martedì 26 agosto 2014

It's not personal. It's strictly business

Copincollo qui rielaborandole appena alcune mie riflessioni circa il video di James Foley, scritte a caldo nelle ore che sono seguite alla sua diffusione (tranne l'ultimo punto preceduto da asterischi, di oggi) in una conversazione a più voci che si può leggere interamente qui. Ho rivisto il video varie volte e ho cambiato idea varie volte, fino al punto in cui naturalmente non si hanno più idee. Prendi questo post come una sorta di storify.
Una sola considerazione preliminare: nei minuti successivi alla notizia si è immediatamente attivata in rete la gara allo statement "io non lo guarderò". Un amico retwittava alcune di queste dichiarazioni di fede nolente. Gli scrissi per due volte consecutive, con un'insistenza singolare per le nostre modalità di scambio, dicendogli che il video, stavolta, ci toccava vederlo. Capivo e condividevo la sua rabbia, ma sentivo anche che qualcosa non andava. L'indomani hanno iniziato a manifestare il medesimo atteggiamento giornalisti e opinionisti della comunicazione mainstream. Poi sono arrivati gli editoriali. L'informazione italiana, insomma, ci teneva a comunicare a tutti che non avrebbe studiato la fonte, non avrebbe visto il video (alcuni si son spinti iperbolicamente ad affermare che rifiutavano persino di guardare un solo frame), non avrebbe analizzato nulla, e quindi informava i lettori che si considerava libera dal dovere di fornire qualsivoglia informazione che non riguardasse se stessa e i propri "stati d'animo". Questa giunzione tra rete e mezzi di comunicazione, tra l'io del social network e quello della carta stampata, mi sembra chiudere in bellezza l'estate.

Gli snuff movie, nel nostro immaginario (ché nessuno li ha mai visti) puntano sulla continuità temporale, sul dettaglio cruento in bella mostra, su ciò che viene rappresentato e non sul modo in cui viene rappresentato. Puntare sul modo crea una distanza: perché volerla creare, qui? Non ci dovrebbe essere un alternarsi tra immagini iniziali graffiate "alla Grindhouse" (il discorso di Obama), come se appartenessero a un passato remoto, e immagini iperrealiste e patinatissime. In parole povere, uno snuff movie non è girato da De Palma. Questo video, invece, sembra girato da De Palma.

Se non guardi il video, inorridisci; ma se lo guardi, tutto è congegnato in modo da farti interrogare sulla sua fabbricazione.

L'interpretazione di "Le Monde" sarebbe che si è scelta una forma in qualche modo "soft" per non dissuadere eventuali nuove reclute. Di mio aggiungo la possibilità che le nuove tecnologie permettano ormai di ottenere in modo facile e rapido una qualità standard, che proprio in quanto tale si trova sganciata da qualsiasi intenzionalità: una forma insignificante, insomma (scienza senza coscienza ecc.). La maggior parte dei film oggi è così. Un tempo una carrellata poteva essere "oscena", "morale", ecc. Oggi la stragrande maggioranza di esse non è nulla. Ambedue le interpretazioni non spiegano però tutte le stranezze del video. Le stranezze restanti potrebbero essere spiegate da una soluzione agghiacciante, modello "fucilazione di Mario Cavaradossi".

Ripeto, il modello potrebbe essere il filmato vero/finto finto/vero di De Palma, più che le serie tv. In soldoni: gli aguzzini chiedono alla vittima di pronunciare un testo/testamento distintamente, dopodiché lo decapiteranno per finta. E così avviene (la lama che non convince, l'assenza di sangue). Quindi lo decapitano davvero. Moglie piena e botte ubriaca: l'attore ha recitato bene, ora possiamo sbarazzarcene.

La fattura curatissima, ripeto, potrebbe essere legata alle esigenze descritte da "Le Monde", oppure essere frutto di una qualità indifferente, celibe. O un mix delle due cose. (O altro, certo: l'unica cosa sicura è che quella fattura è indiscutibile.)

Ho appena rivisto il video e non credo più all'ipotesi "macchina celibe". È costruito troppo bene, l'intenzionalità è evidente e solida. Colpisce, tra l'altro, l'uso perfettamente calibrato di tre registri d'immagini successivi. Prima la dichiarazione ufficiale di Obama, graffiata artificialmente come se fosse una vecchia vhs, reperto del passato ritrovato dagli alieni: i sogni telepatici inviati dall'avvenire in Prince of Darkness, le immagini mentali di Fino alla fine del mondo. Quindi gli infrarossi delle operazioni militari segrete, anch'esse con il loro retaggio storico e televisivo (ma anch'esse sembrano sfruttate con la consapevolezza delle successive destrutturazioni, compiute appunto da un De Palma e da altri). Infine la verità: spogliata di ogni orpello, "nuda": un mare di sabbia con due uomini al centro, sotto una luce metafisica, iperrealista. Gus Van Sant, mettiamo. I tre registri sono convenzionali, ovviamente, ma in qualche modo ancora efficaci. Ma perché siano efficaci, chi ha costruito il video deve sapere che sono convenzionali (come dire: deve sapere, ad esempio, che il "registro della verità" non è "la verità").

Quel che si ricerca, forse, è appunto l'immagine-archetipo, mentale, diciamo junghiana (se preferite: kubrickiana; Shining è il miglior film della storia sui fantasmi perché è girato da uno che ai fantasmi non crede affatto). Un artefatto assoluto, insomma: quindi fuori dallo spazio e dal tempo. Non colpisce nessuno e colpisce tutti. Tra pochi anni nessuno ricorderà il video di Pearl. Questo is here to stay, come il rock and roll versione horror dell'autoradio di Christine. Produce stupore, paura e recondita ammirazione. Una tragedia greca di due minuti, insomma. Le leggiamo ancora.

