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martedì 1 luglio 2014

Gufi

Perché il gufo gufò? Perché il picchio picchiò.
Throper Fallcaster, collezionista di freddure sugli uccelli e 54° caso esaminato in The Falls (Peter Greenaway, 1980).

Da sempre, appena sento la parola "gufo", la prima cosa a cui penso è un racconto di Ambrose Bierce, An Occurrence at Owl Creek Bridge, che lessi da bambino. Fu pubblicato nel 1890 sul "San Francisco Examiner". Un anno dopo Bierce lo inserì nella raccolta Tales of Soldiers and Civilians. Il titolo riporta chiaramente alla Guerra civile americana. Ma nel racconto che mi colpì (questo blog racconta esclusivamente la storia di un uomo "marqué par une image d'enfance") il contesto storico è irrilevante. Anche i gufi c'entrano poco. Si limitano a dare il nome a un ponte, dove inizia e finisce la storia. Dove finisce, soprattutto. Anche se in realtà finisce dove inizia. Anche se in realtà finisce come inizia.
Sono appena dieci cartelle, ma a causa della trovata finale ha segnato per sempre la storia della narrativa mondiale, e in particolare la narrazione fantastica. Quando incombeva plumbea "l'egemonia culturale della sinistra" e "i professoroni" terrorizzavano la nazione, l'italiano disponeva di decine di migliaia di parole, e in quella babele poteva persino permettersi di ospitare vocaboli repellenti. Per il racconto di Bierce, possiamo star certi che sarebbe stato usato il mostruoso aggettivo "seminale". Oggi, fortunatamente, quell'epoca cupa si è conclusa, e con le nostre 500 parole non riusciremmo neppure a raccontare un fine settimana di Maigret, ma almeno "famo a capirci" e diciamo che il racconto di Bierce è "’na robba".
In letteratura, la stoccata finale delle varianti di Owl Creek Bridge la dà Borges nel suo più bel racconto, El Sur. Fu pubblicato assieme a due altri testi nella seconda edizione di Finzioni. Il colpo di genio di El Sur è l'azzardo supremo: eliminare del tutto la trovata finale per disseminarla lungo tutto il testo, in tal modo che solo il lettore più malizioso potrà sospettare la soluzione (e, più che sospettarla, sentirla: sentirse en muerte, come titolava il primo esperimento narrativo di Borges, ispirato al medesimo incidente autobiografico: un incidente "seminale"). È un'operazione squisitamente letteraria. Molti anni dopo, chiudendo il cerchio, Roberto Bolaño trasformerà il tutto in splendido e mediocre sberleffo, con El gaucho insufrible. Il pastiche di Bolaño elimina il colpo di scena, semplicemente. Non lo trovi né alla fine del racconto, né all'inizio, né durante. È bellissimo.
Al cinema i nipotini di Bierce riempirebbero un orfanotrofio dickensiano (per non parlare della televisione: quel racconto è praticamente il palinsesto di qualsiasi episodio di The Twilight Zone). Il mio preferito è Carnival of Souls di Harold Arnold "Herk" Harvey (dopo quel film, di "Herk" credo non si seppe più nulla). E non solo perché assieme a L'ultimo uomo della Terra di Ubaldo Ragona ispirò a Romero La notte dei morti viventi. Ma anche per quello. Il film più famoso è invece Il sesto senso di M. Night Shyamalan, che a me però non ha mai convinto perché non c'è colpo di scena, per quanto sorprendente (e dal 1890 quel colpo di scena non sorprende più), che giustifichi la tortura di un racconto psicologico. Shyamalan lo ha capito, e i film che ha fatto in seguito mi piacciono moltissimo.
Dal racconto di Bierce è stato girato un cortometraggio, La Rivière du hibou.



Subito dopo Bierce, quando sento la parola "gufo" penso a John Travolta, nel film in cui scoprii che John Travolta era un attore fenomenale. Blow Out è anche il film che preferisco di Brian De Palma. A ripeterlo rapidamente, diventa uno scioglilingua e sembra quasi di sentire il gufo gufare: blow out blow out blowlout.
La prima volta che Travolta raccoglie i suoi miserabili effetti sonori sul ponte dove inizia la storia (ma non finisce, anche se sempre lì si torna; mentre il film, che racconta un'altra storia, comincia prima e quindi finisce dove comincia), il gufo bubola e sembra guardarlo fisso negli occhi. Però quando la raccolta viene ricostituita mentalmente in studio, l'immagine si divide in due, la memoria si sdoppia razionalmente e schizofrenicamente, con il senno e la paranoia di poi: Travolta e il gufo guardano nella medesima direzione: verso l'incidente (o occurrence). Si chiama split screen, a De Palma piace molto perché a lui piacciono le cose più brutte, De Palma è lo spazzino del cine, se fosse italiano sarebbe capace di fare un film intitolato "Il bubolio seminale del gufo".
Naturalmente quell'immagine non l'hai più dimenticata.


