lunedì 28 aprile 2008

Cinemorgue e le duecentosettanta Ofelie

Non è che nei film americani la gente non morisse. Moriva male, in campo lungo, e il pubblico quasi non si rendeva conto dell’idea della morte. La morte, invece, deve rappresentare una reale paura, e può farlo soltanto attraverso l’evidenza fisica. Il personaggio che muore deve urlare, lo sparo deve essere amplificato, si deve vedere il sangue, si deve capire il danno provocato da un foro di pallottola.

Sergio Leone in un’intervista concessa a Francesco Mininni, autore di Sergio Leone (Edizione “Il Castoro”).



Né il sole né la morte si possono guardare fissamente.

La Roche-
foucauld, massima n° 26.




“La carne è triste, ahimé! e a parte
La corazzata Potëmkin ho visto tutti i film” pensa il malinconico cinefago mentre scorre sconsolato il programma televisivo della serata, gli scaffali un tempo ricolmi di VHS ora sostituite da DVD e DivX. Potrebbe leggere un libro, o uscire a farsi una pizza con gli amici. Troppo tardi, il suo stato non glielo permette. Perché a scanso di equivoci, la cinefagia può essere anche una degenerazione dell’antica e più sana cinefilia, un’obesa passione per lo schermo in sé. Cinematografico prima, quindi televisivo, infine — al di là, oltre i film stessi — informatico. Internet è l’ultima sala d’attesa. Il sito www.cinemorgue.com è il capolinea, la morfina del cinefago.


“Cinemorgue” è un sito interamente dedicato alla morte. La homepage è leggerissima. Due piccoli fotogrammi, uno di Kim Basinger, uno di Heather Graham (almeno era così fino a un paio d’anni fa, come vedremo più avanti, ora al posto della Graham c’è Michael Moriarty). Morte. Quindi 26 link: le lettere dell’alfabeto. Schedate per cognome, liste di attrici. Più di 5000 nomi. E per ogni attrice, una nuova pagina, con i titoli dei film in cui è morta, il nome del personaggio interpretato, le modalità del decesso, e un’immagine cruenta formato fototessera a mo’ di reperto probatorio.


Alcune attrici sembrano specializzate nella parte, la storia cimiteriale del cinema è fatta di stellette in formalina. Ad esempio Sybil Danning, procace diva del B-movie, caratterista del trapasso. Risulta ammazzata a 15 riprese: con un colpo di pistola ne La dama rossa uccide sette volte e ne Il giorno del cobra, con un’esplosione nei Magnifici sette dello spazio e nel sesto episodio della serie televisiva Visitors, con un pugnale ne L’ululato II e ne I sette magnifici gladiatori. Eccetera. In Kill Castro le cose si complicano. L’autore del sito si distingue per la precisione clinica, anche il becchino ha la sua deontologia: “Uccisa fuori campo (metodo esatto oscuro, probabilmente strangolata) durante una lotta con Marie-Louise Gassen. Vediamo solo l’inizio del combattimento, poi c’è un taglio di montaggio; quando torna la scena, vediamo Sybil riversa sulle scale mentre Marie-Louise fugge”. E dato che oltre alla Corazzata Potëmkin restano pur sempre alcuni film non visti, quando necessario l’autore non manca di confessare la propria ignoranza, con il verbo “reported”: in Nero veneziano, ad esempio, Olga Karlatos “muore per infarto secondo quanto riferito”. Segue il ringraziamento a chi gli ha fornito l’informazione, la “dritta” funebre: Highlander, David31, Germboygel, TravellingMan, Big O. Oppure si lancia in deduzioni azzardate: in tre versioni diverse di Anna Karenina, ad esempio, Sophie Marceau, Jacqueline Bisset e Claire Bloom si suicidano buttandosi sotto le ruote di un treno. E ogni volta, segue una parentesi: “Non ho visto questa versione, ma conosco la storia”. (Per la versione con Greta Garbo non c’è nessuna parentesi: sarà da quel film o dal romanzo di Tolstoj che Cinemorgue trae le proprie conclusioni ferroviarie?)


