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lunedì 26 settembre 2022
sabato 2 ottobre 2021
Old (M. Night Shyamalan, 2021)
A poche ore dalla visione di Old, direi che il film a cui somiglia di più guardando all'opera di M. Night Shyamalan è The Happening, che fu distrutto anche dai critici in precedenza più favorevoli all'autore. Avendo capito con notevole ritardo il suo talento (fino a The Village, che rivalutai pochi giorni dopo averlo visto, mi era piaciuto solo Unbreakable; Il sesto senso resta quello che mi interessa meno; all'uscita avevo trovato imbarazzante Signs, che invece è un capolavoro), ho sempre visto The Happening con uno sguardo più che benevolo. Qui si ritrova quella frontiera a suo unico modo perfetta tra il ridicolo supremo e un terrore letteralmente assoluto: quell'universo è retto da regole granitiche, completamente chiuso in se stesso, al contempo assurdo visto dal di fuori e sottoposto a una logica ferrea visto dall'interno. (L'opposizione trova un punto mediano nella figura di Shyamalan stesso, che da personaggio osserva con professionale costanza, con spietatezza oscena la scena.) È un'esperienza sgradevole, cui ancor prima di noi si piegano i personaggi e i loro interpreti: come in The Happening, si pensa alla distanziazione ma calata in un film di genere, in modo tale da sembrare presuntuosa e infine ridicola. In realtà la loro è inerzia qohéletiana, una stanchezza ontologica, che era anche presente in alcuni splendidi momenti di Glass, dove i personaggi sembrano adeguarsi torpidamente, quasi sonnambolicamente a un copione scontato, trito. Era già la cifra di Unbreakable, ma in alcune sequenze di Glass è proprio calcato, per esempio l'indulgere di Bruce Willis sul cadavere del guardiano, lo guarda, lo riguarda, e se non erro lo riguarda ancora una volta. Subito dopo la fatica di prendere il "costume da supereroe", il film è pieno di queste lentezze, in qualche modo giustificate dall'idea di un "regista" interno al film, ossia Samuel L. Jackson (e ancora una volta, in Old, lo stesso Shyamalan) con il suo controllare tutte le telecamere di sorveglianza, le riprese e la successiva proiezione pubblica via web, ecc. ecc. Questo tracollo della volontà è anche una caratteristica dei replicanti in Blade Runner, molto più netta nel romanzo di Dick che nel film. In Old è proprio detto, per quel che possono valere le cose dette: "Why did we want to leave this beach?". E in effetti se dovessi cercare difetti evidenti (oltre a tutti quelli sfuggenti) in Old uno dei due sarebbe un certo didascalismo in alcuni dialoghi, e in particolare nel momento in cui si tenta di "risolvere" il buco nero della sceneggiatura (come può un invecchiamento iperaccelerato portarsi appresso l'evoluzione psicologica, culturale, linguistica, da un bambino a un adolescente e da un adolescente a un adulto?). Ma quelle di Old sono comunque, naturaliter (una natura ancora una volta folle, spietata, brutale e coerente, tutto insieme) "parole al vento": immemori del passato e senza futuro.
(Il secondo difetto del film sta in una certa mano sinistra nell'esecuzione del finale, che da quel che ho capito è diverso da quello della graphic novel. Quella diversità però è comunque benvenuta e lungimirante, in termini di cinema, di un certo cinema, del cinema di genere e della poetica acrobatica di Shyamalan. La sua resa insoddisfacente può essere imputabile sia a un eccesso di programmaticità, sia alle difficoltà legate a molti film girati in tempo di pandemia.)
(Il secondo difetto del film sta in una certa mano sinistra nell'esecuzione del finale, che da quel che ho capito è diverso da quello della graphic novel. Quella diversità però è comunque benvenuta e lungimirante, in termini di cinema, di un certo cinema, del cinema di genere e della poetica acrobatica di Shyamalan. La sua resa insoddisfacente può essere imputabile sia a un eccesso di programmaticità, sia alle difficoltà legate a molti film girati in tempo di pandemia.)