Ma alla fine il gufo gufò gufò gufò.

sabato 10 maggio 2014

"Mancano dettagli, rettifiche, messe a punto."

È stato detto che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. Ciò equivale ad affermare che non c'è discussione di carattere astratto che non sia un momento della polemica di Aristotele e Platone; attraverso i secoli e le latitudini, cambiano i nomi, le lingue, i volti, ma non gli eterni antagonisti. Anche la storia dei popoli registra una continuità segreta. Arminio, quando massacrò in una palude le legioni di Varo, non si sapeva precursore d'un Impero Germanico; Lutero, traduttore della Bibbia, non sospettava che il suo fine era quello di forgiare un popolo che distruggesse per sempre la Bibbia; Christoph zur Linde, che una pallottola moscovita uccise nel 1758, preparò in qualche modo le vittorie del 1914; Hitler credette di lottare per un paese, ma lottò per tutti, anche per quelli che aggredì e detestò. Non importa che il suo io lo ignorasse; lo sapevano il suo sangue, la sua volontà. Il mondo moriva di giudaismo e di quella malattia del giudaismo che è la fede di Gesù; noi gli insegnammo la violenza e la fede della spada. Tale spada ci uccide, e noi siamo paragonabili al mago che tesse un labirinto ed è costretto a errarvi fino alla fine dei suoi giorni, o a David che giudica uno sconosciuto e lo condanna a morte e ode poi la rivelazione: Tu sei quell'uomo. Molte cose bisogna distruggere, per edificare il nuovo ordine; ora sappiamo che la Germania era una di quelle cose. Abbiamo dato più delle nostre vite, abbiamo dato il destino del nostro amato paese. Altri maledicano e piangano; io sono lieto che il nostro dono sia circolare e perfetto.
Jorge Luis Borges, "Deutsches Requiem", L'Aleph, Milano 1989 [1959], pp. 87-8.


mercoledì 6 giugno 2012

Io li amo, i marziani dell'Illinois

RAY BRADBURY, 22/08/1920 - 05/06/2012

In Bradbury la cosa più importante come invenzione magica è la sua tristezza, il tedio, la malinconia, l'inutilità.
Jorge Luis Borges.

mercoledì 16 marzo 2011

Hard Aleph

Vidi il popò di Briatore, vidi cani e gatti, vidi le moltitudini della Padania, vidi una caprese in cui si alternavano fette di mozzarella blu e fette di pomodori marci al centro di un piatto di plastica, vidi una mascella spezzata (era Berlusconi), vidi infiniti denti che addentavano i miei denti come nel gabinetto di un'igienista, vidi tutte le igieniste e nessuna mi spazzolò, vidi a corso Rinascimento le stesse teste di cazzo che trent’anni prima avevo viste a via degli Uffici del vicario, vidi sgrammaticature, sx, coca light, peni di cartone, jacuzzi fai da te, vidi contorti disegni di legge e ciascuno dei loro emendamenti, vidi a Milano Due una meteorina che levati, vidi l'extension, il culo a mandolino, vidi un tumore nella 32AA in 40D, vidi un buco in mezzo all'autostrada, dove prima era un giudice, vidi in una casa di Secondigliano un Meridiano di Guia Soncini, vidi insieme la prescrizione e la decorrenza dei termini di quella prescrizione, vidi un tramonto sul plastico di Brembate di Sopra che sembrava riflettere il colore di un trifoglio del plastico di Brembate di Sotto, vidi la mia stanza da letto occupata da Alessandro D'Avenia, vidi in un cesso di Avetrana un orologio Cartier Miss Pasha con cinturino intercambiabile posto tra due mortadelle che lo ammodernizzano più meglio, vidi chihuahua impellicciati su una spiaggia di Fregene il pomeriggio, vidi tutte le venuzze del naso di Ferrara alle 20.33, vidi Fede e Mora al dopolavoro mandarsi messaggini, vidi in uno stand di arredamento beato chi s'oo fa' 'n sofà, vidi 33 ragazze sul pianerottolo di un ascensore con aglio e oglio, vidi dildi, tsunami, vulnus e La Russa, vidi tutti gli elettori del Pdl che esistono sottoterra, vidi una nipote di Mubarak, vidi in un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise, che Kafka aveva dirette a Milena Jensenká, vidi la tomba di Fede ad Arcore scaraventata in una fossa comune, vidi i resti meravigliosi di quel che forse era Simona Ventura, vidi una chiazza del mio vomito per terra, vidi il meccanismo regionale delle liste elettorali provinciali e la politicizzazione comunale della Corte costituzionale borgatara, vidi Radiolondra, da tutti i punti, vidi in Radiolondra il fattoquotidiano e nel fattoquotidiano di nuovo Radiolondra e in Radiolondra ilfattoquotidiano, vidi i miei denti sporchi e la mia prostata, vidi i tuoi denti sporchi, e provai acidità e presi un maalox, perché il mio palato aveva pregustato il pasto indigesto e sconnesso, la supposta, il cui nome deridono i coglioni, ma che nessun coglione ha contemplato: l'indistruttibile spazioazzurro.