C’è anche un motore di ricerca, fonte di utili statistiche. L’arma da fuoco resta lo strumento più efficace: 1490 morte. Ma subito dopo ecco l’arma bianca: 888 pugnalate. E poi 478 strangolamenti, 255 roghi, 177 impiccagioni, 270 annegamenti. Il cinefago mira alla quantità, un’Ofelia non gli basta. Ne vuole 270.

Dal febbraio 2001, il sito è stato visitato più di un milione e mezzo di volte.


Due indizi lasciano intravedere la coda di paglia: qua e là, le dizioni “Alert: Nudity” o “Alert: Topless”, e la recente apertura di un sito dedicato agli uomini. Pudore incomprensibile, e velleità di par condicio sessuale. Uomini e donne tutti uguali, nel senso della livella. Viene da pensare alla memorabile battuta di Ghost Dog, quando il vecchio mafioso uccide la poliziotta e commenta: “L’hai voluta l’uguaglianza? Ecco l’uguaglianza”. (L’evocazione del titolo di Jim Jarmusch, assieme al precedente Dead Man, mi appare di colpo tutt’altro che casuale: è da mezzo secolo che il cinema migliore è un cinema post mortem, inutile star lì.)
L’autore non ama la confusione: il sesso è una cosa, la morte un’altra, non venite a seccarlo con Eros e Thanatos, quel film deve esserselo perso. Eppure quella per la morgue, con o senza cine, è da tempo una pulsione erotica di massa, lo ricordava Guido Ceronetti: “Uno degli spettacoli per famiglie, domenicali, era, nella Parigi del secolo XIX, la visita alla Morgue, dove erano esposti in grandi vetrine in cui era fatta scorrere dell’acqua i corpi degli assassinati, dei suicidi, degli annegati della settimana. Sulle vittime nude non erano stesi dei veli. I ragazzini si divertivano ad indicare le pose oscene assunte dalle spoglie femminili” (Passeggiando in compagnia del Male inafferrabile, “La Stampa”, 23 giugno 2005). E se Matador di Almodóvar non avallasse quella menzogna chiamata “psicologia” alla base di ogni melodramma che si rispetti, il protagonista sarebbe potuto non essere un serial killer e continuare indisturbato a fare quel che vediamo all’inizio del film, ossia masturbarsi davanti a Sei donne per l’assassino di Mario Bava (Mary Arden bruciata viva, Eva Bartok defenestrata, Claude Dantes annegata, Ariana Gorini pugnalata, Lea Lander soffocata con un cuscino, Francesca Ungaro strozzata).



La finzione della morte, meglio se violenta, è un gioco che fanno tutti i bambini. Ognuno di noi ha la sua personale antologia cinematografica, dove il film ritrova il
rigor mortis del fotogramma (il ragazzino che cade colpito da una pallottola, dice “Sono scivolato” e chiude gli occhi: C’era una volta in America di Sergio Leone, uno che sapeva far morire come Lumière comanda). Ma un’arte narrativa fatta solo di cuori che cessano di battere è una visione tautologica, più che riduttiva. La finzione sbocca sempre nella morte, è il suo destino, anche quando “vissero felici e contenti”. “E dopo cosa succede?” è la classica reazione puerile quando si chiude un libro o si riaccendono le luci in sala. La risposta la si scopre da grandi: “Non succede niente”. “The End” non vuol dire altro. (E forse la scomparsa della scritta da trent’anni, sostituita da interminabili titoli di coda, e la passione per serial televisivi che si protraggono per decenni sono sintomi di un infantilismo collettivo.) Così infatti Macedonio Fernández, presentando il suo straordinario Museo del Romanzo della Eterna (primo romanzo bello): “Nessuno muore in lui — pur essendo egli mortale — poiché ha capito che i personaggi, gente della fantasia, muoiono con lui al concludersi del racconto: è facile sterminarlo. Compito non necessario che si assumono gli autori con il rischio di dimenticare e ripetere la morte di qualcuno, di far spirare qua e là ogni protagonista come fa il sagrestano che va spegnendo le candele alla fine della messa, per non lasciare il pesce vivo senz’acqua, il ‘personaggio’ senza romanzo”.