Intanto Shyamalan, reduce dall'esperienza di Servant (una miniserie di due stagioni, con pochi episodi di 26 minuti, quelli da lui firmati sono il miglior horror degli ultimi anni) dimostra che per fare Lost non servivano seicento ore. Ne basta una e mezza o poco più. (Anche perché si era capito tutto fin dal primo episodio.) Quindi ricorda che anche il buñueliano L'angelo sterminatore (riferimento evidente, ho scoperto oggi che è dichiarato sfacciatamente nel film) era un capolavoro ridicolo, nel suo affidare una metafora ben più fulminante di qualsiasi Beckett o Ionesco a un cast di attori messicani: e funziona meglio di Beckett e Ionesco anche perché gli attori sono "cani maledetti". Infine porta a quello che mi sembra essere il limite estremo la sua concezione dello spazio: qui ridotto a uno straccio di spiaggia, una baia concava, letteralmente una quinta teatrale dal fascino discreto e al contempo pacchiano, circondata da scogliere digitali, scalabili nello spazio ma non nel tempo, chiusa da un oceano che a seconda delle inquadrature sembra pacifico o invalicabile. Quella curva di un centinaio di metri appena non è mai dominabile se non in rari totali divini (il Dio antico, mostruoso), mentre ad altezza d'uomo si declina in primi piani o comunque in inquadrature ravvicinate, in modo tale che questo spazio chiuso e lineare non rivela mai una sua organizzazione, come già era evidente nel condominio di Lady in the Water e nella piazzola-parcheggio dove si esaurisce tragicamente l'ultima parte di Glass. Un giardino dai sentieri che si biforcano senza sentieri e senza biforcazioni. Del resto non so quando e dove Borges abbia detto o scritto che è il deserto, il labirinto per eccellenza.
Old è il perfetto e raro esempio del brutto film che non dimenticherai mai più. Il cinema conta sempre più bei film. Ma ce ne fossero, di "brutti film".
martedì 9 febbraio 2021
venerdì 29 gennaio 2021
lunedì 18 gennaio 2021
sabato 5 novembre 2011
lunedì 21 marzo 2011
domenica 15 agosto 2010
Trilogia della villeggiatura
Non sono mai stato in un posto in cui mi piacerebbe tornare, questo è poco ma sicuro.
Bennie (Warren Oates) in Voglio la testa di Garcia (Bring me the Head of Alfredo Garcia, 1974) di Sam Peckinpah.
Una volta sono stato alle Isole Vergini. Ho incontrato una ragazza. Abbiamo mangiato aragoste. Bevuto piña colada. Al tramonto, abbiamo fatto l’amore come lontre. Quella è stata proprio una bella giornata. Perché non posso avere quel giorno ancora, e ancora, e ancora?…
Phil Connors (Bill Murray), condannato a vivere e rivivere lo stesso 2 febbraio, non nelle Isole Vergini, ma nella noiosa cittadina di Punxsatawney, Pennsylvania: niente piña colada in Ricomincio da capo (Groundhog Day, 1993) di Harold Ramis.
Bennie (Warren Oates) in Voglio la testa di Garcia (Bring me the Head of Alfredo Garcia, 1974) di Sam Peckinpah.
Una volta sono stato alle Isole Vergini. Ho incontrato una ragazza. Abbiamo mangiato aragoste. Bevuto piña colada. Al tramonto, abbiamo fatto l’amore come lontre. Quella è stata proprio una bella giornata. Perché non posso avere quel giorno ancora, e ancora, e ancora?…
Phil Connors (Bill Murray), condannato a vivere e rivivere lo stesso 2 febbraio, non nelle Isole Vergini, ma nella noiosa cittadina di Punxsatawney, Pennsylvania: niente piña colada in Ricomincio da capo (Groundhog Day, 1993) di Harold Ramis.
— Dove andate così di fretta?
— A Santiago!
— In pellegrinaggio?
— Macché, ci andiamo per far soldi. C’è un sacco di gente, no?
— Non c’è nessuno. Nessuno. Nelle quattro piazze che circondano la cattedrale, una volta c’erano migliaia e migliaia di pellegrini, ora è vuoto, completamente vuoto, nemmeno un cane, stessa cosa negli alberghi, tutto vuoto, tutto.
Tempi di magra per una prostituta (Delphine Seyrig) e i barboni Pierre (Paul Frankeur) e Jean (Laurent Terzieff): non c’è un cane a Santiago di Compostella ne La via lattea (Luis Buñuel, 1969).
— A Santiago!
— In pellegrinaggio?
— Macché, ci andiamo per far soldi. C’è un sacco di gente, no?
