domenica 29 gennaio 2023

mercoledì 25 gennaio 2023

sabato 7 gennaio 2023

The Banshees of Inisherin (Martin McDonagh, 2022)

In un passato non molto remoto i quattro fotogrammi che mostra questo post sarebbero stati scelti perché "memorabili" nell'immaginario – più o meno privato, più o meno collettivo – di uno spettatore. In un film sono le interpunzioni, in alcuni casi il vago equivalente della "rima": nel cinema narrativo erano ben presenti molto prima di Malick, per intenderci. Più o meno mascherati, ma presenti. Forse meglio se mascherati.
In The Banshees of Inisherin di Martin McDonagh, di cui si ricorda il discreto In Bruges e si dimentica senza fatica Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, queste immagini sono la sostanza del film. A fare da transizione, un attore bravissimo (Colin Farrell) si sposta da qui a lì per dire cose spesso ottuse o superflue a cinque altri attori altrettanto bravi. A volte ci sono variazioni, l'attore due parla con l'attore tre, l'attrice cinque con l'attore quattro. Ma la norma è che Farrell parla a questo o quella.
Nella trama di immagini composte, fabbricate, "forcément sublimes", questi momenti di dialogo devono esser parsi necessari al regista-sceneggiatore. Il punto di partenza del soggetto non è sgradevole: in uno spazio e in un tempo poco determinati un uomo decide senza apparente motivo di non voler più anche solo incrociare la vita dell'amico di sempre. Sembra un inedito kafkiano, un Kafka più segreto di "l'inferno dell'ufficio postale" a cui è stato ingiustamente ridotto, ma a McDonagh non basta, perché man mano quel postulato vuole riempirlo di senso. I tempi si precisano, lo spazio si riduce: è una metafora della guerra civile irlandese. I due amici sono le parti del conflitto, il poliziotto è l'Inghilterra (o il Potere?), non ho capito quale dei due amici sia protestante e quale cattolico, non capisco quasi mai le metafore, noto che ci sono ma non le capisco. Le scene in cui Farrell dice cose a un altro, o ascolta cose dette da un altro, sono fondamentali per imbastire la metafora, perché quando si dicono cose si usa il linguaggio e le metafore sono un prodotto del linguaggio, mentre quello cinematografico non è esattamente un linguaggio. Il cinema è solo una serie di immagini senza senso e direzioni particolari, purché siano splendide, e in fondo il loro splendore vacuo, quasi schiacciante nella sua costante insistenza, qualcosa ci dice dell'Irlanda, che è bellissima (l'ho letto da ragazzino su una guida del Lonely Planet) malgrado la sua Storia sanguinaria ma affascinante, misteriosa e del tutto incomprensibile.
McDonagh non si limita tuttavia alla ricostruzione di un'isola così com'era un secolo fa: chiede a Carter Burwell una musica rigorosamente estranea alle tradizioni irlandesi (scelta giustissima o del tutto arbitraria, chissà) e da acrobata di gusti & sapori, la sua è anche una riflessione dolceamara sul presente, per cui mette in bocca ai suoi attori lemmi completamente anacronistici (primo tra tutti "depressione"), e a un certo punto il personaggio femminile dice qualcosa tipo "voi maschi, sempre a fare i galli, sono stufa di voi maschi". Per quella cosa del patriarcato.

Scrivo questi appunti per ricordarmi qualcosa di questo film, un film bellissimo, il film per eccellenza che nessuna intelligenza artificiale riuscirebbe mai a pensare e realizzare, dove per "mai" si intende un lasso di tempo di circa due anni, un film di cui fra due giorni non ricorderò più nulla.




giovedì 5 gennaio 2023

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mercoledì 4 gennaio 2023

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lunedì 2 gennaio 2023

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