domenica 24 ottobre 2021

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venerdì 22 ottobre 2021

Halloween Kills (David Gordon Green, 2021)

Firmato da David Gordon Green, Halloween Kills nella prima parte si presenta come il terzo reboot del capolavoro carpenteriano (1978), dopo il dimenticabile Halloween H20: Twenty Years Later (1998) di Steve Miner e l'indimenticabile ma durissimo Halloween (2007) di Rob Zombie. Si presenta anche e subito come seguito immediato del precedente Halloween (2018, sempre di Green, e di cui non ricordo quasi nulla), quindi torna indietro di oltre quarant'anni aggiungendo un sottofinale spurio all'originale, del quale riproduce quasi perfettamente il tono, l'atmosfera, i tempi, la qualità della pellicola, le luci e persino gli attori (apparizione lampo di un sosia perfetto di Loomis/Pleasence). Nella sequenza aggiunta è una piacevole sorpresa la presenza purtroppo fugace di Jim Cummings, attore e regista inafferrabile e bizzarro, degno di maggior considerazione, ammesso e non concesso che gli interessi ricevere quella considerazione, essendo egli bizzarro e inafferrabile, una sorta di Quentin Dupieux americano.
Si torna al presente ma senza soluzione di continuità (nell'atmosfera, nella qualità della pellicola, nelle luci, ecc. ecc.) con l'originale aumentato: passa l'idea – filologicamente corretta – che nel genere in cui si inseriva Halloween non è cambiato pressoché nulla dal 1978; passa l'idea – filologicamente corretta – che verso la fine degli anni Settanta il cinema diventa una rimasticatura continua di tutto ciò che ha preceduto quegli anni: che il cinema, invenzione per eccellenza del ventesimo secolo e suo punto di partenza (1895, i numeri sono un'opinione), è fatto per registrare e proiettare in eterno quel secolo e basta, di cui ha decretato la fine con circa vent'anni d'anticipo sul calendario.
Il film procede accompagnando in ospedale la Laurie Strode di oggi, e in tal modo continua ad ammiccare al ciclo di partenza: si sovrappone quasi ucronicamente alle peripezie della Laurie Strode di ieri in Halloween 2 (1981) di Rick Rosenthal, titolo sanza infamia e sanza lode con qualche guizzo sicuramente attribuibile a Carpenter stesso (completamente suo è a mio avviso il piccolo capolavoro extra saga Halloween III: Season of the Witch, del 1982, a firma di Tommy Lee Wallace come The Thing from Another World è a firma di Christian Nyby quando in realtà è di Howard Hawks).

Bene, forse benissimo.

Quindi, il tracollo. In una ventina di minuti appaiono:
– Una coppia di afroamericani, ambedue presentati come personale ospedaliero, lei convenzionalmente sgallettata e lui placidamente scemo.
– Grossa sorpresa: lei sgallettata è il medico, lui "l'infermiera". Battuta comica.
– Una coppia di gay.

Esaurite le quote, Michael Myers le ammazza tutte. Michael Myers è il white trash, è quello che aspetta che si costituiscano le quote e poi le ammazza. Non gli piacciono i neri, non gli piacciono le donne che fanno carriera, non gli piacciono i gay.

Non è molto interessante.
(In seguito ci saranno molti dialoghi su cosa è Michael Myers, cosa è "il male", cosa è "il Male", "il male fuori da noi", "il male dentro di noi", la stessa cosa ma con "il male" con la M maiuscola, moltissimi dialoghi, tonnellate di parole come altrettante cucchiaiate di farina cruda masticate a fatica dagli attori e rifilate in pasto agli spettatori, un bolo non richiesto. E che non è molto interessante. A un certo punto c'è pure la trovata: tante persone, chiuse assieme in un luogo chiuso e animate da buonissime intenzioni, possono trasformarsi in un'unica massa mossa da pessime intenzioni. È banale? Filmiamole come fossero un branco di zombi! Peggio mi sento.)

Chiusa questa parentesi sindacale, il film viene preso in mano da un altro, è ovvio che Green è andato a mangiarsi un panino gigante. Sembra lo scarto tra la prima mezz'ora di Johnny Mnemonic e l'assurda sbobba che esausta portava quel film più che promettente ai titoli di coda.

Quando la nipote di Laurie Strode ottiene i suoi primi piani la signora accanto a me gesticola sul divano, si arrabbia: ma come? passi Jamie Lee Curtis alla casa sua senza trucco e inguardabile, ma 'ste giovanotte sciape che cosa mi rappresentano? cos'è, il festival delle cozze a caso?
E io: eeeh… è che le cozze necessarie… con quel corpo da cozza necessaria… quel volto da cozza necessaria… a portata di mano… quelle del 1978… puoi fare il postmoderno quanto ti pare… non ci sono più manco con il lanternino… eeeeeehhhh…

Questo post è dedicato a Nancy Kyes, a P.J. Soles, e a Laurie Zimmer (che in Halloween non c'è, ma sta in Assault on Precinct 13, che è meno popolare di Halloween ma più bello).



