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domenica 17 marzo 2024

sabato 21 settembre 2019

Tarantino/Kubrick (note sparse su "C'era una volta a… Hollywood")

Visto Once Upon a Time in… Hollywood di Quentin Tarantino, prima reazione a caldo.
Mi viene in mente il paragone con l'altro "grosso grasso capolavorone" dell'estate, Parasite di Joon-ho Bong. Passata la sorpresa spiazzante di Memories of Murder e The Host, in cui i cambiamenti continui di tono e i tempi imprevedibili del racconto potevano sembrare felicissimi e geniali tentennamenti, appare chiaro oggi che si trattava di controllo sovrano, che si dispiega in Parasite per il nostro piacere sempre rinnovato, in cui le contraddizioni del "film di famiglia svitatella" da L'eterna illusione di Frank Capra a Non aprite quella porta di Tobe Hooper passando per i Passaguai o per tanti film con Totò e magari il fu Delle Piane figlio, si susseguono autoannullandosi e sempre squisitamente leggibili da tutti, assieme a organizzazioni dello spazio degne di tesi di dottorato tardive di un Rohmer e alla loro corrispondenza politica, come nel "cinema di metafora" anni 70, il tutto imprevedibile, controllatissimo, "moderno", in una parola: perfetto.
Il film di Tarantino non è perfetto, come non è perfetta la sua opera. Siccome in Italia esce solo domani, la scusa nobile del "no spoiler" mi esime dal precisare in che modo non è perfetto, ma noto che anche in questo caso colpisce la struttura infantile o per meglio dire primitiva "a blocchi", direttamente ereditata da Kubrick, regista di cui si tramanda un'errata idea di "perfezione" quando in realtà era un giocatore d'azzardo. Ancora una volta, Tarantino gioca d'azzardo, alla roulette punta su un numero singolo, mentre Bong (volendo proseguire il paragone del tutto privato, me ne rendo conto) punta sul rosso (in Corea) e sul nero (nel mondo) al contempo e a rischio zero. Bong vince due volte, forse un po' barando; Kubrick e Tarantino fanno cinema.


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Alla fine di 2001: Odissea nello spazio Dave Bowman (Keir Dullea) accede a una nuova dimensione della propria esistenza entrando in un luminosissimo appartamento che entità aliene hanno creato a immagine e somiglianza del suo inquilino, un appartamento che aspettava solo la sua inevitabile presenza.
Alla fine di C'era una volta a… Hollywood Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) accede a una nuova dimensione della propria non-esistenza entrando nel buio di una "mansion" popolata da esseri viventi per pura finzione, una mansion che non si è mai aspettata e mai si aspetterà l'impossibile presenza di Rick Dalton.



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[Su facebook mi si fa notare "la scena del ranch dove le ragazze sembrano gli uccelli (bird in slang è proprio la pollastrella) di Hitchcock"]

Agli Uccelli ho pensato anche in altri momenti del film, l'apparizione puntuale delle ragazze, le scene con Sharon Tate, sono anche promesse fatte da Tarantino allo spettatore, "Sì sì, tranquilli, lo so che siete venuti per questo": proprio come in Hitchcock per la prima metà del film. E proprio all'inizio della nottata finale in televisione un annunciatore: "E ora il momento che stavate tutti aspettando!". Nella scena del ranch c'è anche molto dell'horror anni Settanta, i primi Craven, Tobe Hooper, Romero, Carpenter. Tutto un cinema che comunque proprio agli Uccelli deve molto, in particolare La notte dei morti viventi (si dice che un giovanissimo Romero portasse i caffè sul set di Hitchcock). In generale mi pare che Di Caprio copra il cinema di fine Cinquanta, Sessanta, e che nella sequenza "western-amletica" prefiguri la recitazione che verrà nell'immediato futuro, quella di un Al Pacino chiamato ad attestarne la realtà e al contempo a nasconderla in due scene interpretate a contropelo, quasi sottotono. Brad Pitt invece sembra portarsi appresso, del tutto ignaro, un cinema ancora più lontano nell'avvenire, più brutale, appunto quello dell'horror di qualche anno più avanti: ma non dimentichiamo che La notte di Romero era comunque uscita un anno prima e che Gli uccelli sono del 1963.

