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domenica 17 marzo 2024
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sabato 7 dicembre 2019
Ad Astra (James Gray, 2019)
Mi si è fatto notare che quando in un post su facebook facevo una battuta su James Gray che mi ruba l'idea del "noi siamo soli", è lo stesso regista a rivelare che l'idea era di Clarke: "There’s a quote by Arthur C. Clarke where he said either we’re not alone in the universe or we are and both notions are equally terrifying. So all of this went into the movie and the action beats really were an attempt only to illuminate and expand upon these ideas". Dando per scontato che il mio era fin dall'inizio uno scherzo, appena ho letto la citazione essa mi è suonata familiare: il fatto che l'abbia espressa in termini praticamente identici non lascia dubbi, l'avevo digerita a tal punto da essere convinto che fosse un'idea mia. Costruire un film su una simile idea è praticamente impossibile, mi si fa anche giustamente osservare: non puoi provare scientificamente l'inesistenza di qualcosa (e in Ad Astra infatti non succede esattamente questo: il film si limita a suggerirlo). Verissimo: ma proprio per questo è efficace. Se riesci a far funzionare sullo schermo (o sulla pagina) un'idea che nella realtà e nella logica non funziona, hai svoltato. Provocatoriamente: hai svoltato ancor più che se fai una storia in cui "noi non siamo soli".
Partendo proprio dall'idea di Clarke, si potrebbe dire che il punto del film non è comunque quello. Il problema di Gray forse è che il punto non è mai "questo" o "quello", senza che l'assenza di punto ti coinvolga veramente, oppure il punto c'è ma si riduce al "grosso tema" (la famiglia, padre-figlio, fratelli, ecc.), su cui Gray non riesce mai fino in fondo a dire qualcosa di essenziale o indispensabile, sembra ricamarci sopra più o meno bene (per esempio in We Own the Night meglio che in The Yards, in The Yards meglio che in Little Odessa, una messa a fuoco durata 15 anni, non sgradevole ma un po' sfiancante, dello stesso film), come se forse anche quello, in fondo, non fosse "il punto". Anche le citazioni più disparate non riescono a trovare una loro coerenza interna, si passa da Mad Max a 2001 e poi li si abbandona, la voce over di Brad Pitt è un po' Malick, un po' Blade Runner, un po' Apocalypse Now e incomprensibilmente un po' pura didascalia (Brad Pitt si prepara mettiamo un piatto di maccheroni burro e parmigiano e poi si sente la voce di Brad Pitt che con un tono californian-metafisico dice "Mi sto preparando un piatto di maccheroni burro e parmigiano"). Tra tutti, quello di Apocalypse Now è il riferimento più pesante, a volte il film assume le sembianze del pacchiano remake, simile a (ma non complice di, che lo renderebbe molto più simpatico) onestissime mezze ciofeche b-movie tipo Enemy Mine di Petersen che trasferiva nello spazio Duello nel Pacifico di John Boorman con un alieno di latex al posto di Toshiro Mifune. Segno che la fantascienza è più uno spazio (spesso degradato e finto) che un genere, un po' come il western, di cui certa fantascienza è un chiaro tentativo di farne rivivere i fasti, vedi appunto la parte alla Mad Max con la sparatoria sulla Luna con i pirati ecc. ecc., ma anche queste son tutte cose che sappiamo da sempre e alle quali Gray non solo aggiunge poco ma anzi sembra non volerci neppure provare, al massimo forse strizzare un pigro occhietto allo spettatore, come se volesse dirci che appunto son cose a noi tutte note da sempre e comunque "il punto non è quello", ma quale sia non si sa.
L'altro elemento che forse giustifica il prono appiattirsi su Apocalypse Now potrebbe essere quello di stabilire una giunzione con Lost City of Z, anche lì in cerca di un'autogiustificazione un po' raffazzonata della coerenza di un'opera "personale", laddove The Lost City of Z era un calco ancora più superfluo di Aguirre, film che a sua volta era il principale punto di riferimento di Coppola.
sabato 21 settembre 2019
Tarantino/Kubrick (note sparse su "C'era una volta a… Hollywood")
Visto Once Upon a Time in… Hollywood di Quentin Tarantino, prima reazione a caldo.
