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sabato 2 ottobre 2021

Old (M. Night Shyamalan, 2021)

A poche ore dalla visione di Old, direi che il film a cui somiglia di più guardando all'opera di M. Night Shyamalan è The Happening, che fu distrutto anche dai critici in precedenza più favorevoli all'autore. Avendo capito con notevole ritardo il suo talento (fino a The Village, che rivalutai pochi giorni dopo averlo visto, mi era piaciuto solo Unbreakable; Il sesto senso resta quello che mi interessa meno; all'uscita avevo trovato imbarazzante Signs, che invece è un capolavoro), ho sempre visto The Happening con uno sguardo più che benevolo. Qui si ritrova quella frontiera a suo unico modo perfetta tra il ridicolo supremo e un terrore letteralmente assoluto: quell'universo è retto da regole granitiche, completamente chiuso in se stesso, al contempo assurdo visto dal di fuori e sottoposto a una logica ferrea visto dall'interno. (L'opposizione trova un punto mediano nella figura di Shyamalan stesso, che da personaggio osserva con professionale costanza, con spietatezza oscena la scena.) È un'esperienza sgradevole, cui ancor prima di noi si piegano i personaggi e i loro interpreti: come in The Happening, si pensa alla distanziazione ma calata in un film di genere, in modo tale da sembrare presuntuosa e infine ridicola. In realtà la loro è inerzia qohéletiana, una stanchezza ontologica, che era anche presente in alcuni splendidi momenti di Glass, dove i personaggi sembrano adeguarsi torpidamente, quasi sonnambolicamente a un copione scontato, trito. Era già la cifra di Unbreakable, ma in alcune sequenze di Glass è proprio calcato, per esempio l'indulgere di Bruce Willis sul cadavere del guardiano, lo guarda, lo riguarda, e se non erro lo riguarda ancora una volta. Subito dopo la fatica di prendere il "costume da supereroe", il film è pieno di queste lentezze, in qualche modo giustificate dall'idea di un "regista" interno al film, ossia Samuel L. Jackson (e ancora una volta, in Old, lo stesso Shyamalan) con il suo controllare tutte le telecamere di sorveglianza, le riprese e la successiva proiezione pubblica via web, ecc. ecc. Questo tracollo della volontà è anche una caratteristica dei replicanti in Blade Runner, molto più netta nel romanzo di Dick che nel film. In Old è proprio detto, per quel che possono valere le cose dette: "Why did we want to leave this beach?". E in effetti se dovessi cercare difetti evidenti (oltre a tutti quelli sfuggenti) in Old uno dei due sarebbe un certo didascalismo in alcuni dialoghi, e in particolare nel momento in cui si tenta di "risolvere" il buco nero della sceneggiatura (come può un invecchiamento iperaccelerato portarsi appresso l'evoluzione psicologica, culturale, linguistica, da un bambino a un adolescente e da un adolescente a un adulto?). Ma quelle di Old sono comunque, naturaliter (una natura ancora una volta folle, spietata, brutale e coerente, tutto insieme) "parole al vento": immemori del passato e senza futuro.
(Il secondo difetto del film sta in una certa mano sinistra nell'esecuzione del finale, che da quel che ho capito è diverso da quello della graphic novel. Quella diversità però è comunque benvenuta e lungimirante, in termini di cinema, di un certo cinema, del cinema di genere e della poetica acrobatica di Shyamalan. La sua resa insoddisfacente può essere imputabile sia a un eccesso di programmaticità, sia alle difficoltà legate a molti film girati in tempo di pandemia.)

Intanto Shyamalan, reduce dall'esperienza di Servant (una miniserie di due stagioni, con pochi episodi di 26 minuti, quelli da lui firmati sono il miglior horror degli ultimi anni) dimostra che per fare Lost non servivano seicento ore. Ne basta una e mezza o poco più. (Anche perché si era capito tutto fin dal primo episodio.) Quindi ricorda che anche il buñueliano L'angelo sterminatore (riferimento evidente, ho scoperto oggi che è dichiarato sfacciatamente nel film) era un capolavoro ridicolo, nel suo affidare una metafora ben più fulminante di qualsiasi Beckett o Ionesco a un cast di attori messicani: e funziona meglio di Beckett e Ionesco anche perché gli attori sono "cani maledetti". Infine porta a quello che mi sembra essere il limite estremo la sua concezione dello spazio: qui ridotto a uno straccio di spiaggia, una baia concava, letteralmente una quinta teatrale dal fascino discreto e al contempo pacchiano, circondata da scogliere digitali, scalabili nello spazio ma non nel tempo, chiusa da un oceano che a seconda delle inquadrature sembra pacifico o invalicabile. Quella curva di un centinaio di metri appena non è mai dominabile se non in rari totali divini (il Dio antico, mostruoso), mentre ad altezza d'uomo si declina in primi piani o comunque in inquadrature ravvicinate, in modo tale che questo spazio chiuso e lineare non rivela mai una sua organizzazione, come già era evidente nel condominio di Lady in the Water e nella piazzola-parcheggio dove si esaurisce tragicamente l'ultima parte di Glass. Un giardino dai sentieri che si biforcano senza sentieri e senza biforcazioni. Del resto non so quando e dove Borges abbia detto o scritto che è il deserto, il labirinto per eccellenza.
Old è il perfetto e raro esempio del brutto film che non dimenticherai mai più. Il cinema conta sempre più bei film. Ma ce ne fossero, di "brutti film".