sabato 15 giugno 2019

Us (Jordan Peele, 2019)

Il primo film di Peele, Get Out, elogiatissimo, era sorprendentemente mediocre, ma del resto se ci si diverte con Black Mirror non mi sorprendo più di nulla. Il suo secondo, essendo meno lodato, speravo fosse più interessante.
Ci ho azzeccato, il film è migliore del precedente, anche se forse oltre al frullare marpionescamente vari materiali non c'è molto altro. Ma rispetto a Get Out, Us ha sicuramente qualche punto in più. L'attesa metafora razziale che invece si rivela esclusivamente sociale non è un brutto spiazzamento, anche se rimane metafora pesantissima e di quello spiazzamento non viene combinato nulla. Nel primo la componente "politica" e le pretese di satira uccidevano tutto, qui si nota un certo gusto (post tutto, ma ormai è la norma) per il genere in sé, una progressione decente, anche se alla fine lo scherzo va per le lunghe. L'ho guardato insomma con indulgenza, chiedendomi spesso dove volesse andare a parare al di là del compitino ben fatto e non trovando risposte soddisfacenti.
La butto lì: di fatto siamo forse di fronte a un paradosso storico. Il cinema americano, principale produttore in termini quantitativi di film horror e similia, e noto per il suo andare "al sodo" rispetto ad altre cinematografie, europee e non solo ("se vuoi mandare un messaggio usa la posta" ecc. ecc.) si trova di fronte a due modelli del genere, Dawn of the Dead e The Shining, che ha visto sempre e solo nell'edizione in cui le componenti politica, sociale, satirica o anche semplicemente confusionaria o arraffatutto erano prevalenti rispetto ai montaggi europei di Argento o dello stesso Kubrick, in cui tutto veniva ricondotto alle esigenze (in teoria pur "americane", qui il paradosso) della spettacolarità immediata, come direzione e senso principali ma senza sminuire – anzi! – gli aspetti di cui sopra, che essendo sfoltiti colpiscono più direttamente, alleggeriti da inutili mediazioni volontaristiche. I Jordan Peele, ma anche il tizio di It Follows, e tanti altri, hanno visto i film giusti, ma nel montaggio sbagliato.

domenica 1 novembre 2009

Morti politicamente scontate, irrevocabilmente corrette

Di una cosa sono certo: del comportamento assolutamente corretto da parte dei carabinieri in quest'occasione.
Ignazio La Russa, ministro della Difesa della Repubblica italiana.

Lo sento dire queste parole l'altro ieri sera, al Tg1. E subito mi indigno: ma come si permette di giudicare prima ancora che siano concluse le indagini? La reazione, mi rendo conto (sì, lo so: mo' vieni) solo l'indomani mattina, è scontata ma irrazionale. Uno passa il tempo a blaterare di ucronie e a coltivare giardinetti biforcuti solo per farsi fregare dalla prima successione temporale, confidando nella sua natura crono-logica. Quella dichiarazione non viene dopo la morte di Cucchi, ma prima. Non è una conseguenza dell'omicidio, ma la sua vera causa.

Anni fa io quell'uomo lo incrociai per strada. Giolitti, lo storico gelataio di via degli Uffici di Vicario dove mio padre aveva pianta stabile (e prezzi di favore, sospetto), si trova a dieci metri da Montecitorio. Camminiamo, e a un certo punto ecco che mi trovo davanti Ignazio La Russa, come sempre ilare. Lo guardo negli occhi e istintivamente cambio marciapiede. Non per dichiarare la mia velleitaria opposizione, ma perché ho paura che mi picchi: quell'uomo la violenza ce l'ha stampata in volto.
(En passant, questo sembra essere un marchio lombrosiano di moltissimi ex-AN. Anche se i lombrosiani non mi sono mai piaciuti. L'ho rivisto nella faccia di Giorgia Meloni, in un video in cui il ministro della Gioventù della Repubblica italiana [non] risponde alle domande di una giornalista australiana.)