— Non c’è nessuno. Nessuno. Nelle quattro piazze che circondano la cattedrale, una volta c’erano migliaia e migliaia di pellegrini, ora è vuoto, completamente vuoto, nemmeno un cane, stessa cosa negli alberghi, tutto vuoto, tutto.
Tempi di magra per una prostituta (Delphine Seyrig) e i barboni Pierre (Paul Frankeur) e Jean (Laurent Terzieff): non c’è un cane a Santiago di Compostella ne La via lattea (Luis Buñuel, 1969).
venerdì 21 agosto 2009
Figli di Marx e
Questo è whisky, sulle bottiglie c'è scritto così, ma sembra quasi-cola.
Don Rafael Acosta (Fernando Rey) nel Fascino discreto della borghesia (Luis Buñuel, 1972).
Don Rafael Acosta (Fernando Rey) nel Fascino discreto della borghesia (Luis Buñuel, 1972).
domenica 21 giugno 2009
L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)
XXII — PIGOLATURE
Tre multe del sindaco sceriffo a chi fa tacere questa gallina urlando il titolo del film.
AGGIORNAMENTO (mercoledì 24 giugno): Dal ministero delle Camminate Beote ci è appena pervenuto questo decreto di applicazione. Un condono riduce le multe da tre a due.
AGGIORNAMENTO (venerdì 26 giugno): Rinvenute le armi del delitto, il protagonista è quasi reo confesso. Merita le attenuanti: una sola multa.
AGGIORNAMENTO (mercoledì 24 giugno): Dal ministero delle Camminate Beote ci è appena pervenuto questo decreto di applicazione. Un condono riduce le multe da tre a due.
AGGIORNAMENTO (venerdì 26 giugno): Rinvenute le armi del delitto, il protagonista è quasi reo confesso. Merita le attenuanti: una sola multa.
P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui. Se non sei Sado vai da Maso.
LA PARTITA SI È CONCLUSA SENZA VINCITORI.
IL FILM DA TROVARE ERA EL (LUIS BUÑUEL, 1953).
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 28 GIUGNO.
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giovedì 29 gennaio 2009
Bistecche 6
… la madre di quei marmocchi aggrappati ai cenci, il catino smaltato dove si lava il seno, l’adolescente che fuma come un adulto, le coperte militari sui letti dei bambini, diversi bambini per letto, e l’idea che tutti hanno fame…
Jean Louis Schefer — ricordando un’immagine dei Figli della violenza (Los Olvidados, 1950) di Luis Buñuel —, L’uomo comune del cinema (traduzione di Michele Canosa), Quodlibet, Macerata 2006, p. 110.
Jean Louis Schefer — ricordando un’immagine dei Figli della violenza (Los Olvidados, 1950) di Luis Buñuel —, L’uomo comune del cinema (traduzione di Michele Canosa), Quodlibet, Macerata 2006, p. 110.
lunedì 8 dicembre 2008
Jean Louis Schefer o la solitudine dell'immagine
La vita criminale di Archibaldo de la Cruz trae origine da un ricordo d’infanzia. Non serve un motivo, basta un motivetto: quello del carillon, da lui azionato mentre la bella governante osservava dalla finestra una sommossa popolare. Le rotelle del giocattolo innescano magiche causalità, complice l’ossessione: la ballerina-automa ruota su se stessa, sgranando la melodia della nevrosi; l’irrefrenabile erotismo di un impulso omicida attraversa la mente del bambino; carica della polizia, colpi di pistola; una pallottola colpisce la governante, che si accascia al suolo, irrigidita in una posa lasciva. Da quella notte, Archibaldo non penserà ad altro che a trasformare quel primo caso in necessità, a volgere l’affetto feticista in azione omicida, a farsi protagonista dei propri desideri di amore e morte. Ma il destino seguiterà a beffarlo, votandolo a una carriera di incolpevole omicida seriale, disseminata di morti violente senza delitto né castigo, e condannandolo alla suprema umiliazione del lieto fine. Estasi di un delitto, Luis Buñuel, 1953.