Penso che sia un prodotto occidentale, o che comunque attinga a piene mani al linguaggio cinematografico occidentale. È una "nostra" produzione. Il che non significa che non sia roba "loro". Noi, loro. Il problema (che il video curiosamente conferma) è che dei protagonisti del filmato (quel nero che parla da solo all'inizio, quel giornalista di cui si eran perse le tracce da due anni, il tizio incappucciato), per non parlare dei loro rapporti, conflitti, ecc., noi non sappiamo assolutamente nulla. È appunto un assoluto minimale.

C'è un'idea universale, assoluta. Non so neppure se sia un'idea dell'Islam. Io ci vedo l'Idea e basta. L'archetipo. Si può anche chiamarlo Vuoto, o Nulla, se si preferisce.

In questo senso, i due discorsi, quello di Obama e quello del condannato (peraltro il secondo è espresso in un inglese impeccabile, scritto e limato, con tutti gli effetti al posto giusto: si percepiscono tutti i nessi logici, si vedono i punti e virgola), ignorando tutto quello che ho scritto tra parentesi potrebbero essere sostituiti dalla lettura dell'elenco telefonico. Mi chiedo se l'effetto principale cambierebbe.

 ***

Ieri sera per una serie di cortocircuiti ho avuto per la prima volta il sospetto di un'altra stranezza, circa quel video. Vado subito al dunque: l'idea è la scarsa presenza di un messaggio religioso o pseudoreligioso che dir si voglia. A verifica compiuta, l'impressione è confermata ma resta tale o è comunque difficilmente argomentabile a parole. Nelle didascalie (sfondo nero iniziale, sottotitolo dell'immagine del bombardamento), il termine "Islamic State" appare 2 volte, "Muslims" 1 volta. Nel discorso di Foley non è rintracciabile alcun termine appartenente al registro religioso. (In alto a sinistra compare un piccolo logo, con una sorta di moschea sovrastata dall'inevitabile mezzaluna; il logo è spesso coperto da una bandiera svolazzante: è piccolo, ripeto, per posizione e dimensioni non deve distrarre l'attenzione dello spettatore; deve, sostanzialmente, passare inosservato.) Quando parla il terrorista incappucciato, abbiamo: "Islamic State" (2 volte), "Islamic Caliphate" (2 volte); "Islamic Army" (1 volta), "Muslims" (3 volte). Tutte queste occorrenze sono meri dati di fatto, non dichiarazioni di fede (dice "Islamic State" perché è un dato di fatto, così come immagino che sia un dato di fatto che le vittime dei bombardamenti USA fossero musulmane; o se si vuole esser più severi, siamo di fronte a una fraseologia di tipo performativo: nel momento in cui io pronuncio "Islamic State", lo Stato Islamico nasce ed è). Mai la parola "cristiani", mai "miscredenti", "infedeli", "guerra santa", "jihad", eccetera. In compenso, l'oscura e pesantissima accusa fatta agli USA di essere andati "far out of your way to find reasons to interfere with our affairs", laddove l'espressione volutamente ambigua "our affairs" sposa (e quindi condivide) un immaginario tipicamente occidentale, più precisamente americano o di stampo mafioso. Una dichiarazione politica scritta da Michael Corleone, per intenderci: e infatti anche lì la religione era usata sfacciatamente come copertura. 
(Non dimentichiamo che per l'americano medio la saga del Padrino è un po' la sua Iliade: e che se inizialmente la famiglia Corleone doveva raccontare metaforicamente, attraversandolo, il ventesimo secolo degli Stati Uniti, Coppola piegò il progetto fino a farlo diventare anche, com'era naturale che fosse, la storia di Hollywood.)

domenica 13 luglio 2014

This Land is My Lai

Warehousing is worse than apartheid. It does not even pretend to find a political framework for “separate development,” it simply jails the oppressed and robs them of all their collective and individual rights. It is the ultimate form of oppression before actual genocide, and in that it robs a people of its identity, its land, its culture and the ability to reproduce itself, it is a form of cultural genocide that can lead to worse.
Jeff Halper, Israel's message to the Palestinians: Submit, leave or die, "Mondoweiss", 11 luglio 2014.

1979 aura été une année cinématographique assez piteuse. Nous en retiendrons quelques films, probablement pas assez pour en faire une liste des top ten comme dans ma première jeunesse.
D'abord (chronologiquement), le Voyage au bout de l'enfer de Cimino, souvent très satisfaisant plastiquement, et qui traitait de questions de la première importance: Pourquoi les ouvriers acceptent-ils d'aller à la guerre? Et qu'est-ce que ça leur fait? En face de ces questions, l'agacement de quelques spectateurs de gauche, qui se plaignaient que Cimino eût caricaturé les militaires de l'autre bord, est ridicule.
Avec tous ses fastes technologiques, pécuniers et saignants, c'est Apocalypse Now qui est un supplément à ce Voyage, et non l'inverse, parce que Cimino pose les questions centrales, quand Coppola disserte (sur l'instinct de mort d'une société, d'un mode de production, et finalement de l'espèce) sans poser de questions.
Jean-Patrick Manchette, “Charlie Hebdo”, n° 475, 19 dicembre 1979 (ora in Les Yeux de la momie, Paris 1997, p. 125).




martedì 1 luglio 2014

Gufi

Perché il gufo gufò? Perché il picchio picchiò.
Throper Fallcaster, collezionista di freddure sugli uccelli e 54° caso esaminato in The Falls (Peter Greenaway, 1980).