Prevedo che l'uomo si rassegnerà a imprese ogni giorno più atroci; presto non vi saranno più che guerrieri e banditi; dò loro questo consiglio: l'esecutore di un'impresa atroce immagini d'averla già compiuta, s'imponga un futuro che sia irrevocabile come il passato.
Jorge Luis Borges, Finzioni ("Il giardino dei sentieri che si biforcano"), Einaudi, Torino 1955, p. 82.


lunedì 1 dicembre 2008

Stanley Kubrick for dummies

Stanley Kubrick e il fotografo Weegee.

II

1962-1999

LOLITA, 1962
Humbert Humbert perde la testa per Lolita, che porta occhiali a forma di cuoricino e succhia ancora i leccalecca. Ma lo perseguita Quilty, sempre pronto a guastargli la festa e ad assillarlo con allusioni oscene. Forse non esiste, forse è un fantasma dell’Overlook Hotel, o un monolito pecoreccio. Forse è solo la voce della coscienza, grottesco senso di colpa (Quilty/Guilty). Nel libro di Nabokov Kubrick intravede quello che, assieme all’Odissea, è il suo mito primordiale: Pinocchio.

DOTTOR STRANAMORE, OVVERO COME IMPARAI A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA (DR. STRANGELOVE OR: HOW I LEARNED TO STOP WORRYING AND LOVE THE BOMB, 1964)
Doveva essere un film serio: follie individuali, errori nel sistema di comunicazione e dispositivi segreti di reazione “preventiva” rendono possibile l’annientamento termonucleare dell’umanità. Ma nella strada che porta alla morte, troppa Vodka, troppa Coca-Cola, troppi missili fallici, troppi fluidi vitali repressi. E troppi, troppi Peter Sellers. Kubrick ce la mette tutta per ritardare l’esplosione, ma alla fine scoppia a ridere (e pare che nel film lo si possa sentire). L’atto di nascita del cinema demenziale.

2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (2001: A SPACE ODYSSEY, 1968)
Furiosamente ateo, Kubrick fissa su pellicola un’immagine di Dio in grado di soddisfarlo: un parallelepipedo regolare, senza asperità, opaco e perfetto. È un buco nero, e chi lo attraversa compie “the ultimate trip”, come promettevano le locandine dell’epoca (con doppi e tripli sensi). Come capita spesso alle anticipazioni, il tempo ha trasformato 2001 in ucronia. Ma stavolta le previsioni erano rigorosamente esatte; siamo noi a vivere in un presente sbagliato. Cambiamolo.

ARANCIA MECCANICA (A CLOCKWORK ORANGE, 1971)
Tanto il futuro di 2001 assumeva le sembianze di una tecnologia asettica proiettata nel cosmo, tanto l’avvenire piccolo borghese dell’Inghilterra di Alex DeLarge promette solo fatiscenti periferie metropolitane, ascensori rotti, graffiti osceni, barbarie e ultraviolenza. La scimmia preistorica, divenuta feto astrale alla fine di 2001, non sfocia nel superuomo, ma regredisce fino a ritrovare le proprie origini, neonato bestiale “senza legge” (A-lex).


BARRY LYNDON, 1975
Modificando l’obiettivo Zeiss, Kubrick trasforma la cinepresa in macchina del tempo. Si ritrova nell’Inghilterra del Settecento, pochi anni prima della Rivoluzione francese. Sembra un documentario “impossibile”, ma le focali sensibilissime obbligano le persone all’atarassia delle belle statuine. Poco male: tanto non hanno nulla da dire. Finché uno di loro lascia cadere il braccio lungo il corpo, e invece di uccidere il nemico, spara per terra. Ed esce dal quadro.