giovedì 5 agosto 2010

Niente da vedere niente da nascondere

— Cambia il tempo…
— Ti prego, cara Giulia: non essere sempre così didascalica.
Giulia (Dominique Blanchar) e Corrado (James Addams) ne L'avventura (Michelangelo Antonioni, 1960).

— Vieni, cara!
— Eh, sto controllando il soffritto…
— Ma vieni, cazzo! Corri!!
— Ma che c'è?!
— C'è Minzolini! Corri! Minzolini, cazzo, vieni!!! Corri…
— …
— …

Non è la prima volta che mi capita. Sarà almeno un anno che mi porto dietro questa sensazione, senza riuscire a darle un nome.
Ma perché grido così.
La vanità dell'urgenza, quasi dovesse veramente succedere qualcosa, e per salvare una miserabile rotella cipollina si perdesse chissà quale messaggio in codice, l'occhiolinata definitiva, la gestualità massonica dell'unirsi, incrociarsi, aggrovigliarsi di quegli artigli. Appuntarlo, inchiodarlo come una spaventosa farfalla rinchiusa in un quadro-bacheca, badando a non ritrovarsi tra i piedi quell'impiastro di Jerry Lewis.
Quelle dita, soprattutto. Cogliere il maneggio fuggente. Come quell'indimenticabile rotear di polso dell'ascensorista Shirley nell'Appartamento. E quando accade, soprattutto: avere un complice, accanto. Un testimone oculare.
Quindi, il ricadere dell'attenzione, schiacciata dall'evidenza del tutto. La compattezza scomposta di quegli "editoriali" ti vota al fallimento, sempre, lasciandoti con la certezza che il particolare essenziale ti è sfuggito, anche stavolta. Semplicemente perché non c'era.

L'indomani sono in auto, e mi vengono addosso colline, vigneti e olivi, ce n'è uno smisuratamente alto, come certi alberi del nordovest americano, dove non sono mai stato. Un carrello in avanti (quelli laterali sono un'esclusività del solitario di Croisset), e di colpo penso, e aggravando il satori con un'emissione pomposa dico ad alta voce: "Minzolini è un paesaggio".(1)
O un tramonto. Stai lì a guardarlo, ma con i nervi tesi, mai sereno ("sono sereno" era la frase preferita dei politici un attimo prima del tintinnar di manette, questo lo ricordo come fosse ieri). Ci fosse un raggio verde, chi può mai dire? E in quel caso, l'opportunità di brillare, vedendolo per primo in un istante preciso, indimenticabile, collocabile nello spazio della memoria, lasciando un'indelebile incisione nell'immaginario altrui: "Guarda! Hai visto?!". Oppure pensare che la tua ansia insoddisfatta partecipi dell'orizzonte, modificandolo nel delirio solipsistico riservato ai bambini o a certi tedeschi ("C’è un tale in Germania, uno tipo Fritz. O Werner. Ha questa teoria: se vuoi fare un test, tipo perché i pianeti girano attorno al sole, di cosa sono fatte le macchie solari, perché l’acqua esce dal rubinetto, insomma queste cose devi guardarle. Ma quando le guardi, a guardarle le cambi. E a quel punto non sai più cosa è successo, o cosa sarebbe successo se non ci avessi ficcato il naso. Si chiama 'Principio d’indeterminazione'. Sembra un delirio, ma persino Einstein dice che quel tale ci ha preso").
E invece. Niente da vedere niente da nascondere. Minzolini è arte concettuale. Nei dettagli non si nasconde nulla: non è mica Dio. Solo un fatto estetico: l'imminenza di una rivelazione che non si produce. Queste cose devi guardarle. Come un guardiano di polli renitente, che quando scrisse di libri e muraglie si immaginava cieco (era solo una finzione premonitrice).
Allora "the horror… the horror…"? La battuta sarebbe davvero azzeccata, credo, ma solo se a pronunciarla fosse un indolente, annoiatissimo George Sanders. Sogni d'oro, sweet cesspool.