sabato 7 dicembre 2019

Ad Astra (James Gray, 2019)

Mi si è fatto notare che quando in un post su facebook facevo una battuta su James Gray che mi ruba l'idea del "noi siamo soli", è lo stesso regista a rivelare che l'idea era di Clarke: "There’s a quote by Arthur C. Clarke where he said either we’re not alone in the universe or we are and both notions are equally terrifying. So all of this went into the movie and the action beats really were an attempt only to illuminate and expand upon these ideas". Dando per scontato che il mio era fin dall'inizio uno scherzo, appena ho letto la citazione essa mi è suonata familiare: il fatto che l'abbia espressa in termini praticamente identici non lascia dubbi, l'avevo digerita a tal punto da essere convinto che fosse un'idea mia. Costruire un film su una simile idea è praticamente impossibile, mi si fa anche giustamente osservare: non puoi provare scientificamente l'inesistenza di qualcosa (e in Ad Astra infatti non succede esattamente questo: il film si limita a suggerirlo). Verissimo: ma proprio per questo è efficace. Se riesci a far funzionare sullo schermo (o sulla pagina) un'idea che nella realtà e nella logica non funziona, hai svoltato. Provocatoriamente: hai svoltato ancor più che se fai una storia in cui "noi non siamo soli".
Partendo proprio dall'idea di Clarke, si potrebbe dire che il punto del film non è comunque quello. Il problema di Gray forse è che il punto non è mai "questo" o "quello", senza che l'assenza di punto ti coinvolga veramente, oppure il punto c'è ma si riduce al "grosso tema" (la famiglia, padre-figlio, fratelli, ecc.), su cui Gray non riesce mai fino in fondo a dire qualcosa di essenziale o indispensabile, sembra ricamarci sopra più o meno bene (per esempio in We Own the Night meglio che in The Yards, in The Yards meglio che in Little Odessa, una messa a fuoco durata 15 anni, non sgradevole ma un po' sfiancante, dello stesso film), come se forse anche quello, in fondo, non fosse "il punto". Anche le citazioni più disparate non riescono a trovare una loro coerenza interna, si passa da Mad Max a 2001 e poi li si abbandona, la voce over di Brad Pitt è un po' Malick, un po' Blade Runner, un po' Apocalypse Now e incomprensibilmente un po' pura didascalia (Brad Pitt si prepara mettiamo un piatto di maccheroni burro e parmigiano e poi si sente la voce di Brad Pitt che con un tono californian-metafisico dice "Mi sto preparando un piatto di maccheroni burro e parmigiano"). Tra tutti, quello di Apocalypse Now è il riferimento più pesante, a volte il film assume le sembianze del pacchiano remake, simile a (ma non complice di, che lo renderebbe molto più simpatico) onestissime mezze ciofeche b-movie tipo Enemy Mine di Petersen che trasferiva nello spazio Duello nel Pacifico di John Boorman con un alieno di latex al posto di Toshiro Mifune. Segno che la fantascienza è più uno spazio (spesso degradato e finto) che un genere, un po' come il western, di cui certa fantascienza è un chiaro tentativo di farne rivivere i fasti, vedi appunto la parte alla Mad Max con la sparatoria sulla Luna con i pirati ecc. ecc., ma anche queste son tutte cose che sappiamo da sempre e alle quali Gray non solo aggiunge poco ma anzi sembra non volerci neppure provare, al massimo forse strizzare un pigro occhietto allo spettatore, come se volesse dirci che appunto son cose a noi tutte note da sempre e comunque "il punto non è quello", ma quale sia non si sa.
L'altro elemento che forse giustifica il prono appiattirsi su Apocalypse Now potrebbe essere quello di stabilire una giunzione con Lost City of Z, anche lì in cerca di un'autogiustificazione un po' raffazzonata della coerenza di un'opera "personale", laddove The Lost City of Z era un calco ancora più superfluo di Aguirre, film che a sua volta era il principale punto di riferimento di Coppola.

domenica 15 ottobre 2017

Blade Runner 2049 (Denis Villeneuve, 2017)

Più che nell'originale, in Blade Runner 2049 pesa la sceneggiatura: resta a valle il vero motore del film, la sua ragion d'essere. È chiaramente il risultato di vari copioni scritti lungo molti anni, e di ciascuno di essi non si è riuscito a stralciare tutto, dimodoché il copione definitivo parte zavorrato dalle versioni precedenti, per arrivare alla durata finale e non proprio giustificata. Molte situazioni partono sulla carta già vecchie e sullo schermo stentano a trovare una loro autonomia. Pesa molta fantascienza cinematografica e videoludica degli ultimi tre decenni; pesa tra tutti un film fantasma, che è A.I. di Stanley Kubrick.
Villeneuve viene chiamato a risolvere e trasfigurare il tutto, e ci riesce quasi sempre, ma non riesce a snaturare e soprattutto a sostituirsi al chimerico testo di partenza. Di suo ci mette l'incontestabile visionarietà di spazi immensi e tuttavia indecifrabili; esalta rime esterne (con il primo Blade Runner) e interne. Gli si chiede di risolvere l'anonimo testo hollywoodiano in versi, con un occhio a Stalker e Solaris. Ma – ed era già il problema dell'originale, scavalcato negli anni dall'immaginario collettivo – le parole a fine verso che Villeneuve si ritrova a disposizione appartengono al registro di "fiore", "cuore", "amore". Con Tarkovskij le parole erano altre. O meglio: erano a malapena "parole".