SHINING (THE SHINING, 1980)
Jack Nicholson, Shelley Duvall e il figlio scelgono di passare l’inverno all’Overlook Hotel, costruito su un cimitero indiano. Pessima idea. Il figlio pedala solo soletto sul suo triciclo, e a furia di girare in tondo confonde ieri, oggi e domani. L’albergo è infestato di fantasmi dei roaring Twenties; la famiglia americana, già dissestata di suo, se la divorano a mezzanotte, obbligando padre e figlio a un remake gore di Bip-bip e il coyote. Ma a ridere resta solo Jack: in una fotografia scattata al ballo della festa dell’Indipendenza, il 4 luglio 1921.

FULL METAL JACKET (1987)
Dallo smoking dei fantasmi all'uniforme dei marines, dai cessi rossi dell'Overlook Hotel alle latrine blu di Parris Island: un world full of shit, letteralmente, in cui i soldati del sergente Hartman sono immersi come fosse l'unico dei mondi possibile, grazie a un eraserhead (film amatissimo dal regista) e reset cerebrale. Poi tutti a perdersi nel labirinto di Hue, senza sapere di essere a Londra. Un film ossessionato dall'assenza di donne, con una prima parte dedicata al fucile da battezzare con nomi femminili e una seconda che si chiude sul volto di una vietcong morente. Al centro, un culo di prostituta che si allontana ancheggiando. Un film tagliato in due: non come un'arancia; piuttosto come due natiche.

EYES WIDE SHUT (1999)
Un progetto perseguito per più di trent'anni, realizzato fino all'ultimo respiro di un montaggio a mio avviso non definitivo. Un uomo qualsiasi, come qualsiasi erano Dave Bowman o Jack Torrance, scopre attraverso il moltiplicarsi dei fenomeni sessuali che altro controlla, determina e dirige la sua esistenza. E che questo altro, questa "stoffa di cui son fatti i sogni” non è che il Tempo, qui incarnato nel perdurare eterno del desiderio fisico. Sì, la parola "forever" che le gemelle macellate sussurravano al piccolo Danny è terrificante, come nota Nicole Kidman. Meglio scopare.

giovedì 24 luglio 2008

No por mucho madrugar amanece más temprano

"Cos'hai fatto in questi giorni? gli chiesi. Niente, disse, pensare, vedere dei film. Che film hai visto? Shining, disse lui. Che orrore di film, dissi, lo vidi anni fa e poi non riuscii a dormire. Anch'io lo vidi molti anni fa, disse Arturo, e passai una notte in bianco. È un film stupendo, dissi. È molto bello, disse lui. Rimanemmo in silenzio per un po', guardando il mare. Non c'era la luna e le luci della barca da pesca non si vedevano più. Ti ricordi del romanzo che scriveva Torrance? disse all'improvviso Arturo. Torrance chi? dissi io. Il cattivo del film, quello di Shining, Jack Nicholson. Sì, quel bastardo stava scrivendo un romanzo, dissi, anche se per la verità me ne ricordavo appena. Più di cinquecento pagine, disse Arturo, e sputò verso la spiaggia. Non l'avevo mai visto sputare. Scusa, ho lo stomaco sottosopra, disse. Sta' tranquillo, dissi io. Aveva scritto più di cinquecento pagine ripetendo un'unica frase all'infinito, in tutti i modi possibili, a lettere maiuscole, a lettere minuscole, su due colonne, sottolineata, sempre la stessa frase, nient'altro. E che frase era? Non te la ricordi? No, non me la ricordo, ho una memoria da schifo, mi ricordo solo dell'accetta e che il bambino e sua madre alla fine del film si salvano. Il mattino ha l'oro in bocca, disse Arturo. Era pazzo, dissi e in quel momento smisi di guardare il mare e cercai la faccia di Arturo, accanto a me, e sembrava come sul punto di crollare. Magari era un bel romanzo, disse. Mi fai venire i brividi, dissi io, come può essere bello un romanzo dove si ripete una sola frase? È una mancanza di rispetto per il lettore, la vita è già abbastanza merdosa di per sé, senza che per di più ti tocchi di comprare un libro dove c'è scritto solo 'il mattino ha l'oro in bocca', è come se io servissi tè al posto del whisky, è un imbroglio e una mancanza di rispetto, non credi? Il tuo buon senso mi spaventa, Teresa, disse lui."