Il sonno del signor Ferrand è tormentato da un incubo, il cui segreto viene svelato progressivamente: è notte e la città dorme; il silenzio è rotto da un ticchettio regolare; il rumore si fa sempre più vicino, sempre più minaccioso. È prodotto da un bastone bianco, che tasta affannoso il selciato. Chi lo impugna è cieco: senz’altro lo stesso Ferrand, bambino. Ma è solo una finzione criminale: il bastone passa attraverso la grata di un cinema chiuso, l’estremità ricurva serve ad avvicinare il carrello delle fotografie del film Quarto potere. Il bambino stacca le immagini ad una ad una, le infila sotto il braccio e fugge a gambe levate, passando davanti a un negozio specializzato in apparecchi acustici. Ferrand si sveglia di soprassalto. Ora fa il regista, ed è sordo. Effetto notte, François Truffaut, 1973.
Ne L’uomo comune del cinema, lo storico dell’arte Jean Louis Schefer — allievo di Barthes e autore di numerosi saggi di semiotica figurativa, dedicati a Paolo Uccello, al Correggio, a El Greco, a Goya o a Chardin — perpetra per trentaquattro volte un analogo delitto, riesumando dal tessuto della propria memoria altrettanti fotogrammi: immagini strappate a un’arte dove l’illusione del movimento serve a mascherare “l’origine del crimine”, ossia il tempo, trasformando lo spettatore in solito sospetto. È un piccolo classico della letteratura cinematografica, e il lettore italiano ha dovuto aspettare un quarto di secolo per poterne finalmente leggere la traduzione dal francese, una vera e propria impresa condotta da Michele Canosa per le edizioni Quodlibet (Macerata).
A metà strada tra il saggio e l’autobiografia in absentia, Schefer ruota attorno all’esperienza della proiezione cinematografica, e fa della stessa proiezione una ruota (o una sfera) il cui centro invisibile coincide con l’occhio dello spettatore. La fonte di luce del libro si trova nella prima parte, appunto dedicata ai fotogrammi cinematografici, ciascuno di essi accompagnato da un testo breve che sembra richiamarsi alla poesia in prosa o, più precisamente, al blasone. Non sono quasi mai foto posate, ma scatti che in origine si inserivano in sequenze drammatiche, comunque dinamiche. Sono dunque fotografie rare, sconosciute, non sempre di qualità eccelsa, in un bianco e nero spesso sgranato. Il testo che le accompagna non è mai infondato, eppure non si limita a commentare le immagini: sembra piuttosto produrle, come se il fotogramma non preesistesse all’“uomo comune”, ma fosse il prodotto, lo “scatto” del ricordo, incerto tra una promessa di azione e la dissolvenza. La memoria dello spettatore-Schefer diventa in tal modo una camera oscura, e quel che in esso è restato imprigionato (impressionato) “non è il contrario dell’oblio, piuttosto il suo rovescio” come diceva Chris Marker nel film Sans soleil.
L’esperienza dello spettatore è stata spesso paragonata a quella di una persona che sogna. E se il sonno della ragione (o della memoria) genera mostri, non sorprende allora che tutte le immagini di Schefer abbiano il sapore di un incubo. I fenomeni da baraccone in Freaks di Tod Browning, capitanati dal torso umano Prince Randian: “Questo coso è ancora un uomo? già un mostro? Un uomo non coincide forse col suo viso, cioè lì dove può essere indifferentemente sublime e atroce? Non so perché questo personaggio di Freaks condensato o ridotto a un solo membro in fasce (un membro e non un organo), a un manicotto rampante, come ci mostra la fotografia, evochi l’idea husserliana di quella curiosa sottrazione dei fenomeni che permette di raggiungere l’essenza”. E la Mummia sbrindellata di Terence Fisher: “Questa bambola gigantesca, fatta di stracci, di bende (tutto il suo corpo è una corazza purulenta), diventa, fin nei suoi occhi fasciati, uno sguardo della putrefazione che condanna il mondo”. Ma anche il volto incipriato della Nanà di Jean Renoir: “Questo essere non è desiderabile (porta persino la maschera dell’odio verso il desiderio), non è semplicemente mai sazio: è un essere che può tramutare il mondo intero in cibo”. Persino Stanlio & Ollio, Buster Keaton o Charlot sono mostruosi, quando la mente li proietta alla luce di una pallida lampadina nuda, nella cantina dove il bambino Schefer, futuro “uomo comune del cinema”, aspettava che passassero i bombardamenti, la guerra e l’infanzia: “Eppure è solo l’immagine, anzi di più: è la solitudine di quest’immagine”.