Mi viene in mente il paragone con l'altro "grosso grasso capolavorone" dell'estate, Parasite di Joon-ho Bong. Passata la sorpresa spiazzante di Memories of Murder e The Host, in cui i cambiamenti continui di tono e i tempi imprevedibili del racconto potevano sembrare felicissimi e geniali tentennamenti, appare chiaro oggi che si trattava di controllo sovrano, che si dispiega in Parasite per il nostro piacere sempre rinnovato, in cui le contraddizioni del "film di famiglia svitatella" da L'eterna illusione di Frank Capra a Non aprite quella porta di Tobe Hooper passando per i Passaguai o per tanti film con Totò e magari il fu Delle Piane figlio, si susseguono autoannullandosi e sempre squisitamente leggibili da tutti, assieme a organizzazioni dello spazio degne di tesi di dottorato tardive di un Rohmer e alla loro corrispondenza politica, come nel "cinema di metafora" anni 70, il tutto imprevedibile, controllatissimo, "moderno", in una parola: perfetto.
Il film di Tarantino non è perfetto, come non è perfetta la sua opera. Siccome in Italia esce solo domani, la scusa nobile del "no spoiler" mi esime dal precisare in che modo non è perfetto, ma noto che anche in questo caso colpisce la struttura infantile o per meglio dire primitiva "a blocchi", direttamente ereditata da Kubrick, regista di cui si tramanda un'errata idea di "perfezione" quando in realtà era un giocatore d'azzardo. Ancora una volta, Tarantino gioca d'azzardo, alla roulette punta su un numero singolo, mentre Bong (volendo proseguire il paragone del tutto privato, me ne rendo conto) punta sul rosso (in Corea) e sul nero (nel mondo) al contempo e a rischio zero. Bong vince due volte, forse un po' barando; Kubrick e Tarantino fanno cinema.
***
Alla fine di 2001: Odissea nello spazio Dave Bowman (Keir Dullea) accede a una nuova dimensione della propria esistenza entrando in un luminosissimo appartamento che entità aliene hanno creato a immagine e somiglianza del suo inquilino, un appartamento che aspettava solo la sua inevitabile presenza.
Alla fine di C'era una volta a… Hollywood Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) accede a una nuova dimensione della propria non-esistenza entrando nel buio di una "mansion" popolata da esseri viventi per pura finzione, una mansion che non si è mai aspettata e mai si aspetterà l'impossibile presenza di Rick Dalton.
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[Su facebook mi si fa notare "la scena del ranch dove le ragazze sembrano gli uccelli (bird in slang è proprio la pollastrella) di Hitchcock"]
Agli Uccelli ho pensato anche in altri momenti del film, l'apparizione puntuale delle ragazze, le scene con Sharon Tate, sono anche promesse fatte da Tarantino allo spettatore, "Sì sì, tranquilli, lo so che siete venuti per questo": proprio come in Hitchcock per la prima metà del film. E proprio all'inizio della nottata finale in televisione un annunciatore: "E ora il momento che stavate tutti aspettando!". Nella scena del ranch c'è anche molto dell'horror anni Settanta, i primi Craven, Tobe Hooper, Romero, Carpenter. Tutto un cinema che comunque proprio agli Uccelli deve molto, in particolare La notte dei morti viventi (si dice che un giovanissimo Romero portasse i caffè sul set di Hitchcock). In generale mi pare che Di Caprio copra il cinema di fine Cinquanta, Sessanta, e che nella sequenza "western-amletica" prefiguri la recitazione che verrà nell'immediato futuro, quella di un Al Pacino chiamato ad attestarne la realtà e al contempo a nasconderla in due scene interpretate a contropelo, quasi sottotono. Brad Pitt invece sembra portarsi appresso, del tutto ignaro, un cinema ancora più lontano nell'avvenire, più brutale, appunto quello dell'horror di qualche anno più avanti: ma non dimentichiamo che La notte di Romero era comunque uscita un anno prima e che Gli uccelli sono del 1963.
lunedì 8 maggio 2017
No More Mr. Nice Guy: Macron al Louvre
– I expected someone like you. What did you expect? Are you an assassin?
– I'm a soldier.
– You're neither. You're an errand boy, sent by grocery clerks, to collect a bill.
– I'm a soldier.
– You're neither. You're an errand boy, sent by grocery clerks, to collect a bill.