1) E in auto c'è anche una bambina di otto anni. A proteggerla da Avatar, che ha già visto con me, ci pensa Bondi. Ma chi la salverà, se nel futuro dovesse ricordare, suo malgrado, "questo carrello contro natura"?

mercoledì 16 dicembre 2009

Come in uno specchio 4


In un tomo delle sue Lettere edificanti e curiose, pubblicate a Parigi durante la prima metà del secolo XVIII, il padre Zallinger, della Compagnia di Gesù, abbozzò un esame delle illusioni e degli errori del volgo della città di Cantòn; in una lista preliminare, annotò che il Pesce era un essere fuggitivo e risplendente che nessuno aveva mai toccato, ma che molti pretendevano di aver visto nel fondo degli specchi. Il padre Zallinger morì nel 1736, e il lavoro iniziato dalla sua penna rimase inconcluso; centocinquant’anni dopo, Herbert Allen Giles riprese l’opera interrotta.
Secondo Giles la favola del Pesce fa parte di un mito più ampio, che si situa nell’epoca leggendaria dell’Imperatore Giallo.
A quel tempo il mondo degli specchi e il mondo degli uomini non erano, come adesso, incomunicanti. Erano, inoltre, molto diversi: non coincidevano né gli esseri, né i colori, né le forme. I due regni, lo specolare e l’umano, vivevano in pace; per gli specchi si entrava e si usciva. Una notte la gente dello specchio invase la terra. Irruppe con grandi forze, ma dopo sanguinose battaglie, le arti magiche dell’Imperatore Giallo prevalsero. Egli ricacciò gl’invasori, li incarcerò negli specchi, e impose loro il compito di ripetere, come in una specie di sogno, tutti gli atti degli uomini. Li privò di forza e di figura propria, riducendoli a meri riflessi servili. Un giorno, tuttavia, essi si scuoteranno da questo letargo magico.
Il primo a svegliarsi sarà il Pesce. Nel fondo dello specchio scorgeremo una linea sottile, e il colore di questa linea non rassomiglierà a nessun altro. Poi verranno svegliandosi le altre forme. Gradualmente, differiranno da noi; gradualmente, non ci imiteranno. Romperanno le barriere di vetro o di metallo, e questa volta non saranno vinte. Al fianco delle creature degli specchi combatteranno le creature dell’acqua.
Nello Yunnan non si parla del Pesce ma della Tigre dello Specchio. Altri intende che, prima dell’invasione, udremo nel fondo degli specchi il rumore delle armi.
Jorge Luis Borges, Manuale di zoologia fantastica ("Animali degli specchi"), Einaudi, Torino 1962, pp. 19-20.


lunedì 2 marzo 2009

Un risveglio 3

Mi è capitata una cosa curiosa: ho capito che non morirò giovane.
Jack Weil (Robert Redford) in Havana (Sydney Pollack, 1990).