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mercoledì 20 ottobre 2021

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martedì 19 ottobre 2021

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domenica 17 ottobre 2021

sabato 16 ottobre 2021

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lunedì 11 ottobre 2021

Squid Game (Hwang Dong-Hyuk, 2021)

Finito due sere orsono. L'idea che mi sono fatto è che lo sceneggiatore e regista Hwang Dong-Hyuk avesse ben chiari (pare da un decennio e mezzo) i primi due episodi e l'ultimo, ma non si sia reso conto di quanto il secondo episodio mandi in tilt di verosimiglianza il tutto (finire là dentro, passi; tornarci, andava spiegato meglio). Fuori da quella sceneggiatura non c'è niente o quasi (quel "quasi" è forse il motivo per cui l'ho vista per intero, come per altre serie recenti, da Mare of Easttown a The Undoing): quindi la serie è solo quella sceneggiatura, con i suoi pregi e difetti. In mezzo c'è un "bolo" moderatamente avvincente, moderatamente spassoso, non esattamente originale. Eufemismo: La settima vittima di Robert Sheckley è datato 1953 e su questa striminzita distopia satirica si è ricamato con centinaia di libri, film, fumetti, videogiochi, serie. Il fatto che negli ultimi decenni la televisione, internet e parte dell'umanità (come protagonista, spettatrice o entrambi) abbia trasformato quella distopia in realtà non giustifica la ripetizione, a meno che essa non si concentri precisamente su quell'inveramento. La serie non fa questo. Quel bolo non è privo di qualità (principalmente un parco attori eccelso, cosa che in Corea del Sud è norma da tempo), ma manca di qualsiasi qualità particolare (Eigenschaften), in un certo senso simile alla "perfezione" di un Parasite, che colpisce al cuore tutti gli spettatori e nessuno di noi preso individualmente, qui, ora. Non c'è un minimo dettaglio della scenografia, dei costumi, dei colori, delle figure geometriche che non sia raccattato con più o meno furbizia, più o meno latrocinio, dall'immaginario Walmart degli ultimi settant'anni: dal disneyano e lievemente sottovalutato Buco nero alla Nintendo di SuperMario, dall'inguardabile Fuga di Logan ai simboli del controller PlayStation (non oso nominare Black Mirror perché sarebbe insulto eccessivo, Black Mirror è veramente il Male assoluto). Tutto in "salsa" coreana, senza nulla del genio coreano. Cucina internazionale, installazione esausta, macchina celibe e in fin dei conti il Kitsch secondo la definizione di Hermann Broch (che comprendeva già il fulmineo e quindi necessariamente, inevitabilmente effimero successo planetario non come riscatto ma come sintomo). La fotografia è Netflix per difetto, quando va bene; nulla, quando va male.
Nessuna immagine per illustrare il post, perché già ora non ne ricordo una.

EDIT e P.S.: Un'immagine, via, e malgrado tutto. Forse questa, presa dall'ultimo episodio, sicuramente il migliore. La serie ha i suoi momenti, le sue verità più o meno casuali, più o meno involontarie, più o meno logiche. Tra esse, l'idea di un "catfight" nel fango esclusivamente virile: ci viene in altri termini risparmiata l'inverosimiglianza ludico-politica di una o addirittura due "femmine" nella finale di un gioco che presentandosi come "egualitario" ripropone, conferma ed esalta tutti i rapporti di forza possibili immaginabili, che siano "naturali" o meno (non che questa contraddizione tra gli intenti del gioco e il suo svolgimento sia mai veramente trattata). Quindi un California Dolls in versione truculenta (negli anni mi son fatto l'idea che l'ultima opera di Robert Aldrich, forse ingiustamente considerata minore in Occidente, sia amatissima nei Paesi asiatici), fatto di soli maschi, in chiave ovviamente bromance e cripto-gay, di modo che la componente erotica esclusa dalla porta principale del copione rientra per pochi istanti dalla finestra della confusissima "règle du jeu".

venerdì 8 ottobre 2021

martedì 5 ottobre 2021

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sabato 2 ottobre 2021

Old (M. Night Shyamalan, 2021)