Chi sarà mai, l’autore di Cinemorgue? uno strutturalista impazzito, affetto da tassonomia paranoica, come i personaggi dei film di Greenaway? un serial killer virtuale, che si aggira tra le nebbie della Whitechapel informatica pronto a sguainare cyber-lame? E se è Uno, Nessuno e Centomila (o un milione e mezzo), come si comporterà al momento di esalare l’ultimo sospiro? In tal caso, forse avrà l’onestà di inserire il proprio nome nel sito, imitando la sublime ironia di Pirandello, che alla fine di quel che definiva “involontario soggiorno sulla terra” si fece portare il registro dove amici e conoscenti avrebbero apposto il loro nome, per essere il primo a firmarlo.

giovedì 24 aprile 2008

Che hai detto, scusa?

L’altra sera parlo a un amico mio di un racconto di Tommaso Landolfi, “La passeggiata”, e lui subito (Dio mi guardi dagli amici...): “Me lo fotocopi la prossima volta?”. Ora io mi domando e dico: che sulla mia fronte c’è scritto “fotocopiatrice”? Sono pigro, fuori piove, non ho voglia di uscire e meno che mai di fotocopiare: il racconto ce l’ho in un tascabile della BUR (Tommaso Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino, pp. 490-492), e quei libretti se li apri troppo c’è il rischio che ti si sfaldino. Lo trascrivo, che si fa prima, e alla fotocopiatrice vacci tu.

TOMMASO LANDOLFI
La passeggiata

La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!…
Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
— Dove le porti?
— Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per loro.
— E il mivolo, o il gobbello?
— Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall’exoasco o dall’oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l’aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio… E c’era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l’empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!…
Alla fodina ormai l’acqua da tant’anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.
— O tu?… Beh, che si fa di bello al distendino?
— Uhm, poco di bello: il padrone s’è dato piuttosto alla moatra.
Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via…
— Già, — riprese, — da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le ingordine.
— Bravo davvero il tuo padrone!
— Mah, si sa bene, quando la s’infaona…
— E qui ora che ci fai?
— Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.
— Ah, ecco; e come…
— Coi prostomi e colle molleche, — rispose pronto.
Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s’ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.
Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v’era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all’ipartia… Quanti pensieri, quante fantasie m’invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d’una volta: “Inguala!”, e via per iciche, per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch’essa ormai perso la sua virtù?…
Ah, s’era fatto tardi: sull’afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull’atropa l’atropo, sull’agrostide l’agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s’udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.
— Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l’anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni cosa per sé solo.
Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.

lunedì 21 aprile 2008

Bamboccioni, chista gioventù...

Oggi hai sette anni. Ora sei un uomo. Seppellisci il tuo primo giocattolo e la foto di tua madre.
Nel deserto, El Topo (Alejandro Jodorowsky) impartisce ordini al figlioletto (Brontis Jodorowsky), completamente nudo a parte un cappello e un paio di mocassini in El Topo (Alejandro Jodorowsky, 1970).