Dieci cose che ho imparato nelle ultime due settimane, dormendo:

1) In alcune ore del giorno, nello Stato di Sonora si registrano le temperature più alte del mondo, forse.
2) Renato Soru ha perso le regionali in Sardegna, le ha vinte un altro, Veltroni ha chiesto scusa a tutti e si è dimesso.
3) Franco La Polla, 1943 — 2009.
4) Nei pici all'aglione c'è molto più aglio e meno peperoncino che nelle penne all'arrabbiata. Il piccì invece si è sciolto il 3 febbraio 1991. Scusa a tutti, aggiungere 'sti pici q.b. e servire in tavola.
5) La cattiva notizia è che Dio non esiste. La buona è che GOD è tornato dal Brasile, forse.
6) Quando era sindaco, Veltroni ha rinchiuso i Rom in un campo che pare un lager e ora si occuperà dell'Africa.
7) A Sanremo qualcuno ha vinto. Non la brutta canzone sui gay, interpretata da un tale.
8) Franceschini è il nuovo leader del PD, Borges sarà letto nei tunnel nel 2045 e l'opposizione batterà Berlusconi nel 2666.
9) Quando s’avvicina la fine, non restano più immagini del ricordo: restano solo parole ecc. ecc.
10) Si facevano i tortellini, a Bologna. Oppure le lasagne. Comunque Pranzo di ferragosto è un bel film.


mercoledì 14 gennaio 2009

lunedì 22 dicembre 2008

E mi piangono le mani



Personalmente odio il Natale, come Kate Beringer in Gremlins. Quindi gli auguri li lascio fare a Gualtiero De Marinis. Ma chiamatelo Gughi, altrimenti si arrabbia, come Jena Plissken in 1997: fuga da New York. Il bisillabo gli permette di ripetere ossessivamente "Gughi non sa. Gughi solo piccola pedina in grande gioco della vita", come Mongo in Mezzogiorno e mezzo di fuoco. Con "Gualtiero" non funzionerebbe.
Mongo non sa, ma come tutti sanno Gughi vive quasi esclusivamente in un bar di via Solferino. Per anni firmò abusivamente una rubrica su "Film TV", intitolata "Vita da cani". Dico abusivamente, perché in realtà a scrivere era il suo ghostwriterondemand personale, ossia il suo cane, Lapis, mentre Gughi guardava la Formula Uno. Gughi non sa scrivere, perché gli si lingua la impasta.
"Vita da cani" si occupava di televisione, e quindi parlava di tutto (fuorché di televisione). Spesso indulgeva in confessioni personali e strappalacrime, come quando raccontò del giorno in cui Lapis abbandonò il suo padrone in un autogrill. Molti anni dopo domandai a Gughi se ne soffrisse ancora. Lui guardò tristemente il bicchiere vuoto di martini, sospirò e rispose: "Tu non chiedi me, io non dice bugie te". Testuale.



Accarezza lo squonk qui sotto se vuoi leggere la cartolina d'auguri di Gughi. Questa temo che l'abbia scritta proprio lui, di nascosto, mentre Lapis leggeva i Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, in tedesco, il che non costituisce un grande exploit per i cani col pedigree, e capendo assolutamente tutto: il che è concesso solo a Lapis e ad Altamante Fruzzetti, l'uomo più intelligente del mondo.

LO SQUONK DICE: "BIMBA, PERCHÉ NON MI CLICCHI?".

giovedì 27 novembre 2008

Le parole e le cose

Sei Shonagon, damigella d’onore della principessa Sadako all’inizio dell’XI secolo, aveva la mania delle liste: lista delle “cose eleganti”, delle “cose desolanti”, o ancora delle “cose che non vale la pena fare”. Un giorno ebbe l’idea di scrivere la lista delle “cose che fanno battere il cuore”.
Voce narrante in Bez solntsa — Sunless — Sans soleil (Chris Marker, 1983).

Una volta, alla metà del XIX secolo, tutte le cose più preziose al mondo venivano raccolte nel Palazzo di Cristallo a Londra: il radiotelegrafo di Siemens, i coltelli di Solingen, le stufe di ferro britanniche, divani con portacatino in cartone, cannoni Krupp (allora non in commercio). Questi erano gli antenati di tutti i prodotti moderni. Nel 1937 l’edificio andò distrutto dalle fiamme, esattamente quattro anni dopo l’incendio del Reichstag. Da allora le cose non hanno più un parlamento.
Il narratore ne La forza dei sentimenti (Alexander Kluge, 1983).