A poche ore dalla visione di Old, direi che il film a cui somiglia di più guardando all'opera di M. Night Shyamalan è The Happening, che fu distrutto anche dai critici in precedenza più favorevoli all'autore. Avendo capito con notevole ritardo il suo talento (fino a The Village, che rivalutai pochi giorni dopo averlo visto, mi era piaciuto solo Unbreakable; Il sesto senso resta quello che mi interessa meno; all'uscita avevo trovato imbarazzante Signs, che invece è un capolavoro), ho sempre visto The Happening con uno sguardo più che benevolo. Qui si ritrova quella frontiera a suo unico modo perfetta tra il ridicolo supremo e un terrore letteralmente assoluto: quell'universo è retto da regole granitiche, completamente chiuso in se stesso, al contempo assurdo visto dal di fuori e sottoposto a una logica ferrea visto dall'interno. (L'opposizione trova un punto mediano nella figura di Shyamalan stesso, che da personaggio osserva con professionale costanza, con spietatezza oscena la scena.) È un'esperienza sgradevole, cui ancor prima di noi si piegano i personaggi e i loro interpreti: come in The Happening, si pensa alla distanziazione ma calata in un film di genere, in modo tale da sembrare presuntuosa e infine ridicola. In realtà la loro è inerzia qohéletiana, una stanchezza ontologica, che era anche presente in alcuni splendidi momenti di Glass, dove i personaggi sembrano adeguarsi torpidamente, quasi sonnambolicamente a un copione scontato, trito. Era già la cifra di Unbreakable, ma in alcune sequenze di Glass è proprio calcato, per esempio l'indulgere di Bruce Willis sul cadavere del guardiano, lo guarda, lo riguarda, e se non erro lo riguarda ancora una volta. Subito dopo la fatica di prendere il "costume da supereroe", il film è pieno di queste lentezze, in qualche modo giustificate dall'idea di un "regista" interno al film, ossia Samuel L. Jackson (e ancora una volta, in Old, lo stesso Shyamalan) con il suo controllare tutte le telecamere di sorveglianza, le riprese e la successiva proiezione pubblica via web, ecc. ecc. Questo tracollo della volontà è anche una caratteristica dei replicanti in Blade Runner, molto più netta nel romanzo di Dick che nel film. In Old è proprio detto, per quel che possono valere le cose dette: "Why did we want to leave this beach?". E in effetti se dovessi cercare difetti evidenti (oltre a tutti quelli sfuggenti) in Old uno dei due sarebbe un certo didascalismo in alcuni dialoghi, e in particolare nel momento in cui si tenta di "risolvere" il buco nero della sceneggiatura (come può un invecchiamento iperaccelerato portarsi appresso l'evoluzione psicologica, culturale, linguistica, da un bambino a un adolescente e da un adolescente a un adulto?). Ma quelle di Old sono comunque, naturaliter (una natura ancora una volta folle, spietata, brutale e coerente, tutto insieme) "parole al vento": immemori del passato e senza futuro.
(Il secondo difetto del film sta in una certa mano sinistra nell'esecuzione del finale, che da quel che ho capito è diverso da quello della graphic novel. Quella diversità però è comunque benvenuta e lungimirante, in termini di cinema, di un certo cinema, del cinema di genere e della poetica acrobatica di Shyamalan. La sua resa insoddisfacente può essere imputabile sia a un eccesso di programmaticità, sia alle difficoltà legate a molti film girati in tempo di pandemia.)

Intanto Shyamalan, reduce dall'esperienza di Servant (una miniserie di due stagioni, con pochi episodi di 26 minuti, quelli da lui firmati sono il miglior horror degli ultimi anni) dimostra che per fare Lost non servivano seicento ore. Ne basta una e mezza o poco più. (Anche perché si era capito tutto fin dal primo episodio.) Quindi ricorda che anche il buñueliano L'angelo sterminatore (riferimento evidente, ho scoperto oggi che è dichiarato sfacciatamente nel film) era un capolavoro ridicolo, nel suo affidare una metafora ben più fulminante di qualsiasi Beckett o Ionesco a un cast di attori messicani: e funziona meglio di Beckett e Ionesco anche perché gli attori sono "cani maledetti". Infine porta a quello che mi sembra essere il limite estremo la sua concezione dello spazio: qui ridotto a uno straccio di spiaggia, una baia concava, letteralmente una quinta teatrale dal fascino discreto e al contempo pacchiano, circondata da scogliere digitali, scalabili nello spazio ma non nel tempo, chiusa da un oceano che a seconda delle inquadrature sembra pacifico o invalicabile. Quella curva di un centinaio di metri appena non è mai dominabile se non in rari totali divini (il Dio antico, mostruoso), mentre ad altezza d'uomo si declina in primi piani o comunque in inquadrature ravvicinate, in modo tale che questo spazio chiuso e lineare non rivela mai una sua organizzazione, come già era evidente nel condominio di Lady in the Water e nella piazzola-parcheggio dove si esaurisce tragicamente l'ultima parte di Glass. Un giardino dai sentieri che si biforcano senza sentieri e senza biforcazioni. Del resto non so quando e dove Borges abbia detto o scritto che è il deserto, il labirinto per eccellenza.
Old è il perfetto e raro esempio del brutto film che non dimenticherai mai più. Il cinema conta sempre più bei film. Ma ce ne fossero, di "brutti film".