Da sempre, appena sento la parola "gufo", la prima cosa a cui penso è un racconto di Ambrose Bierce, An Occurrence at Owl Creek Bridge, che lessi da bambino. Fu pubblicato nel 1890 sul "San Francisco Examiner". Un anno dopo Bierce lo inserì nella raccolta Tales of Soldiers and Civilians. Il titolo riporta chiaramente alla Guerra civile americana. Ma nel racconto che mi colpì (questo blog racconta esclusivamente la storia di un uomo "marqué par une image d'enfance") il contesto storico è irrilevante. Anche i gufi c'entrano poco. Si limitano a dare il nome a un ponte, dove inizia e finisce la storia. Dove finisce, soprattutto. Anche se in realtà finisce dove inizia. Anche se in realtà finisce come inizia.
Sono appena dieci cartelle, ma a causa della trovata finale ha segnato per sempre la storia della narrativa mondiale, e in particolare la narrazione fantastica. Quando incombeva plumbea "l'egemonia culturale della sinistra" e "i professoroni" terrorizzavano la nazione, l'italiano disponeva di decine di migliaia di parole, e in quella babele poteva persino permettersi di ospitare vocaboli repellenti. Per il racconto di Bierce, possiamo star certi che sarebbe stato usato il mostruoso aggettivo "seminale". Oggi, fortunatamente, quell'epoca cupa si è conclusa, e con le nostre 500 parole non riusciremmo neppure a raccontare un fine settimana di Maigret, ma almeno "famo a capirci" e diciamo che il racconto di Bierce è "’na robba".
In letteratura, la stoccata finale delle varianti di Owl Creek Bridge la dà Borges nel suo più bel racconto, El Sur. Fu pubblicato assieme a due altri testi nella seconda edizione di Finzioni. Il colpo di genio di El Sur è l'azzardo supremo: eliminare del tutto la trovata finale per disseminarla lungo tutto il testo, in tal modo che solo il lettore più malizioso potrà sospettare la soluzione (e, più che sospettarla, sentirla: sentirse en muerte, come titolava il primo esperimento narrativo di Borges, ispirato al medesimo incidente autobiografico: un incidente "seminale"). È un'operazione squisitamente letteraria. Molti anni dopo, chiudendo il cerchio, Roberto Bolaño trasformerà il tutto in splendido e mediocre sberleffo, con El gaucho insufrible. Il pastiche di Bolaño elimina il colpo di scena, semplicemente. Non lo trovi né alla fine del racconto, né all'inizio, né durante. È bellissimo.
Al cinema i nipotini di Bierce riempirebbero un orfanotrofio dickensiano (per non parlare della televisione: quel racconto è praticamente il palinsesto di qualsiasi episodio di The Twilight Zone). Il mio preferito è Carnival of Souls di Harold Arnold "Herk" Harvey (dopo quel film, di "Herk" credo non si seppe più nulla). E non solo perché assieme a L'ultimo uomo della Terra di Ubaldo Ragona ispirò a Romero La notte dei morti viventi. Ma anche per quello. Il film più famoso è invece Il sesto senso di M. Night Shyamalan, che a me però non ha mai convinto perché non c'è colpo di scena, per quanto sorprendente (e dal 1890 quel colpo di scena non sorprende più), che giustifichi la tortura di un racconto psicologico. Shyamalan lo ha capito, e i film che ha fatto in seguito mi piacciono moltissimo.
Dal racconto di Bierce è stato girato un cortometraggio, La Rivière du hibou.



Subito dopo Bierce, quando sento la parola "gufo" penso a John Travolta, nel film in cui scoprii che John Travolta era un attore fenomenale. Blow Out è anche il film che preferisco di Brian De Palma. A ripeterlo rapidamente, diventa uno scioglilingua e sembra quasi di sentire il gufo gufare: blow out blow out blowlout.
La prima volta che Travolta raccoglie i suoi miserabili effetti sonori sul ponte dove inizia la storia (ma non finisce, anche se sempre lì si torna; mentre il film, che racconta un'altra storia, comincia prima e quindi finisce dove comincia), il gufo bubola e sembra guardarlo fisso negli occhi. Però quando la raccolta viene ricostituita mentalmente in studio, l'immagine si divide in due, la memoria si sdoppia razionalmente e schizofrenicamente, con il senno e la paranoia di poi: Travolta e il gufo guardano nella medesima direzione: verso l'incidente (o occurrence). Si chiama split screen, a De Palma piace molto perché a lui piacciono le cose più brutte, De Palma è lo spazzino del cine, se fosse italiano sarebbe capace di fare un film intitolato "Il bubolio seminale del gufo".
Naturalmente quell'immagine non l'hai più dimenticata.


Ma alla fine il gufo gufò gufò gufò.

venerdì 27 giugno 2014

Cos Orfini so cuul

«Vendola non cerchi nelle pressioni del Pd le cause della crisi di Sel: due anni fa diceva 'mescoliamoci', oggi cambia radicalmente linea. Davvero crede che la sinistra possa essere rappresentata dal salotto di Barbara Spinelli?»

Dopo il "professoroni", nel PD prosegue l'epica battaglia contro gli intellettuali (con stragi collaterali di civili magari anche solo intelligenti) a colpi di cliché, tra trite immagini e fraseologie qualunquiste. Il comunismo è morto, largo ai giovani poujadisti alla Orfini ("la ruota gira!", come sanno anche i simpatici cricetini) che pappagalleggiano su una melma più vecchia dei loro nonni.
Il tutto nell'ignoranza più becera, va da sé: non solo il "salotto di Barbara Spinelli" non è mai risultato da nessuna parte, neppure sui rotocalchi a carta patinata con fotoromanzo in omaggio, ma dato che il deputato italiano più prestigioso del nuovo Parlamento Europeo vive a Parigi, Orfini avrebbe potuto parlare di "buduar", cogliendo l'occasione per sapide rime con "ghitar" e soprattutto con "iaguarrr".