L'emblema dei bamboccioni, non c'è dubbio, è la trilogia del Padrino, gran saga dei bamboccioni sulla famiglia bambocciona per eccellenza, delirante biografia di un bamboccione che vorrebbe andar via di casa ma non può (e sotto sotto, non vuole, perché è proprio un bamboccione). Logica opera del regista più bamboccione della storia del cinema, coll'ossessione di restare bamboccioni, di tornare ad esser bamboccioni, di non cessar mai di esser bamboccioni: Jack, Peggy Sue, Zoé, tutti quei bamboccioni della cinquantaseiesima strada, i Rusty James, e non torno a casa stasera, e you're a big boy now. Ah, youth without youth... E la figlia lo ha capito, che il target è quello, con la sua trilogia delle bamboccione, bamboccione provinciali, spaesate, coronate; bamboccione fino al limite estremo, fino al cuore di tenebra, fino all'apocalypse now, magari a Tokyo piuttosto che a Saigon (merda, sono ancora un bamboccione...), bamboccione fino al suicidio, alla decapitazione, con teste di bamboccione penzolanti, rotolanti...
E allora, il giovane don Vito, se gli hanno ammazzato la mamma, come può continuare a fare il bamboccione, dato che di mamma — lo sanno tutti i bamboccioni — ce n'è una sola? Va a teatro a broccolìn a vedere una napoletanata e a un certo punto che ti fa l'attore, bamboccione mélo? Si mette a cantare una roba che manco a farlo apposta (cioè facendolo appostissima, per il pubblico bamboccione che costruirà questo grande impero bamboccione che si chiama iuessei) si intitola "Senza mamma". E poi la rete, piena di informazioni, grassa di blog (che sono l'ultima, disperata spiaggia dei bamboccioni moderni) ti spiega che "Senza mamma" l'ha scritta tale Pennino, e che tale Pennino era nientemeno che il nonno della mamma di Coppola. Ah! La mamma! Il nonno! La zia! La pappa! Bamboccioni!
senzamamma.mp3

venerdì 18 aprile 2008

Bistecche

La porcona Milena Busi, fiorentina doc, come la bistecca, ama farsi degustare molto al sangue. Per lei e le altre ninfomani Kristal, Valentina e Nikky sono pronti dei veri stalloni italiani.
Riassunto trovato in rete di A piedi nudi sul porco (Marzio Tangeri, 2003).


martedì 15 aprile 2008

Un risveglio


Hai mai beccato cinquecento pugni in faccia a sera? Irrita la pelle, dopo un po’.

Rocky Balboa (Sylvester Stallone) in Rocky II (Sylvester Stallone, 1979).

