. Otto minuti vagamente surrealisti: dalla valigetta del giovane mago, che si ritaglia la parte della Morte, escono maschere, pianoforti, scalinate. Saranno gli strumenti di futuri illusionismi in grande scala. E aspettando Rita Hayworth a Shanghai, il nostro chiude la prima moglie, Virginia Nicholson, in una bara. (Il filmato che presentiamo comporta un accompagnamento sonoro ovviamente non originale.)


In quegli anni inizia a lavorare alla radio: a partire dal 1935 collabora al celeberrimo The March of Time, che presenta l’attualità facendo recitare ad attori le voci dei personaggi reali. Per anni Welles presterà la sua voce polimorfa a Hitler, Mussolini, Stalin, Freud e decine di personalità della politica e dello spettacolo. La versione cinematografica della trasmissione offrirà lo spunto di un perfetto pastiche all’inizio di Quarto potere.
Dal 1936 al 1937, Welles realizza messinscene teatrali per il Federal Theatre, istituzione sovvenzionata dalla Work Progress Administration (WPA). Tra le più innovative, va ricordato un Macbeth (1936) con attori di colore e spostamento della trama dalla Scozia a Haiti, e The Cradle Will Rock (1937), dramma in favore dei sindacati la cui prima viene annullata all’ultimo momento dalla WPA, obbligando la troupe a improvvisare una recita senza scenografie né costumi nella platea di un teatro vicino. L’incidente sancisce la fine dei rapporti tra Welles e il Federal Theatre. Assieme a John Houseman fonda allora il Mercury Theatre, i cui attori — Joseph Cotten, Agnes Moorehead, Everett Sloane, Ray Collins, per citare i nomi più importanti — resteranno legati alle future avventure del regista. Intanto, durante quegli anni la radio si sta trasformando nel primo grande mezzo di comunicazione di massa. Una delle trasmissioni più seguite è The Shadow, che narra le avventure di una sorta di uomo invisibile. La voce del protagonista è quella di Welles. La sua fama e il successo teatrale di Caesar (1937), adattamento dell’opera di Shakespeare in costumi moderni e con espliciti riferimenti al fascismo, spinge la CBS ad affidargli una trasmissione settimanale di un’ora, nella fascia serale di massimo ascolto. Ogni puntata dovrà adattare in diretta un classico della letteratura o del teatro. Welles sfrutterà tutte le possibilità narrative e drammaturgiche del nuovo mezzo, rivoluzionando la storia della radio.
The Mercury Theatre on The Air. First Person Singular inizia a diffondere l’11 luglio 1938 con un adattamento di Dracula dove il regista interpreta alternativamente le voci del narratore, del Dottor Seward e del vampiro. Dal 9 dicembre 1938, l’industria Campbell’s Soup (la cui lattina di pomodori pelati, 25 anni dopo, sarà elevata a eterno feticcio da Andy Warhol) diventa lo sponsor della trasmissione, che proseguirà fino al 31 marzo 1940 con il titolo The Campbell Playhouse. In tutto, Welles produce, realizza, interpreta (conservando il gusto di dar voce a più personaggi) e talvolta scrive 80 puntate, molte delle quali si riveleranno utili prove per i suoi lavori futuri. Il repertorio spazia da Jane Eyre al Conte di Montecristo, da L’isola del tesoro al Giro del mondo in 80 giorni, da Cuore di tenebra a Huckleberry Finn, da Giulio Cesare all’Orgoglio degli Amberson. Ogni storia è in prima persona e gli ascoltatori vengono continuamente interpellati; le transizioni del racconto, il gioco tra dialogo e narrazione, le possibilità sonore legate a rumori, musiche e silenzi sono portate a livelli tutt’ora insuperati di ingegno creativo. Welles passa nel corso di una stessa giornata da uno studio radiofonico all’altro (la CBS mette un ascensore a sua esclusiva disposizione), proseguendo le rappresentazioni teatrali in corso e curando le ripetizioni di quelle a venire (ricordiamo Too Much Johnson, 1938, e Five Kings, 1939, sunto in cinque ore di quattro opere di Shakespeare — Enrico V, Riccardo II, Enrico IV, Prima e Seconda parte — dove Welles incarna Falstaff), presenziando convegni politici e culturali e moltiplicando gli interventi sui giornali. In tre anni, si può dire che Welles realizzò quel che a malapena un essere umano molto talentuoso potrebbe compiere in una vita intera. (CONTINUA...)