Nel PCI del ventennio fascista, il carcere era l'occasione per imparare il russo. Oggi Orfini sa a malapena l'italiano e "se ne frega". Come Alessandra Moretti, basta ripetere ossessivamente "appunto!"  dalla Gruber e sei subito un nipotino di Berlinguer.

venerdì 13 giugno 2014

Le tombeau de Stanley Kubrick (la versione di Mike Leigh)

Alla morte di Kubrick, la rivista francese "Positif" (n° 464, ottobre 1999) ebbe l'ottima idea di fare a 48 registi due domande:

1. Quel est, selon vous, l'apport de Stanley Kubrick au cinéma ?
2. A quel film de Stanley Kubrick êtes-vous le plus attaché et pourquoi ?

Dei 48 ricordo solo Mike Leigh, uno dei più prolissi. Forse perché una cosa del genere non l'avrei mai scritta. Forse avrei scritto una cosa peggiore, o migliore; ma non quella e di certo non così.
Ci penso solo ora: Mike Leigh non fa film per me. Li fa per qualcun altro. Non so chi sia, quel qualcun altro, so solo che non è un cretino. Sarà per questo che Mike Leigh mi è sempre piaciuto.
Settimane fa volevo mostrare a un amico della rete quel che Leigh aveva scritto di Kubrick, ma in rete il testo non si trova.
Ora sì.


1. Stanley Kubrick est le plus grand humoriste du cinéma. Son humour n'est pas seulement "noir", comme on le dit souvent, c'est le sourire de l'humanité, le sourire mi-figue mi-raisin qui ne peut venir que d'une inquiétude profonde pour la fragilité de l'existence. Ce n'est pas un humour qui est consciemment forgé, ni le fruit d'une habileté acquise, ni un procédé utilisé à l'occasion dans certaines situations. Ce n'est pas non plus un moyen pour détendre l'atmosphère. Kubrick est un humoriste incontournable, un farceur profond qui ne peut s'empêcher de trouver de l'humour en chaque chose. Sa capacité à nous faire rire, au cœur des moments les plus douloureux, est rare au cinéma.
Il ne peut résister à l'idée d'une plaisanterie, mais ses plaisanteries, jamais gratuites et toujours organiques, ne sont pas séparables de l'événement. Et, parce qu'il avait le courage d'être vraiment créatif pendant le tournage, se donnant le temps et l'espace pour développer et improviser quelle qu'ait été la préparation minutieuse de la scène, son humour était toujours vivant et spontané.
Parfois, il avait de bonnes raisons pour nous heurter de plein fouet avec son humour mais, le plus souvent, il évite le trait évident et la touche comique gît subtilement et implicitement sous la surface, se glisse lentement vers vous, sans que vous ne vous en rendiez compte et au moment où vous vous y attendez le moins.
Ce maître de l'ironie a été élevé à New York et a commencé à gagner sa vie comme photographe. Par nature, il porte un regard dur, impassible et prolongé sur les situations, demeurant à la fois compatissant et détaché, mais n'oubliant jamais le côté comique. Cela ne peut venir que de son premier métier. Il y a peut-être aussi quelque chose de juif dans cette manière tragi-comique de prendre la vie.
Si Kubrick trouve de l'humour dans le monde réel, c'est celui de l'absurde, du ridicule et du grotesque. Aucun autre metteur en scène n'a rendu la violence aussi hilarante qu'elle est horrifiante. La juxtaposition de l'épique et du domestique l'a toujours amusé, et il prend un malin plaisir dans ce que j'appellerais l'humour de l'acharnement.
Sans cesse, Kubrick nous force à faire face aux situations et refuse tout simplement de nous laisser le moindre répit. Alors que plus d'un réalisateur de moindre envergure serait déjà quelques scènes plus avant, Kubrick est toujours là, nous obligeant à regarder plus longtemps et plus durement, à comprendre en fait. Plus nous restons en présence de la scène, plus elle ressemble au temps réel. Et plus Kubrick consacre de temps à l'examiner, plus elle devient réelle pour lui, et plus il la voit en détail. Et le détail réel veut dire la vie vécue comme elle l'est vraiment, en trois dimensions, avec tous ses défauts. Kubrick nous entraîne au delà de la surface, dans une réalité agrandie qui ne peut que nous offrir l'humour inévitable de l'existence. Chaque film de Kubrick est un gag très travaillé, un gag sérieux, mais néanmoins un gag. On a le sentiment qu'il aime mettre en place un projet épique, puis trouver une manière non sentimentale, antihéroïque de le subvertir. Et cela vient, plus que de tout autre chose, de son génie à diriger les comédiens pour qu'ils soient vrais, vulnérables et crédibles. Si bien que, même si ses films sont autant guidés par le destin que par le personnage, ils sont tous néanmoins des films de personnages.
Mais c'est aussi parce que, philosophiquement, il est incapable de voir le monde en noir et blanc, en termes moraux, idéalistes ou simplistes. Kubrick voit la vie comme elle est, dans toute sa complexité ; dès qu'il sent que nous pourrions glisser vers l'émotion facile et la réponse évidente, son merveilleux instinct anarchique est de nous faire méditer sur l'inexplicable et, invariablement, en nous faisant rire.
Bien sûr, Kubrick n'était pas un cynique – il était passionnément attaché à la vie et il l'aimait. Et, en dépit du fondement intellectuel si solide et si impressionnant de ses idées, Kubrick demeure pour moi un metteur en scène spontané, intuitif, subjectif et émotionnel. C'est pourquoi il est toujours divertissant.
Qu'il ne soit pas universellement considéré comme un humoriste vient de ce que son humour est celui, authentique, d'un artiste qui est totalement et profondément sérieux. Mais il est fichtrement drôle et je ne doute pas qu'Eyes Wide Shut nous donnera quelques occasions de glousser. Je l'attends avec impatience.