Ricordo che nei Blues Brothers la prima prova della band ritrovata, Jake & Elwood la danno in un localaccio di buzzurri, hanno appena il tempo di accennare un rythm'n'blues e allora capiscono perché il podio è circondato da una grata d'acciaio: serve a proteggerli dai lanci di bottiglie di birra. Allora la buttano su “Rawhide”, Elwood canta ma Jake è scazzato, fa lo sciopero dell'ugola, si limita a urlare la metà dei recitativi (head'em up! move 'em out! ride 'em in!), afferra una frusta e si diverte (si fa per dire, Belushi non ha mai riso, che io sappia, era un Keaton “Busted”, l'amico ciccio che avremmo tutti voluto avere, pace, sarà per un'altra vita) a far schizzare le cicche dalle labbra della platea coatta. Ormai coi lacrimoni agli occhi, perché i nostri son passati a “Stand By Your Man” e in fondo i cowboys dell'Illinois non sono cattivi, sono solo un po' scemi.
Insomma, il country non è il mio forte, ma mi piace anche l'inizio di Città amara con quell'attacco di chitarra che s'interrompe nella stanza di Stacy Keach, alzarsi dal letto la mattina è una faticaccia, quando la notte di cazzotti presi e di whisky incassati dura da una vita e non c'è nessuno che ti aiuti ad attraversarla, to make it through è una bell'espressione, persino infilarsi un pedalino è un'impresa, ed è proprio con Keach marcio alle prese con un pedalino che la musica riprende e si scopre che è una canzone perché stavolta c'è pure la voce di Kris Kristofferson. No, Kristofferson no! dirai tu. E invece sì, primo perché qui decido io, mica siamo in democrazia. Secondo perché tu ridi, ma Kristofferson almeno due meriti li ha. Ha una filmografia che alterna capolavori (I cancelli del cielo, Stella solitaria, Pat Garrett e Billy the Kid “director's cut”, Voglio la testa di Garcia), e film simpatici (Convoy — Trincea d'asfalto). E poi ha un fisico verosimile, nel senso che nella parte del “maschio cui nessuna femmina direbbe di no” è credibile, mentre se mi mostrano Keanu Reeves no, non ci credo, I don't buy it, come direbbero i cowboys dell'Illinois, che sono un po' scemi ma almeno non sono cattivi, in fondo.
E poi Keach esce dall'appartamento muffo, alla fine è riuscito pure a vestirsi, scende le scale, attraversa l'androne e si trova per strada (fuori c'è un sole che sembra prenderti per il culo, come si permette), e dietro di lui c'è la facciata hopperiana a mattoni rossi del palazzo. Uscire di casa è un atto di eroismo, roba da tough guys, ti spompa tutte le energie. Infatti Keach si ferma lì un attimo. Per riprender fiato e anche per chiedersi perché cazzo è uscito, prima o poi nella vita quella dannata domanda tocca farsela. Ah, già. L'allenamento in palestra. Lo sapevo che mi ero dimenticato qualcosa. Uffa. Keach si rituffa nell'androne buio, ancora la puzza di alcool e sigarette, ancora le scale, ancora l'appartamento, dove cazzo sta quella maledetta borsa coi guantoni e i calzoncini che ormai mi stanno pure stretti, where the fuck, sposta le bottiglie vuote, solleva la coperta caduta per terra, ah eccola. Ora possiamo andare. Forse. Però che bell'inizio, Fat City.