Un nulla? No: un (non)nulla. Ma se è così, allora perché Archibaldo de la Cruz afferma che il suo ricordo infantile, delizioso e delittuoso, gli è rimasto impresso nella memoria “come fosse una fotografia”?
martedì 15 aprile 2008
Un risveglio
Hai mai beccato cinquecento pugni in faccia a sera? Irrita la pelle, dopo un po’.
Rocky Balboa (Sylvester Stallone) in Rocky II (Sylvester Stallone, 1979).
Ricordo che nei Blues Brothers la prima prova della band ritrovata, Jake & Elwood la danno in un localaccio di buzzurri, hanno appena il tempo di accennare un rythm'n'blues e allora capiscono perché il podio è circondato da una grata d'acciaio: serve a proteggerli dai lanci di bottiglie di birra. Allora la buttano su “Rawhide”, Elwood canta ma Jake è scazzato, fa lo sciopero dell'ugola, si limita a urlare la metà dei recitativi (head'em up! move 'em out! ride 'em in!), afferra una frusta e si diverte (si fa per dire, Belushi non ha mai riso, che io sappia, era un Keaton “Busted”, l'amico ciccio che avremmo tutti voluto avere, pace, sarà per un'altra vita) a far schizzare le cicche dalle labbra della platea coatta. Ormai coi lacrimoni agli occhi, perché i nostri son passati a “Stand By Your Man” e in fondo i cowboys dell'Illinois non sono cattivi, sono solo un po' scemi.
Insomma, il country non è il mio forte, ma mi piace anche l'inizio di Città amara con quell'attacco di chitarra che s'interrompe nella stanza di Stacy Keach, alzarsi dal letto la mattina è una faticaccia, quando la notte di cazzotti presi e di whisky incassati dura da una vita e non c'è nessuno che ti aiuti ad attraversarla, to make it through è una bell'espressione, persino infilarsi un pedalino è un'impresa, ed è proprio con Keach marcio alle prese con un pedalino che la musica riprende e si scopre che è una canzone perché stavolta c'è pure la voce di Kris Kristofferson. No, Kristofferson no! dirai tu. E invece sì, primo perché qui decido io, mica siamo in democrazia. Secondo perché tu ridi, ma Kristofferson almeno due meriti li ha. Ha una filmografia che alterna capolavori (I cancelli del cielo, Stella solitaria, Pat Garrett e Billy the Kid “director's cut”, Voglio la testa di Garcia), e film simpatici (Convoy — Trincea d'asfalto). E poi ha un fisico verosimile, nel senso che nella parte del “maschio cui nessuna femmina direbbe di no” è credibile, mentre se mi mostrano Keanu Reeves no, non ci credo, I don't buy it, come direbbero i cowboys dell'Illinois, che sono un po' scemi ma almeno non sono cattivi, in fondo.
E poi Keach esce dall'appartamento muffo, alla fine è riuscito pure a vestirsi, scende le scale, attraversa l'androne e si trova per strada (fuori c'è un sole che sembra prenderti per il culo, come si permette), e dietro di lui c'è la facciata hopperiana a mattoni rossi del palazzo. Uscire di casa è un atto di eroismo, roba da tough guys, ti spompa tutte le energie. Infatti Keach si ferma lì un attimo. Per riprender fiato e anche per chiedersi perché cazzo è uscito, prima o poi nella vita quella dannata domanda tocca farsela. Ah, già. L'allenamento in palestra. Lo sapevo che mi ero dimenticato qualcosa. Uffa. Keach si rituffa nell'androne buio, ancora la puzza di alcool e sigarette, ancora le scale, ancora l'appartamento, dove cazzo sta quella maledetta borsa coi guantoni e i calzoncini che ormai mi stanno pure stretti, where the fuck, sposta le bottiglie vuote, solleva la coperta caduta per terra, ah eccola. Ora possiamo andare. Forse. Però che bell'inizio, Fat City.
P.S.: Sì, lo vedo anch'io che la facciata non è di mattoni rossi, non sono mica cieco. Però è di mattoni rossi: “Di Benjamin Péret ammiravo la varietà dei punti di vista. Come sapeva ricreare la realtà! I ciechi, per esempio. Péret scrisse: ‘Non è forse vero che la mortadella è fatta dai ciechi?’. Accidenti, che incredibile precisione! So benissimo che i ciechi non fanno la mortadella. Però la fanno. Li si può vedere mentre la fanno” (Luis Buñuel).
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