2. Il m'est impossible de choisir mon film favori de Kubrick, les aimant tous. Mais, puisque l'humour de Stanley a été mon thème, je voudrais citer 2001 comme un des films les plus drôles que je connaisse.
Où existe-t-il, dans l'ensemble du cinéma, une séquence aussi profondément tragi-comique que celle qui commence avec un ordinateur assassinant trois cosmonautes endormis, puis propose une bataille de mots d'un comique inquiétant entre un ordinateur et un être humain, et s'achève par la mort lente de l'ordinateur, tandis qu'il chante, mal, une vieille chanson populaire sur une gentille jeune fille et des cyclistes en tandem ?


sabato 10 maggio 2014

"Mancano dettagli, rettifiche, messe a punto."

È stato detto che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. Ciò equivale ad affermare che non c'è discussione di carattere astratto che non sia un momento della polemica di Aristotele e Platone; attraverso i secoli e le latitudini, cambiano i nomi, le lingue, i volti, ma non gli eterni antagonisti. Anche la storia dei popoli registra una continuità segreta. Arminio, quando massacrò in una palude le legioni di Varo, non si sapeva precursore d'un Impero Germanico; Lutero, traduttore della Bibbia, non sospettava che il suo fine era quello di forgiare un popolo che distruggesse per sempre la Bibbia; Christoph zur Linde, che una pallottola moscovita uccise nel 1758, preparò in qualche modo le vittorie del 1914; Hitler credette di lottare per un paese, ma lottò per tutti, anche per quelli che aggredì e detestò. Non importa che il suo io lo ignorasse; lo sapevano il suo sangue, la sua volontà. Il mondo moriva di giudaismo e di quella malattia del giudaismo che è la fede di Gesù; noi gli insegnammo la violenza e la fede della spada. Tale spada ci uccide, e noi siamo paragonabili al mago che tesse un labirinto ed è costretto a errarvi fino alla fine dei suoi giorni, o a David che giudica uno sconosciuto e lo condanna a morte e ode poi la rivelazione: Tu sei quell'uomo. Molte cose bisogna distruggere, per edificare il nuovo ordine; ora sappiamo che la Germania era una di quelle cose. Abbiamo dato più delle nostre vite, abbiamo dato il destino del nostro amato paese. Altri maledicano e piangano; io sono lieto che il nostro dono sia circolare e perfetto.
Jorge Luis Borges, "Deutsches Requiem", L'Aleph, Milano 1989 [1959], pp. 87-8.


mercoledì 7 maggio 2014

Per me che sono nullità

un linguaggio di morte le battaje in cui credo il nostro si chiama martin sciulz e il vostro chi è chi è il vostro candidato alla presidenza europea onorevole castelli parliamunpoddeuropa per evitare di dire poi cavolate agli italiani pari al quindici percento non è una cifra da poco io capisco la rabbia di chi vuole che nulla cambi io capisco diciamo gli argomenti diciamo così però però onorevole castelli se lei interrompe continuamente e parla sopra sembra però una vecchia politigante di cui ormai abbiamo piene diciamo le tasche e aggiungo che per la prima volta renzi ha dato ai comuni un miliardo di euro ai comuni dopo anni anni e anni quindi l'esatto contrario di quello che sta sostenendo l'onorevole castelli come al solito quindi dicevo insomma dicevo replicando all'onorevole castelli perché gli ottanta euro di questo insomma questo sono ma basta ma basda con guesti ritornelli non l'ha letto ma gomungue quello che dice lei poco conta onorevole castelli dovrete giustificare agli italiani le bugie che avete raccontato finadesso nel tempo la percentuale di quelli ghe insomma scelgono nzomma così mi pare di ricordare è molto diminuita incentivarli a credere nella politica incentivarli a credere nella VERA politica questo è accaduto per vent'anni l'energia insomma le qualità io sono assolutamente sicura guardi non mi pare proprio questo il caso diciamo così noi facciamo accordi alla luce del sole parlo ovviamente di riforme istituzionali per le riforme appunto costituzionali che si aspettano ci fa a carico tutto alla luce del sole però mi lasci fare una battuta su quanto si diceva prima perché guardi va bene tutto però mi lasci dire una cosa importante ma basta giù le mani giù le mani giù le mani

lunedì 28 aprile 2014

Vd, anzi no.

Credo di essere una delle poche persone a ricordare il finale di Gloria, quando, dalla trita Cadillac nera, invece degli annosi killer Phil vede uscire Gena Rowlands, e quel che Phil vede uscire dalla Cadillac e dallo schermo è un sogno (tutto il film è un sogno: si spaccia un'idea del mondo per un'idea del cinema), perché Cassavetes vira l'immagine in bianco e nero. Cerchi quel finale, che ricordi e sai di aver visto sette volte al giorno quando avevi nove anni, l'esatta età di Phil (una volta al giorno, per una settimana: il biglietto costava meno di dieci franchi, eri solo a Montparnasse), sapevi a nove anni che non ti avrebbe mai abbandonato, quell'abbandono, ossia quella desaturazione, la morte elusa e ritrattata da una beffa cinematografica. Anni dopo la Columbia ti negherà persino la pensione dell'immaginario, e con il colore ripristinato la verità (ossia il falso) non trova neppure spazio su google.