P.S.: Sì, lo vedo anch'io che la facciata non è di mattoni rossi, non sono mica cieco. Però è di mattoni rossi: “Di Benjamin Péret ammiravo la varietà dei punti di vista. Come sapeva ricreare la realtà! I ciechi, per esempio. Péret scrisse: ‘Non è forse vero che la mortadella è fatta dai ciechi?’. Accidenti, che incredibile precisione! So benissimo che i ciechi non fanno la mortadella. Però la fanno. Li si può vedere mentre la fanno” (Luis Buñuel).

sabato 12 aprile 2008

Delusione, stanchezza e assuefazione

1978-2008: trent'anni di storia italiana.













giovedì 10 aprile 2008

Tutta cromata, è tua se dici sì

God, I hate rock and roll.
Leigh Cabot (Alexandra Paul): ultime parole di Christine (John Carpenter, 1983).



Christine è un film minore di John Carpenter che ho visto tante volte, perché un film minore di Carpenter è sempre meglio di una retrospettiva integrale di Cristina Comencini, di cui parleremo un'altro giorno perché adesso parliamo di Christine e non di Cristina. John Carpenter ha fatto capolavori, ha fatto cose minori, ha fatto marchette, ha fatto robe con la mano sinistra. Ma non ha mai — mai — fatto un brutto film. Non è che gli manchi la volontà, con Starman ad esempio ce l'ha messa tutta, è solo che non è capace, tutto qua. Un'idea di cinema, foss'anche un'ideuzza, ce la deve mettere sempre, per forza.
Qui si trovava tra le mani un romanzo di Stephen King neanche tanto male (id est un romanzo breve), con una furbata tipica di King quando era ancora in forma. Prendi un'idea vecchia come il mondo, il trito castello stregato appollaiato in cima all'annosa collina, residuo di tempi bui, antipositivisti, preindustriali. Trasformalo in una Plymouth Fury modello 1958, rosso fiammante. Gira la chiavetta. Vavavuma.
(In questo senso, Christine è l'adattamento americano, ossia la versione narrativa, della DS Citroën di Barthes, qui giustamente in chiave rétro — dato che son passati più di vent'anni, e la coppia tecnologia e progresso è come minimo separata in casa: un "Mito d'oggi". Vale a dire un mito di ieri.)
Carpenter è reduce dal suo "Heaven's Gate", The Thing, un flop colossale (e, a scanso di equivoci, un grandissimo film). Per lui la pacchia è durata pochissimo (meglio, così tornare a fare b-movie gli è stato più facile che ad altri). Di questa storia gliene frega relativamente, credo, spera solo di farci qualche soldo. Al fascino della carrozzeria cromata conferisce una componente sessuale più diretta che nel libro: la cosa gli riesce meglio che a Cronenberg in Crash perché sa che l'accoppiata sesso-lamiera non è proprio il massimo dell'originalità, non è il caso di perderci troppo tempo. Ma qui il vero Carpenter's touch sta nell'uso del soundtrack. Carpenter la musica la conosce. Soprattutto il rock (comprese le varianti heavy metal), e la musica di film: le compone quasi sempre lui, a volte con Alan Howarth, e il Main Theme di Halloween vale la doccia fredda di Herrmann in Psycho. Su The Thing non aveva il tempo, suppongo, quindi ha chiamato Morricone, e se ricordate il film la cosa che colpisce è che Morricone ha composto una musica "alla Carpenter". Segno che Carpenter non è il primo venuto. Comunque, l'ideuzza cinematografica di Christine è tutta lì. Fin dai titoli di testa, anno 1958, nell'officina dove escono le macchine nuove, tra cui "lei", Bad to the Bone (George Thorogood and The Destroyers): "On the day I was born, the nurses all gathered 'round / And they gazed in wide wonder, at the joy they had found / The head nurse spoke up, and she said leave this one alone / She could tell right away, that I was bad to the bone". Così si comincia un film, cazzo, senza barare, senza tentennamenti, chiaro e tondo, "She was born bad. Plain and simple", avverte il poster originale: bad to the bone e poche storie (in francese si direbbe che Carpenter è un regista "brut de décoffrage", che suona bene anche per un'automobile appena uscita dall'officina). E infatti, Christine nasce e ne pianta già di tutti i colori (con una preferenza per il rosso). Restiamo ancora nell'officina, per la dissolvenza c'è ancora tempo. Not Fade Away, non lo dico io, ma Buddy Holly. Ecco, ora possiamo uscire fuori: la solita stradina di Sobborgomerdosomiddleclass, USA, una "bella giornata di sole". Not Fade Away: ma stavolta non è più Buddy Holly, bensì Tanya Tucker. Il che significa che dal '58 è passato un quarto di secolo. Sono stato chiaro? Si prende uno standard, si incollano senza soluzione di continuità due versioni diverse, e nell'arco di un singolo tune passano venticinque anni. Sembra un'invenzione a tavolino (di missaggio), ma sullo schermo funziona, eccome se funziona. E l'aggancio sonoro è fatto così bene che probabilmente la maggior parte degli spettatori nemmeno se ne accorge, ma Carpenter se ne fotte, i film non li fa per gli spettatori, li fa per me e basta, è per questo che mi piace Carpenter. Io il film lo vidi a dodici anni, quando hai dodici anni sei suscettibile, e ti fa piacere vedere un film fatto da un signore che non ti prende per fesso. Che pensa che i fessi sono gli altri. Oggi di anni ne ho trentasei e al cinema vedo quasi sempre film fatti per gli altri. Film per i fessi.