… notoriamente, non c’è classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale. La ragione è molto semplice: non sappiamo che cosa è l’universo. "Il mondo" scrive David Hume, "è forse l'abbozzo rudimentale di un dio infantile che lo abbandonò a metà dell'opera, vergognandosi della sua esecuzione deficiente; è fattura di un dio subalterno, del quale gli dèi superiori si burlano; è la confusa produzione di una divinità decrepita, tenuta in disparte, che è già morta" (Dialogues Concerning Natural Religion, V, 1779). Si può andare più lontano; si può sospettare che non vi sia universo nel senso organico, unificatore, che ha questa ambiziosa parola. Se c'è, bisogna immaginare il suo fine; bisogna immaginare la parole, le definizioni, le etimologie, le sinonimie, del segreto dizionario di Dio.
Jorge Luis Borges, "L'idioma analitico di John Wilkins", in Altre inquisizioni (1952), trad. it. di Francesco Tentori Montalto.

lunedì 3 novembre 2008

Il naso di Obama

“Il film Zombi 2 di Lucio Fulci è un’ucronia in via di costituzione” scriveva Jean-Patrick Manchette. E subito aggiungeva, nel caso qualcuno non capisse: “È vietato ai minori; saggia decisione; un’ucronia in via di costituzione non è uno spettacolo per bambini.” Di Lucio Fulci ci occuperemo un’altra volta. Oggi parliamo di ucronie, quindi è meglio allontanare i bambini.
Ucronia è un concetto inventato nel 1876 dal filosofo Renouvier, sul modello di utopia: dal greco chronos, preceduto dal privativo ou. Letteralmente: non-tempo. Pertiene alla narrativa, ma dato che le sue origini sono filosofiche, è racconto filosofico, e la sua sede naturale è la letteratura fantastica. Consiste nel modificare un punto del passato e nell’osservare la conseguente catena di effetti. Più che un’universo parallelo, è una biforcazione che crea due realtà dove prima ce n’era una sola, e le guarda divaricarsi inesorabilmente. Affinché l’ucronia risulti interessante, essa tende a escludere quesiti del tipo: “e se ieri invece del tiramisù avessimo mangiato una panna cotta?”, perché i cambiamenti nello spazio-tempo sarebbero infimi, per non dire nulli: in ambedue i casi, oggi siamo più grassi. Fa eccezione il doppio film di Alain Resnais, Smoking/No Smoking, dove si fantasticano destini diversi a seconda che la protagonista scelga o meno di fumare una sigaretta, generando una serie di ipotesi narrative che però si concludono sistematicamente con una scena al cimitero.