Ai francesi non è stato concesso neppure un giorno di tregua.
Ieri sera, nella messinscena del Louvre, il frastornante "Inno alla gioia" era un trattamento Ludovico imposto a tutta una nazione: il vostro No espresso alla luce del giorno al fascismo di Le Pen si è tramutato al calare del sole in un Sì alla "Costituzione" europea che avevate rigettato nel 2005. "Statece": inchiodati davanti alla tv, con gli occhi sbarrati e il volume a manetta.
La strana camminata – dalla lentezza troppo a scatti per essere ieratica ma priva di umorismo montypythonesco – di una silhouette sfacciatamente bassa compensata da un'ombra sfacciatamente lunga, dove tutti hanno visto Napoleone e forse solo io il William Harford di Eyes Wide Shut cui si aprono finalmente none porte della Legge grazie a un "Fidelio" assegnato a forza da milioni di elettori.
Il volto lunare del prescelto e l'apice di una piramide divina in congiunzione astrale e perfettamente simmetrica ottenuta grazie a un'angolatura dal basso e centrale.
Il tutto in un'oscurità cosmica, nel buio notturno di un ritorno allo spazio riservato ai re, ai tempi in cui torpide Lady Lyndon firmavano assegni a rampanti avventurieri.
Chiaro: non fosse morto, riconosceremmo subito il regista di queste immagini. È lo stesso che girò lo sbarco sulla Luna.
Invece la messinscena è firmata dai comunicatori della campagna di Macron. A un certo punto anche i canali televisivi francesi si sono sentiti in dovere di dare l'informazione, con un brevissimo sottotitolo: "that's entertainment".
È come se i registi dell'incoronazione di Emmanuel Macron avessero avuto un'intuizione. Il nostro candidato viene attaccato come l'uomo dei banchieri, della mano invisibile del potere, del falso, della massoneria, dei produttori di Armstrong che a scatti poggia il piede sulla Luna in uno studio hollywoodiano.
Allora noi li prendiamo in contropiede. Li mandiamo in cortocircuito: eccolo, il caro vecchio Ludwig Van; eccola, l'orgia misterica di tutti i Palazzi della finanza; eccola, l'alba dell'umanità; eccola, la notte di tutte le Républiques. E quindi li lasciamo "radicalizzarsi": la massoneria, la piramide, Dio, la Luna, il dito, la notte, la moglie anziana, il tizio con il berretto, Beethoven. Si facciano esplodere in rete.
Una novità: in analoghe messinscene recenti, i personaggi e i canovacci comportavano sempre una componente comica, la battuta, "l'ironia" d'ordinanza, a volte la "simpatica" cialtronaggine, nella peggiore delle ipotesi il ghigno. Il film Macron al Louvre è plumbeo, è il "No more mister Nice Guy" di un horror di Wes Craven che lo psicopatico "fritto" sulla sedia elettrica minacciava sarcastico al mondo intero: prima di reincarnarsi, complice la rete elettrica, su tutti i televisori domestici. È stato invece paragonato nelle ultime ventiquattr'ore a Mitterrand al Panthéon (regia di Serge Moati), ma stranamente non ho sentito nessuno che ricordasse cosa ci facesse nel 1981 il presidente neoeletto al mausoleo: andava a raccogliersi davanti alla tomba di Jean Moulin. Tra Mitterrand e il "sacro" c'era una storia precisa. La storia raccontata dal film era falsa, come si scoprì negli anni, ma qualcosa in quel preciso momento raccontava. Tra Macron e la Piramide non c'è alcuna storia: una pagina bianca. O meglio, riempita di simboli decapitati (i re) o fasulli (icone date in pasto ai complottisti).
Vivo da quarant'anni a Parigi, uno spettacolo così sinistro non l'ho mai visto in tutta la storia politica francese.
Un giorno, a bocce ferme, accantonati i codici Da Vinci e dando per scontato l'allunaggio, di questa oscenità spero che si potrà parlare.
– They told me that you had gone totally insane, and that your methods were unsound.
– Are my methods unsound?