domenica 23 marzo 2014

There's very little can stop me

ecco, vedi, lei era una bella pazzesca, infatti gli americani diventavano matti, si appiccicavano le sue foto dappertutto, sì, i manifesti, sì brava! è proprio quella che hai visto in quel film pazzesco di evasione bellissimo, bellissimo forse no ma diciamo bellissimo per il momento, ecco, nella realtà la appiccicavano persino sui bombardieri, infatti lei era una bomba, di una donna veramente molto sensuale si dice ora che è una bomba non a caso, non a caso, poi, cioè non poi prima di questo ha fatto un filmetto, non un brutto film ma insomma un filmetto dove cantava pure con una chioma nera però luminosa, insomma i capelli ma come una nappa di colore scuro abbagliante sul volto, nero luminoso capisci, forse se ci fosse stato il colore avrebbe avuto dei riflessi rossi, all'henné come si dice ora, cioè ora da molto tempo, e gli uomini ci impazzivano per quella cosa di luce cupa, capisci, gli uomini soprattutto americani magari piloti di aerei con bombe, lei era una bomba (non che fosse una novità, pensa nel medioevo, quelle navi con le sirene sulla prua, si chiamavano polene), sì, brava, come l'aeronave di Final Fantasy VIII, una polena, una bomba, insomma e lui se l'era sposata, non che fosse il grande amore, allora lui gli taglia tutti i capelli, quella chioma lì, là, quella nappa di scuro fulgente, là, e quel che resta lo fa biondo platino, ossigenato, e quindi comunque ormai lui non faceva mica quello che gli pareva come prima, i produttori volevano una scena dove lei canta, non che cantasse benissimo ma se c'era lei doveva cantare per far impazzire gli uomini soprattutto americani magari piloti di aerei, e quindi lui fa questa scena qua, capisci, un po' se ne fotte, e intanto fa tutto un casino, ricordi i film prima, ti dicevo, ricordi, la profondità di campo, i piani sequenza, l'organizzazione dello spazio, tu sai sempre dove ti trovi, e se non lo sai è perché lui vuole che tu non lo sappia, che tu ti perda, qui invece è tutto diverso, capisci, qui lui taglia tutte le inquadrature, a volte non si capisce perché lo fa o non lo fa, lo hai notato, vero, hai notato che della storia non si capisce nulla e non si capisce persino se c'è, la storia, è una cosa tipica del noir, che vuol dire nero, a volte luminoso a volte no, e allora insomma comunque qui è tutto una serie di stacchi senza senso, apparentemente senza senso, forse davvero senza senso, perché mica puoi fare un piano sequenza come e quando ti pare, se vuoi fare un piano sequenza ci vogliono tanti soldi, a lui i soldi non glieli davano più e quindi andava di stacchi, tutto un film di stacchi, no, ho detto una cazzata, non è vero, a volte fai un piano sequenza proprio perché è più economico, ora non lo sai ma lui ha fatto un piano sequenza pazzesco anni dopo, una bomba, no, non nel senso che c'è una bella donna, c'è proprio una bomba nel piano sequenza che lui ha fatto come piano sequenza proprio perché costava meno che fare tanti stacchi, nelle prossime settimane capirai, te lo spiego bene preciso come te lo sto spiegando adesso, dicono alcuni è il più bel piano sequenza della storia del cine, er mejo piano sequenza come direbbe Lucciconio in Ni No Kuni, quindi ora vedi guarda in questa scena tutto sembra normale ma improvvisamente vedi lui nella stiva mentre lei bomba canta ripresa dal basso, ricordi quello che ti dicevo sui soffitti nei film precedenti, be', un po' è quello è la stessa cosa un po' dimenticatelo è un'altra cosa, qui sta come cavolo a merenda, serve a squilibrare il tutto, a mostrare il turbamento, quel turbamento là che c'è quando una bomba lei pazzesca canta magari male e tutti impazziscono, i piloti di aerei e navi e carrozze, tutto si sbilancia, poi, ecco, ora guarda vedi attenta, vedi il rovescio, l'angolatura dall'alto, ecco, questo è importantissimo, perché lui sta salendo le scale, sta in qualche modo ascen elevand okay insomma, capisci, sta salendo salendo verso qualcosa che è alto, bello, giusto, gajardo come direbbe Lucciconio, e invece lui lo riprende, lui se stesso intendo, riprende se stesso che sale dall'alto, schiacciandolo insomma, capisci, come se la salita fosse una discesa insomma come dire, come dire che quella donna bella dea bomba forse non è proprio quella cosa là, giusta, bella e bionda, o bruna, o luminosa, e insomma è un filmetto, certo, ma non su quello che cercano di raccontarci, che come in tutti i noir nessuno sa mai cos`è né come né quando, è un film che racconta di gente che non capisce più lo spazio, cosa sta sopra e sotto e accanto, ecco, non so se mi sono spiegato ma questo volevo dire, insomma


sabato 15 marzo 2014

domenica 2 marzo 2014

Lo splendore del nulla

ALAIN RESNAIS, 3/6/1922 - 1/3/2014

Coincidenza, proprio la settimana scorsa ho mostrato a mia figlia Smoking, No Smoking e Parole, parole, parole… (intraducibile il titolo francese On connaît la chanson, anche se si sarebbe potuto azzardare un "Questa poi la conosco pur troppo").
Ritrovo un articolo che scrissi anni fa per un giornale. Uscì lievemente accorciato. Una retrospettiva e la pubblicazione di una sceneggiatura per un film incompiuto servivano da esili pretesti.
Altra coincidenza, fu in qualche modo questo articolo che mi convinse ad aprire il blog.