Il terreno privilegiato dell’esperimento ucronico è la Storia. In tal senso, una delle sue illustrazioni più emblematiche è il pensiero sottilmente derisorio di Pascal: “Il naso di Cleopatra: fosse stato più corto, e l’intera faccia della terra sarebbe cambiata”. Sul concetto di ucronia esistono pochi testi. Uno di essi è il breve saggio Le détroit de Behring — Introduction à l’uchronie (Parigi 1986), del futuro romanziere Emmanuel Carrère. Qualche anno dopo scrisse uno dei suoi libri migliori, dal bel titolo Io sono vivo e voi siete morti. Philip K. Dick 1928-1982 (tradotto in Italia da Theoria). Non è un caso: Dick è l’autore di una delle ucronie più compiute e conturbanti. Nel libro L'uomo nell'alto castello (1962; da noi edito da Fanucci e precedentemente intitolato La svastica sul sole), immagina che nel 1947 l’Asse abbia vinto la guerra. L’America se la spartiscono tedeschi e giapponesi. Il punto oscuro di biforcazione sembra essere l’assassinio di Roosevelt, avvenuto a Miami nel 1933 (mentre Philip Roth, nel recente Il complotto contro l’America, immagina un incubo analogo, con l’aviatore antisemita e filonazista Lindbergh eletto presidente al posto di Roosevelt il 5 novembre 1940). Dico sembra perché lo stile, quindi la storia, è quello farraginoso, confuso, depresso e a tratti genialoide di Dick. Egli non mostra di interessarsi più di tanto alla sorprendente trovata: i suoi personaggi vi sono immersi come noi siamo impantanati nella realtà che ci è stata assegnata, non sono filosofi e le loro sono preoccupazioni psicologiche (dilemmi tiramisù/panna cotta, per intenderci).
Ma a un certo punto, Dick ha uno dei suoi lampi di genio. Uno scrittore è ricercato dalla polizia. La sua eresia: un libro dove si ipotizza che gli Americani abbiano vinto la guerra. Un’ucronia intitolata La cavalletta non si alzerà più. E qui tieniti forte: la favola narrata è certo molto più simile alla nostra realtà, ma con qualche variazione notevole (si accenna persino a un conflitto anglo-americano). Intanto, le peripezie dei personaggi proseguono desolanti; ma a un paio di essi è riservata un’esperienza singolare: camminando per strada, la realtà sensibile si sgretola, collassa, e nelle vie di San Francisco circolano automobili assai simili a quelle del 1962 “reale”, la gente passeggia spensierata, non si vedono né musi gialli né svastiche. Ma è un attimo di incomprensibile smarrimento, poi tutto rientra nella norma. Alla fine del libro un breve scambio di battute suggerisce che quanto racconta La cavalletta sia la verità, ma senza dire cosa si intenda per verità e come tale intuizione possa modificare il destino (non può, suppongo). Dick non amava le risposte semplici, chi è in cerca di spettacoli per bambini è libero di preferire Matrix.
Nella narrazione audiovisiva, infatti, la migliore trasposizione dell’immaginario dickiano non è un film, ma la serie televisiva West Wing. Descrive un mestiere, nella quotidianità dei suoi retroscena, delle sue regole, con l’inevitabile pizzico di vita privata e sentimentale (il tiramisù). Il mestiere è quello di Jed Bartlet, detto Potus, acronimo per “President of the United States”. La qualità è nella media dei serial degli ultimi vent'anni, ossia ottima: confezione impeccabile, dialoghi scoppiettanti, lunghi piani sequenza che inseguono gli indaffaratissimi membri dello staff presidenziale, interpretati da attori di prim’ordine. Bartlet è Martin Sheen (il capitano Willard di Apocalypse Now). Gli spettatori USA lo videro prendere le funzioni nel 1999. Clinton era uscito illeso dal Monicagate, le elezioni erano per l’anno seguente e Aaron Sorkin, autore della serie, puntò su una vittoria di Al Gore. Bartlet sarebbe stato un democratico sfegatato, un liberal. Alcuni diranno che non era una scommessa irragionevole e che se le cose andarono in modo diverso fu a causa di una truffa avvenuta a Miami, dove nel 1933 era stato ucciso Roosevelt. Può darsi, ma quel che è certo è che nel 2000 andarono in modo diverso. George W. Bush divenne presidente, mentre Bartlet proseguì il suo mandato e quattro anni dopo venne addirittura rieletto: un leader coltissimo, in lotta contro la lobby delle armi, favorevole all’estensione delle libertà individuali, uno che ci pensa due volte prima di invadere militarmente e senza validi motivi uno stato sovrano, ancorché canaglia. West Wing divenne un’ucronia, suo malgrado. A tratti inquietante: non so se si tratti di cattiva ricezione, ma spesso, guardando Bartlet e i suoi discutere nell’ufficio ovale, ho avuto per un attimo la sensazione che l’immagine subisse una lievissima distorsione, come una liquefazione, un tracollo. Chissà.


Nel 2004 Martin Sheen fece dichiaratamente campagna per John Kerry, che pare non perdesse un episodio di West Wing. E stavolta le cose andarono come dovevano andare, perché Kerry non capì che è impossibile modificare il passato e dimenticò di presentarsi come uomo di una vera alternanza. Oltre a Bartlet, avrebbe dovuto ascoltare le parole di un massimo esperto in biforcazioni temporali: “Negare la successione temporale, negare l’io, negare l’universo astronomico, sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Il nostro destino non è spaventoso perché irreale; è spaventoso perché è irreversibile e di ferro. Il tempo è la sostanza di cui son fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges”.
Ma allora, mi chiederai, a cosa servono queste ucronie? A niente. Se non che l’altro giorno mi son trovato davanti a “Porta a Porta”, che è un talk-show condotto dal giornalista Bruno Vespa. Lo trasmettono in tarda serata; suppongo non sia spettacolo per bambini. Parlava l’onorevole Renato Schifani. Sarà perché ero stanco, ma per un istante mi è sembrato che l’immagine stesse sfarinandosi, come di realtà che collassa. È durato un nulla, ripeto, un bruscolino di tempo, ma ho spento il televisore e sono andato a dormire contento.

P.S.: Questo testo è ucronico: scritto in un punto imprecisato del passato, non ha modificato in alcun modo l'avvenire. Ora pare che Renato Schifani non sia più onorevole. Pare che sia diventato Presidente del Senato. Sì, bum! Addirittura. Mica mi lascio gabbare così facilmente. Lo so che il presente ha degli standard minimi di verosimiglianza, altrimenti collassa.
Lo so.

domenica 7 settembre 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

V — TUTTE UGUALI?