Il cuore di Christine (intesa come film, come Plymouth, e come macchina celibe, dato che in fin dei conti gli uomini non li sposa, li sucks come Mae West o il Vietnam di Kubrick) è la sua autoradio. Christine viene sfasciata mille volte, si schianta, va in fiamme, parabrezza sfondato, motore e fili elettrici intorcinati. Un sosia di Travolta — omaggio a Carrie, non c'è dubbio — le caca persino sul sedile. Eccola, carcassa fumante, con tutti i vetri infranti, le gomme a terra. Carpenter verifica, come un medico legale: infila la cinepresa-stetoscopio proprio al centro dell'organismo, tra le costole (volante-sterzo-posacenere). La FM si accende. Vavavuma.
Il cuore della Plymouth pompa ancora, e nelle vene di Christine scorre rock and roll. Rock fifties, esclusivamente: oldies but goodies, ossia buon sangue non mente. È un fatto genetico, come i capelli neri delle ragazze meridionali o le macchie sulla pelle. Non è cattiva, Christine: è solo che è stata designed così. Roba tosta, generazione '58. E allora quel che in qualsiasi altro film sarebbe un'idea pacchiana, infantile, in un film di Carpenter diventa genio artigianale (che non esclude né pacchia né infanzia): perché Christine con quella musica parla. Quando il vecchio porco del garage vuole ficcare il naso nella carrozzeria (ossia ficcare altro in altro) lei lo sfancula: "Keep a knockin', but you can't come in / Keep a knockin', but you can't come in" (Keep a knockin', Little Richard). Quando alla fine il suo giovane proprietario Arnie Cunningham attraversa il parabrezza e agonizza con un pezzo di vetro piantato in pancia, lei strilla come una mamma siciliana: "Forever my darling our love will be true / Always and forever I’ll love only you / Just promise me darling your love in return / May this fire in my soul dear forever burn" (Pledging My Love, Johnny Ace). E quando finalmente viene ridotta a un mucchio di ferro per lo sfasciacarrozze, minaccia e promette "Rock 'n roll is here to stay, / it will never die / It was meant to be that way, / though I don't know why" (Rock & Roll Is Here to Stay, Danny & The Juniors). Ultima immagine: Christine nella discarica, come Marilyn Chambers nel film di quello là quando faceva ancora film seri. Ridotta a un cubo di metallo, inerte groviglio di rabbia. La cinepresa si allontana lentamente, stavolta è finita davvero, poi Carpenter dice alt ragazzi, un momento, verifichiamo un'ultima volta l'elettroencefalogramma di questa puttana. Intuizione professionale. Un pezzettino di lamiera si sposta impercettibilmente. Risuona l'attacco di Bad to the Bone. Dev'essere solo un riflesso nervoso. Capita, a volte. End Credits.


Stavolta, quando ho rivisto Christine (un film minore, ripeto), a colpirmi è stato proprio questo: non è un film su una macchina stregata, quello è un gimmick. Non è una storia di passione erotica, quella è una banalità. Non è neppure un musical, in fondo. È un film sulla musica, e più precisamente un film sul rock, forse il migliore che sia mai stato fatto. Perché è fatto da uno che il rock lo conosce a menadito, nel ’58 aveva dieci anni, con quella musica è cresciuto, è grazie a quella roba (mischiata con Hawks, un cocktail per fegati a prova di bomba, altro che happy hour) che ha fatto i film che ha fatto mandando a quel paese il suo paese. E perché è fatto da uno che sa che quell'epoca è finita, che il rimpianto dei "good ol' times" può trasudare fascismo, oltre che benzina, che Christine ormai è solo una madre-Urano che divora i propri figli, altro che contestazione e fight the power. Che se Christine sente esclusivamente rock '58, un po' lo fa perché è cool, perché è "fica", un po' perché è reazionaria. Non è grave. Basta saperlo.

P.S.: Basta saperlo che uno dei passatempi preferiti a Guantanamo è prendere un terrorista di Al-Qaida (si riconoscono dal fatto che hanno la barba lunga), chiuderlo in una cella completamente vuota, completamente buia, senz'alcuna aerazione (a Cuba può fare molto caldo), metterlo accovacciato in posizione da cesso turco, con le mani ammanettate dietro le caviglie e una catena che lega il tutto a un pesante anello inchiodato al suolo. Lo lasciano lì così, a volte per sei ore. Con musica heavy metal a tutto volume, roba tosta, da farti scoppiare la testa.

lunedì 7 aprile 2008

venerdì 4 aprile 2008

Orgoglio e dignità

Lei vuole diventare Gianni Agnelli o Alain Delon? Sa cosa le rispondo io?! SÌ, CERTAMENTE! Certamente. Perché loro c’hanno tutto! C’hanno le donne, e c’hanno la ricchezza, e c’hanno la bellezza, e la salute, e poi c’hanno le chiavi per gli appartamenti, e i pianoforti, e le casseforti, e le cassate, e le gazzose, e le casse dello sciampagne, e le casse da morto, e un cazzo che c’ho io guarda un po’ se è diversa la situazione sì o no? Sì o no?!
Un pazzo (Marco Messeri) in Ricomincio da tre (Massimo Troisi, 1981).