Roberto Bolaño, I detective selvaggi, traduzione di Maria Nicola, Sellerio Editore, Palermo 2003, pp. 727-728.



lunedì 12 maggio 2008

Bicchieri

Il giorno in cui l'uomo di cui vorrei dimenticare il nome (come diceva sempre Borges a proposito di Perón) presenta la lista dei suoi ministri al Presidente della Repubblica, un illustre editorialista di un prestigioso quotidiano conclude così il suo commento: "Quando si comincia un’opera complicata è d’obbligo e non solo cortese guardare il bicchiere dalla parte dove è pieno". Secondo me il bicchiere è completamente vuoto perché gli italiani se lo sono bevuto tutto e dentro c'era il loro cervello (e magari il midollo se lo sono tracannato "alla spina"), ma il punto non è questo. Il punto è che "guardare il bicchiere dalla parte dove è pieno" mi sembra alquanto incomprensibile per chi il cervello non se l'è ancora bevuto tutto. Scusa, rileggi e pensa: "guardare il bicchiere dalla parte dove è pieno". Il bicchiere, la parte...: ma che è? Bisogna mettersi di profilo? Il bicchiere è pieno se lo vedi da sinistra, ma se ti sposti a destra è vuoto? Ma che razza di bicchieri hanno gli illustri editorialisti di prestigiosi quotidiani? "Guardare il bicchiere dalla parte dove è pieno"... Dove è pieno che? Il bicchiere? Ma per godere di sì bella vista si deve spostare l'osservatore o il bicchiere? E se è il bicchiere, in che senso va spostato? E spostandolo, non c'è il rischio di rovesciarne il contenuto dalla parte dove è pieno per poi ritrovarsi con due o più parti del bicchiere che allora comunque lo guardi, ti giri e te lo rigiri da tutte le parti, apparirà sempre vuoto sopra e sotto le parti del suddetto bicchiere? E poi pieno di che? Più ci penso, a 'sta storia del bicchiere con le parti piene e quelle vuote e quelle che chissà, più mi sembra di vedere un bicchiere alla Escher, tipo ipercubo o tesseratto. Un iperbicchiere, un bicchieratto anche un po' bischero, un metabicchierino birichino, con tante, infinite parti, in alcune dimensioni della realtà piene, in altre vuote, parti di un tutto, a parte tutto, o di un tutto, almeno, in parte...




P.S.: La poesia letta dalla bambina dotata di inutili poteri telecinetici nella scena finale di Stalker credo sia stata scritta da Arseni Tarkovskij, padre del regista:

Amo gli occhi tuoi, amica mia,

il loro gioco splendido di fiamme

quando li alzi all’improvviso

e come un fulmine celeste

guardi veloce tutto intorno.


Ma c’è un fascino più forte.

Gli occhi tuoi rivolti in basso

negli attimi di un bacio appassionato

e fra le ciglia semichiuse,

del desiderio il cupo e fosco fuoco.


(Nei sottotitoli francesi del film, il primo verso è: "Amo gli occhi tuoi, amico mio" e a questo punto non garantisco più nulla, io non parlo il russo, scusami pardòn.)