Hiroshima mon amour inizia con due corpi allacciati: un viluppo inestricabile di braccia nude, poi coperte di sabbia, poi carbonizzate dalle radiazioni. Lui, giapponese: “Non hai visto niente, a Hiroshima. Niente”. Lei, francese: “Ho visto tutto. Tutto”. Era il 1959, anno cruciale della storia del cinema, ammesso che il cinema abbia una storia. “Tutto” e “niente” sono pronomi di Marguerite Duras; ad Alain Resnais spetta l’onere del verbo “vedere”, ammesso che qualcosa si possa ancora guardare, tra queste immagini d’amore e d’orrore: “Guardare bene è una cosa che si impara” dirà ancora Lei. Resnais ha trentasette anni, e Hiroshima è il suo primo lungometraggio. Ma era dal 1947 che realizzava cortometraggi, e il più celebre di essi, Notte e nebbia (1955), già fissava la cinepresa sul luogo inguardabile per essenza, ossia Auschwitz.
Dal 16 gennaio al 3 marzo il Centro Pompidou ospita la prima retrospettiva integrale della sua opera a cura di François Thomas, mentre le edizioni Capricci pubblicano finalmente la sceneggiatura di Frédéric de Towarnicki Les Aventures de Harry Dickson: un progetto che Resnais tentò invano di realizzare nel corso degli anni Sessanta e che secondo Henri Langlois “avrebbe potuto cambiare il destino del cinema francese”.
Dopo gli omaggi a Scorsese, a Godard, a Erice e Kiarostami, la retrospettiva si inscrive in una sempre più vivace politica cinematografica del centro culturale parigino. Come e cosa ha imparato a guardare Resnais, in sedici film (quasi tutti restaurati) e una ventina di rarissimi e preziosi corti e documentari, tra cui le Visites d’atelier (1947) dei pittori Hans Hartung e Óscar Domínguez, il Van Gogh (1948) raccontato esclusivamente attraverso i quadri (in bianco e nero!), un Gershwin (1992) o l’esilarante Chant du styrène (1958) sul plastificio Péchiney, con testo di Raymond Queneau tradotto da Calvino: “Dimmi, petrolio, è vero che provieni dai pesci? / È da buie foreste, carbone, che tu esci? / È il plancton la matrice dei nostri idrocarburi? / Questioni controverse... Natali arcani e oscuri... / Comunque è sempre in fumo che la storia finisce”.
In fumo, in notte, in nebbia, in niente. Il cinema di Resnais, anche quando adotta un tono ludico e leggero, è sempre minacciato dallo schermo nero: metaforicamente, come le molteplici biforcazioni narrative di Smoking e No Smoking, che finiscono tutte al cimitero; letteralmente, quando l’immagine nera e prolungata fino all’insostenibile irrompe e spezza più volte L’Amour à mort, in qualità di impossibile rappresentazione dell’aldilà. Ma a ben guardare (o a guardare bene), anche in quel film qualcosa danza, nel buio della sala: un fioco pulviscolare di luci microscopiche. Forse quelle luci sono ancora vite, o memorie di vite, forse nella lugubre oscurità battono ancora Cuori, come suggerisce il titolo dell’ultima, gelida commedia. O forse Resnais, finissimo intenditore della musica del ventesimo secolo, pensa a una polvere di stelle, allo Stardust di Hoagy Carmichael. Comunque sono non-nulla.
Se filmare tutto è impossibile e il nulla è inguardabile, bisogna fissare l’occhio su qualcosa. E se il francese non fosse parco di diminutivi, subito la squisita ed esuberante Sabine Azéma, attrice prediletta nonché compagna del regista, si metterebbe a salticchiare correggendoci come una maestrina in pensione: “no, non qualcosa! piuttosto qualcosina!”. O magari preferirebbe canterellare Ces petits riens, un po’ sbigottita di ritrovarsi con la voce di Serge Gainsbourg: “Mieux vaut ne penser à rien / Que ne pas penser du tout / Rien c’est déjà / Rien c’est déjà beaucoup”. È proprio con Azéma, Pierre Arditi e André Dussolier (e da qualche anno uno stupefacente Lambert Wilson) che Resnais ha portato alla perfezione il suo cinema inteso come una bottega, un artigiano atelier dove tutti, dallo scenografo Jacques Saulnier ai direttori della fotografia Sacha Vierny o Renato Berta, concorrono a fabbricare fragilissimi nonnulla.
Un nonnulla, “c’est déjà beaucoup”: è già molto. Ma basta per essere vivi? Ripensando al secondo film di Resnais, il dubbio è legittimo. “Eppure, improvvisamente, in questa greve notte d’estate, i campi erbosi sulla collina si sono riempiti di gente che balla, che passeggia, che fa il bagno nella piscina, come villeggianti sistemati da molti giorni a Los Teques o a Marienbad.” Ecco, Marienbad. Anche se la citazione è tratta dall’Invenzione di Morel, il romanzo che Adolfo Bioy Casares scrisse nel 1941 e che Alain Robbe-Grillet riconobbe quale influenza principale della sua sceneggiatura de L’anno scorso a Marienbad. La trama del racconto di Casares è nota: un naufrago approda su un’isola abitata da persone che si ostinano a non vederlo. Dopo essersi innamorato di una fanciulla, scopre che tutti gli esseri dell’isola sono proiezioni cinematografiche in carne e ossa votate a ripetere in eterno una settimana di spensierate vacanze del 1924, e decide di proiettarsi a sua volta nel film, ben sapendo che se tale operazione sarà forse “capace di riunire le presenze disgregate” (o i tanti cuori infranti dei film di Resnais), essa non è affatto incruenta. Alla fine, il naufrago, irradiato dal diabolico proiettore, attende la morte guardando il simulacro di se stesso simulare una commedia romantica. E sconsolato osserva: “La mia anima non è passata, ancora, nell’immagine”. La speranza dell’amour fou è tutta inscritta in quell’“ancora” chiuso tra due virgole.
Amour fou, o Amour à mort: a volte si ha l’impressione che i personaggi di Resnais vivano ancora nell’isola di Bioy Casares, o a Marienbad, nella villa di Robbe-Grillet, immemori di sé o ricordando passati artificiali, come i replicanti di Blade Runner o come Jack Torrance nell’Overlook Hotel di Shining, inchiodato alla fine del film nella fissità di una fotografia che testimonia di un eterno ritorno del tempo e della memoria. O ancora, tornando a Resnais, come in Muriel, il tempo di un ritorno (1963), il cui titolo francese, Muriel ou Le Temps d’un retour, suggeriva sottilmente l’identità (o il conflitto) tra tempo e individuo. Un destino agghiacciante, stranamente orchestrato con sovrana leggiadria dall’atelier di Alain Resnais. Ma forse la contraddizione è solo apparente, forse aveva ragione Bioy Casares, quando ricordava: “L’eternità rotatoria può sembrare atroce a uno spettatore; è soddisfacente per i suoi attori. Liberi da cattive notizie e da malattie, vivono sempre come fosse la prima volta, senza ricordare le precedenti”. È così che l’eterno ritorno si trasforma in ritornello. E per vivere non serve un motivo: basta un motivetto.
Non sempre Resnais ha raccolto l’unanimità dei consensi. Un critico intelligentissimo quale Jacques Lourcelles definì L’anno scorso a Marienbad “uno dei film più insani che il cinema abbia prodotto”, ma gli si può opporre un memorabile articolo di Luc Moullet, apparso sui “Cahiers du cinéma” ai tempi di Smoking/No Smoking, dove l’opera di Resnais si illumina dello “splendore del nulla”: polvere di stelle, attorno a cui gravitano personaggi costretti a subire non tanto la vita quanto il suo copione. O il suo “romanzo”. O la sua operetta. O la sua canzonetta.