giovedì 3 aprile 2008

Un pompelmo e un panino*

pompino.jpg

Uno shining di Wendy Torrance. La visione è un triplo inganno, un monolito erotico (un pornolito, calemboureggerebbe forse un D.I.O. burlone).
1) Ambiguità sessuale: non è dato sapere se sotto la maschera ci sia un uomo o una donna (a meno che, ed è lecito, non si consideri l’orrenda tautologia: una persona mascherata da bestia è una bestia).
2) Fellatio impossibile: la maschera non offre aperture sufficienti per infilare quella cosaccia in bocca. È un atto sessuale rappresentato, non effettivo, come in una rapida immagine dell’orgia in Eyes Wide Shut, dove sarà il cunnilingus a essere scimmiottato (se si escludono lingue chilometriche alla Mick Jagger) da un uomo in maschera. Ma rappresentato per quali “eyes”, allora?
3) Zoofilia fantastica: quando solleva la bocca dal fiero pasto, questo mostruoso incrocio tra Winnie the Pooh e il conte Ugolino, tutto affaccendato a ripetere in eterno un atto orale simulato (la vita dei fantasmi è una noia immortale) si volta verso di noi, e quel che vediamo è un animale chimerico, metà cinghiale, metà orso.

*Ovvero, per i francofoni, “Ceci n’est pas une pipe”.

mercoledì 2 aprile 2008

Una lettera d'amore

Ti mando una lettera d’amore. Scritta col cuore, stronzo! Lo sai cos’è una lettera d’amore? È una pallottola della mia fottuta pistola, stronzo! Ricevi una lettera d’amore da me e sei fottuto per sempre! Hai capito bene, stronzo? Ti spedisco dritto all’inferno, stronzo!… Nei sogni, io cammino insieme a te. Nei sogni, io parlo con te. Nei sogni, sei mio. Per sempre. Nei sogni…
Ispirato da “In dreams”, la dolcissima canzone di Roy Orbison, Frank Booth (Dennis Hopper) spiega a Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan) cos’è una lettera d’amore in Velluto blu (David Lynch, 1985).


martedì 1 aprile 2008

Rio Bravo, cioè Rio Grande, cioè Rio Bravo, cioè insomma.


I Sons of the Pioneers appaiono in Rio Bravo, cioè Rio Grande, e non Rio Bravo, che è Un dollaro d'onore ed è di Hawks, mentre Rio Grande (cioè Rio Bravo) è di Ford e questa bistecca è mia, Valance. La cavalleria bivacca e quelli spuntano da chissà dove e si mettono a spingere la canzoncina (pousser la chansonnette, mi piace l'espressione francese, che ce posso fa'). Secondo me l'unico western in cui un momento musicale si integra perfettamente con l'azione resta Rio Bravo, quello di Hawks (ma in Hawks, e in particolare in quel film, tutto si integra perfettamente, è un cinema performativo, finché c'è vita c'è cinema e viceversa) e non Rio Bravo di Ford, che infatti si chiama Rio Grande. Non ci si bagna mai due volte nello stesso film, e infatti Rio Bravo e Rio Grande sono lo stesso fiume, ma non lo stesso film. E tutto questo ci porta al vecchio Drugo, che infatti non si chiama Drugo ma Dude, come Dean Martin in Rio Bravo, quello con John Wayne ma non quello di Ford. E anche se tumbleweed è intraducibile, è proprio con i figli dei pionieri che si apre Il grande Lebowski, è una bella canzoncina spinta dal vento (mais faudrait pas trop pousser, tout de même), precisa e confusa come un tumbleweed, e si integra perfettamente con l'azione del film, tanto in quel film nulla si integra perfettamente, è un cinema post performativo, finché c'è cinema c'è cinema e viceversa e va bene così.