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martedì 5 gennaio 2010

The Great Train Robbery

[…] j'aimais bien Casey Affleck, le fait que tout le monde passe son temps à se tirer littéralement dans le dos, l'impression générale que le film a en quelque sorte intégré la présence invisible de ses propres spectateurs, ceux du présent au cinéma et ceux du passé au théâtre (et la dernière partie me semble confirmer cette impression), l'attente créée par la voix off, dont on soupçonne toujours qu'elle va nous sortir une réflexion métaphysique et qui reste toujours en deça de nos espérances (ce qui est un choix judicieux, la plupart du temps, art de la déception etc.) en restant platement descriptive, non sans une sorte de bizarre stupeur heideggerienne, bref une voix off quelque part entre Malick et Barry Lyndon, et qui confère au film une petite musique qui au fond me semble une petite invention. Et puis les scènes pesantes où Jesse James pose une question, et on sait qu'il connaît déjà la réponse, et ses interlocuteurs aussi, et pourtant ils continuent à mentir, mollement, sans conviction, sans même savoir pourquoi, en attendant qu'un ange passe, ou plutôt un diable, et qu'il les emporte tous en enfer.



[…] questa scena resta un capolavoro di condensazione forma-senso, la storia degli Stati Uniti d'America in due minuti di film girati da un neozelandese.


lunedì 30 novembre 2009

Bara con nighthawk e cowboy

Don't that picture look dusty?
Jesse James (Brad Pitt) nell'Assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (Andrew Dominik, 2007).


Parlo da ex cinefilo e poi ex cinefago. Per entrambi, senza Hopper non si dà né lo Huston urbano di Città amara né il Malick agreste dei Giorni del cielo (dove la fotografia dell'ormai quasi cieco Almendros si nutre di moltissime altre influenze, da Vermeer a Wyeth). Ognuno parla guardando le storie, i film che si proietta: il che significa che ognuno parla senza ascoltare quel che dice. Proprio stasera, rivedendo un pezzo del would-be Malick ma non disonorevole Jesse James di Dominik, mi sono detto che se proprio si volesse fare un appunto a Hopper, esso muoverebbe da una blanda critica per un eccesso di nitidezza iperrealista, che sembra rassicurare sulla presenza viva dell'essere proprio mentre vorrebbe rappresentarne la sottrazione. Non dico che l'artista avrebbe avuto in pugno l'Unheimlich se si fosse limitato a rendere blurry le sue figure come nelle immagini di questo strano film dove il futuro assassinio di un uomo si rappresenta borgesianamente agli occhi dell'omicida come già compiuto, inesorabile: "His fingers skittered over his ribs to construe the scars where Jesse was twice shot. He manufactured a middle finger that was missing the top two knuckles. He imagined himself at 34. He imagined himself in a coffin. He considered possibilities and everything wonderful that could come true". È come se Hopper fosse scivolato sulla rutilante superfice della tradizione americana senza mai scrivere la propria Isola del tesoro, che infatti firmò uno scozzese ma in cui c'era già tutto Peckinpah, più classico di quel che si pensa, se "classico" significasse qualcosa. Raccontare the ultimate pirate story, sapendo che quel tempo è concluso, e integrare la consapevolezza di questa narrazione post mortem all'interno del quadro stesso.
L'isola del tesoro è scritto come in soggettiva, da una bara. Più che alla celebre sequenza di Vampyr, penso a Long John Silver e ai suoi pirati come a un mucchio selvaggio ante litteram o anche alla didascalia finale di Barry Lyndon, assente dal romanzo di Thackeray. E forse ci ho pensato anche perché sono convinto che la grandezza del romanzo di Stevenson risieda nella sua perfetta inadattabilità, nel suo essere un libro fatto esclusivamente di carta, che comincia e finisce in letteratura. Il fallimento dei vari adattamenti mi sembra confermarlo, e persino il Fleming richiede allo spettatore di non aver letto o di accantonare il ricordo del libro e di guardare esclusivamente Wallace Beery. Mentre in effetti ci sono pittori che sembrano aspettare di essere adattati (e risolti, spesso in modo migliore) al cinema, il che non toglie nulla al loro genio ma ai miei occhi li rende l'equivalente pittorico e "alto" di uno Stephen King, scrittore tutt'altro che spregevole, a scanso d'equivoci.
Ma d'altra parte, può darsi che Hopper abbia avuto l'intuizione della contemporaneità, qualcosa che Stevenson forse non poteva immaginare, ossia la presa del potere non da parte di Luigi XIV, e neppure da parte del "popolo" o del "cittadino", ma dell'ascensore, e che si sia adattato a rappresentare una metafisica d'ascensore, un'attesa dell'ascensore, un'assenza di Dio nell'ascensore.