Dato che mi piace l’etimologia, vorrei ricordare — è un fatto poco noto — che in inglese abbiamo black, che significa nero, e in spagnolo blanco — bianco. Così come blanc in francese, branco in portoghese, bianco in italiano. E tutte queste parole hanno la medesima radice, perché credo che la parola originale, sassone, abbia dato origine a due parole inglesi: black (nero) e bleak (che ha perso il suo colore). Si dice per esempio in a bleak mood, quando uno si sente non scolorito ma disamorato, malinconico. Se le parole black e blanco sono legate, è perché in origine black non significava nero, bensì assenza di colore. Così, nell’inglese, avvenne che l’assenza di colore portò la parola black verso il campo dell’ombra, del nero. Mentre, nelle lingue romanze, la stessa parola è stata proiettata verso la luce, verso il chiarore, generando i termini italiani, francesi, portoghesi. È strano: questa parola si ramifica e assume due significati contrari. Siamo soliti opporre il bianco al nero eppure la loro radice significa “senza colore”.
Jorge Luis Borges intervistato da Osvaldo Ferrari, En diálogo / I (Edición definitiva), Siglo XXI, Mexico D.F. 2005, p. 51.

Come riflesso dallo specchio delle tue brame, riparte L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™. Oggi la soluzione sarà ricompensata con due corone d’oro. Poi, mercoledì, se nessuno avrà trovato, aggiungerò un secondo indizio (il primo si nasconde nel sottotitolo del post). [Ci siamo: è il pistolotto borgesiano.] Solo che da quel momento otterrai solo una corona e mezza. Con mezza corona puoi sempre farci un diadema, se la cosa ti consola. [Aggiornamento: dato che grazie alla splendida festa del Cern questo gioco potrebbe davvero essere l'ultimo, ho deciso di lasciare immutato il valore della posta in gioco]
WARNING: se tua moglie e/o tuo marito sono nei paraggi, è meglio che ascolti il sonoro con le cuffie. Altrimenti scoprono che fai le zozzerie in rete e allora “Vedo disastri. Vedo catastrofi. Peggio: vedo avvocati!” come diceva Cassandra ne La dea dell’amore.
P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso l’avv. Siracusa e possono essere consultate qui. E dimenticati che il gioco si svolge anche altrove.



ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA MERCOLEDÌ 10 SETTEMBRE ALLE 17.26.
LA VINCITRICE È LA FANTOMATICA BIANCA, CHE AGGIUDICANDOSI DUE CORONE SI RITROVA SUBITO SECONDA, ASSIEME AD ANDREA. LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA QUATTORDICI SETTEMBRE E PERMETTERÀ AL VINCITORE DI AGGIUDICARSI TRE VENTINI D'ANNATA. SE NESSUNO TROVERÀ LA SOLUZIONE PRIMA, MERCOLEDÌ INSERIRÒ UN INDIZIO MA ALLORA MI RIPRENDERÒ UN VENTINO: STAVOLTA SARÒ INFLESSIBILE, COME LA FRECCIA DEL TEMPO.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
arcomanno: 3 corone.
andrea: 2 corone.
bianca: 2 corone.
adlimina: 1 corona.

giovedì 26 giugno 2008

Saldi d'estate: Leggiti un Aleph e guardane tre!

Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo viste nell’andito di una casa di calle Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi ad Inverness una donna che non dimenticherò, vidi la violenta chioma, l’altero corpo, vidi un tumore nel petto, vidi un cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero, vidi in una casa di Adrogué un esemplare della prima versione inglese di Plinio, quella di Philemon Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo meravigliarmi che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un tramonto a Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala, vidi la mia stanza da letto vuota, vidi in un gabinetto di Alkmaar un globo terracqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine, vidi cavalli dalla criniera al vento, su una spiaggia del mar Caspio all’alba, vidi la delicata ossatura d’una mano, vidi i sopravvissuti a una battaglia in atto di mandare cartoline, vidi in una vetrina di Mirzapur un mazzo di carte spagnolo, vidi le ombre oblique di alcune felci sul pavimento di una serra, vidi tigri, stantuffi, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi in un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise, che Beatriz aveva dirette a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo, vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo.

Jorge Luis Borges, L’Aleph.