AGGIORNAMENTO (22 marzo 2009): Da una dacia d'orrore in una taiga di noia giunge voce che la poesia sia di Fëdor Ivanovič Tjutčev. Insomma, c'è chi popola uno spazio di immagini, di province, di reami eccetera eccetera. A me tocca accontentarmi di errori, svarioni e refusi. Basta non guardare specchi e bicchieri e siamo a cavallo, come diceva Calamity Jane.

lunedì 5 maggio 2008

Ma allora mi ami... ma quanto mi ami? E mi pensi... ma quanto mi pensi?




Un altro shining di Wendy Torrance. Un'altra visione un po' pompier, e non a caso si trova solo nell’edizione americana del film, che dura una buona ventina di minuti in più (fu Kubrick stesso ad accorciare il montaggio per l’Europa). La sequenza (6 secondi in tutto) si colloca subito dopo l’incontro tra Wendy e me: “splendida festa, vero?”. E infatti lei entra nella Gold Room dell’albergo, dove impazza una splendida festa di morti: ma stavolta il fiammeggiante salone è avvolto in un alone bluastro, livido; e i fantasmi in carne e ossa che avevano accolto Jack ora sono solo in ossa, scheletri agghindati e in posa come le mummie di Palermo. Tre inquadrature, tre danses macabres più rigide che fisse: la mia preferita è la seconda, dove sullo sfondo campeggiano due cadaveri rinchiusi nelle loro cabine telefoniche, come casse da morto. Ironia sottile, ché se ben ricordate il sistema di comunicazioni dell’Overlook Hotel è a dir poco difettoso. Quindi, un’eternità trascorsa su un’infinita linea telefonica isolata, col rischio, magari, di capitare su avvilenti messaggi dal futuro, registrati da un pazzo pelato: “Non so se ci siete o no. Forse pulite solo i tappeti. Se è così, vivrete una lunga vita. Ma se siete voi scienziati, dimenticate l’esercito delle 12 scimmie...”. Ma cos’è, mi prendi in giro? Ma quali scimmie? Quelle che lanciano ossa di tapiri nello spazio? Ma che fai, alludi? Guarda che se ti pesco mi strappo una costola e te la tiro in fronte! Insomma, roba da farti girare i coglioni, se non si fossero già decomposti da un secolo. Almeno Dave Bowman poteva bersi un bicchiere di rosso, di tanto in tanto, mentre a questi due poveri disgraziati la bottiglia di champagne sarà negata per sempre, per sempre, per sempre... È lì fuori, a portata di mano, sul tavolino; ma loro sono bloccati nella cabina, e comunque la bottiglia è vuota dal 1921. Già, 1921, odissea nel centralino: chissà se a quei tempi c’era già “La preghiamo di attendere, un operatore le risponderà appena possibile”.

Segue “dettaglio”, come nei libri d’arte dei Fratelli Fabbri.


giovedì 3 aprile 2008

Un pompelmo e un panino*

pompino.jpg

Uno shining di Wendy Torrance. La visione è un triplo inganno, un monolito erotico (un pornolito, calemboureggerebbe forse un D.I.O. burlone).
1) Ambiguità sessuale: non è dato sapere se sotto la maschera ci sia un uomo o una donna (a meno che, ed è lecito, non si consideri l’orrenda tautologia: una persona mascherata da bestia è una bestia).
2) Fellatio impossibile: la maschera non offre aperture sufficienti per infilare quella cosaccia in bocca. È un atto sessuale rappresentato, non effettivo, come in una rapida immagine dell’orgia in Eyes Wide Shut, dove sarà il cunnilingus a essere scimmiottato (se si escludono lingue chilometriche alla Mick Jagger) da un uomo in maschera. Ma rappresentato per quali “eyes”, allora?
3) Zoofilia fantastica: quando solleva la bocca dal fiero pasto, questo mostruoso incrocio tra Winnie the Pooh e il conte Ugolino, tutto affaccendato a ripetere in eterno un atto orale simulato (la vita dei fantasmi è una noia immortale) si volta verso di noi, e quel che vediamo è un animale chimerico, metà cinghiale, metà orso.

*Ovvero, per i francofoni, “Ceci n’est pas une pipe”.