venerdì 21 febbraio 2014

Notte sulla città

il governo più giovane della storia dell le donne metà donne tante donn mai avuti tranne con De Gasperi così pochi minist certo la continuità ma anche tanta tanta novi
Un capolavoro di retorica raiuno, degno della desaturata Francia pompidoliana, sotto un cielo da banlieue siamo tutti banditi. E neppure un Melville in grado di fotografare l'ulteriore miseria che ci promettono, ilari, tutte queste donne, tutti questi giovani.

venerdì 31 gennaio 2014

Ceci est l'histoire d'un homme marqué par une image d'enfance.

Pensando a quel che sta succedendo, nelle ultime ore vedo solo una scena. A volte torna, sarà che da bambino mi colpì.
L'ispettore Rogas, poco prima della fine di Cadaveri eccellenti, si affaccia sul terrazzo, da un piano molto alto, e guarda la città. Nel libro quella scena non c'è. Francesco Rosi lavora su un'immagine topica del noir americano: il poliziotto più o meno integerrimo, l'investigatore privato più o meno integerrimo contempla "il contesto" dall'alto, in tutta la sua complessità. Questa complessità, questa "corruzione" è la sua, o perlomeno lui se ne fa carico e la comprende tutta, ergendosi quale redentore cristico: "È una sporca città, ma è la mia città".
Dal reticolato palermitano che si staglia sotto di sé, l'ispettore Rogas sente salire, sempre più forte, il rombo dei carri armati.



domenica 26 gennaio 2014

Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir LA STRADA GIUSTA

Ci vogliono sempre di qua o di là, o apocalittici o integrati. Noi no! Noi staremo sempre nella terra di mezzo, praticheremo la linea di frontiera.

Lo statement politico più aberrante del 2014.
A fine gennaio lo sprint di Nichi Vendola lascia di stucco gli elettori di sinistra ma riceve il plauso postumo di Zenone d'Elea. Nessuno infatti riuscirà a raggiungerlo: Vendola taglierà il traguardo nell'indifferenza generale e senza neppure un trofeo di plastica.
Alcuni forse si chiederanno: e chi saranno mai, questi apocalittici?
Ma le centinaia di milioni di naufraghi europei che da anni e anni aspettano risposte saranno consolate nel vedere il nostro nocchiero dal polso sicuro, a bordo di una zattera sul Rio Grande, mentre sprona la sua ciurma declamando Umberto Eco.


Salvo scoprire che non era il Rio Grande. Era un altro fiume, più a sud. Forse l'Aniene. Ma che importa. Jeder für sich und Gott che ne so.

sabato 18 gennaio 2014

Same player shoots again

"La partita di Berlusconi è finita, game over."

mercoledì 15 gennaio 2014

Lonely voices

Ieri dalla Gruber c'era Dario Franceschini.
Non ha risposto a nessuna domanda: su Napolitano, su Letta, su De Girolamo. Su nulla. Unico punto fermo: "il PD ha il diritto di interessarsi alla formazione di un nuovo centrodestra". Un tempo il PCI aveva "il senso dello Stato", si diceva: in realtà se lo attribuiva da solo, suonandosela e cantandosela grazie alle pratiche semicriminogene degli avversari (non erano solo pratiche, ma strutture ideologiche semicriminogene). Ora il PD è lo Stato tout court. E dall'alto della sua posizione di garante elargisce premi o punizioni ai due partiti rimasti. Li accudisce o li sermona come il cerusico o il parroco al capezzale del malato
È Massimo Bucchi elevato a live art e venduto da Guzzanti a TeleProboscide.
Questo pensavo ieri. Poi oggi l'ho letto scritto meglio.

sabato 11 gennaio 2014

Make 'em laugh Dieudonné

Dieudonné è davvero un comico mediocre ma quando oggi ha detto a proposito di Ariel Sharon: "Après une longue carrière militaire et politique, il a fait le choix de se tourner vers le dialogue avec les Palestiniens", confesso di essermi fatto una bella risata.
Lo so che è una castroneria ma Dieudonné non è mica uno storico, non è mica il Presidente della Repubblica francese.
È solo un comico.


lunedì 6 gennaio 2014

Risque potentiel de départ de feu

Esemplare l'odierna rete nazionale. Un'emorragia cerebrale funziona come carta moschicida del male. Lui da una parte, noi dall'altra: buoni per forza. Siamo gente perbene, pavlovianamente. Il male? Dopo millenni di ricerche lo abbiamo finalmente identificato: sono i grillini. Problema risolto, il nostro e il loro. Due piccioni con una fava. Conta solo il conforto del posizionamento*, il sollievo che ormai procura qualsiasi fenomeno, anche il più sinistro, soprattutto il più sinistro.
Infatti stasera c'era la partita di pallone.

* "Bouillon de Culture", France2, 10 settembre 1993.
Bernard Pivot: La phrase que Dieu vous dira après votre mort.
Jean-Luc Godard: C'est pas trop tôt, mettez-vous là.