– I don't see any method at all, sir.
venerdì 13 giugno 2014
Le tombeau de Stanley Kubrick (la versione di Mike Leigh)
Alla morte di Kubrick, la rivista francese "Positif" (n° 464, ottobre 1999) ebbe l'ottima idea di fare a 48 registi due domande:
1. Quel est, selon vous, l'apport de Stanley Kubrick au cinéma ?
2. A quel film de Stanley Kubrick êtes-vous le plus attaché et pourquoi ?
Dei 48 ricordo solo Mike Leigh, uno dei più prolissi. Forse perché una cosa del genere non l'avrei mai scritta. Forse avrei scritto una cosa peggiore, o migliore; ma non quella e di certo non così.
Ci penso solo ora: Mike Leigh non fa film per me. Li fa per qualcun altro. Non so chi sia, quel qualcun altro, so solo che non è un cretino. Sarà per questo che Mike Leigh mi è sempre piaciuto.
Ci penso solo ora: Mike Leigh non fa film per me. Li fa per qualcun altro. Non so chi sia, quel qualcun altro, so solo che non è un cretino. Sarà per questo che Mike Leigh mi è sempre piaciuto.
Settimane fa volevo mostrare a un amico della rete quel che Leigh aveva scritto di Kubrick, ma in rete il testo non si trova.
Ora sì.
1. Stanley Kubrick est le plus grand humoriste du cinéma. Son humour n'est pas seulement "noir", comme on le dit souvent, c'est le sourire de l'humanité, le sourire mi-figue mi-raisin qui ne peut venir que d'une inquiétude profonde pour la fragilité de l'existence. Ce n'est pas un humour qui est consciemment forgé, ni le fruit d'une habileté acquise, ni un procédé utilisé à l'occasion dans certaines situations. Ce n'est pas non plus un moyen pour détendre l'atmosphère. Kubrick est un humoriste incontournable, un farceur profond qui ne peut s'empêcher de trouver de l'humour en chaque chose. Sa capacité à nous faire rire, au cœur des moments les plus douloureux, est rare au cinéma.
Il ne peut résister à l'idée d'une plaisanterie, mais ses plaisanteries, jamais gratuites et toujours organiques, ne sont pas séparables de l'événement. Et, parce qu'il avait le courage d'être vraiment créatif pendant le tournage, se donnant le temps et l'espace pour développer et improviser quelle qu'ait été la préparation minutieuse de la scène, son humour était toujours vivant et spontané.
Parfois, il avait de bonnes raisons pour nous heurter de plein fouet avec son humour mais, le plus souvent, il évite le trait évident et la touche comique gît subtilement et implicitement sous la surface, se glisse lentement vers vous, sans que vous ne vous en rendiez compte et au moment où vous vous y attendez le moins.
Ce maître de l'ironie a été élevé à New York et a commencé à gagner sa vie comme photographe. Par nature, il porte un regard dur, impassible et prolongé sur les situations, demeurant à la fois compatissant et détaché, mais n'oubliant jamais le côté comique. Cela ne peut venir que de son premier métier. Il y a peut-être aussi quelque chose de juif dans cette manière tragi-comique de prendre la vie.
Si Kubrick trouve de l'humour dans le monde réel, c'est celui de l'absurde, du ridicule et du grotesque. Aucun autre metteur en scène n'a rendu la violence aussi hilarante qu'elle est horrifiante. La juxtaposition de l'épique et du domestique l'a toujours amusé, et il prend un malin plaisir dans ce que j'appellerais l'humour de l'acharnement.
Sans cesse, Kubrick nous force à faire face aux situations et refuse tout simplement de nous laisser le moindre répit. Alors que plus d'un réalisateur de moindre envergure serait déjà quelques scènes plus avant, Kubrick est toujours là, nous obligeant à regarder plus longtemps et plus durement, à comprendre en fait. Plus nous restons en présence de la scène, plus elle ressemble au temps réel. Et plus Kubrick consacre de temps à l'examiner, plus elle devient réelle pour lui, et plus il la voit en détail. Et le détail réel veut dire la vie vécue comme elle l'est vraiment, en trois dimensions, avec tous ses défauts. Kubrick nous entraîne au delà de la surface, dans une réalité agrandie qui ne peut que nous offrir l'humour inévitable de l'existence. Chaque film de Kubrick est un gag très travaillé, un gag sérieux, mais néanmoins un gag. On a le sentiment qu'il aime mettre en place un projet épique, puis trouver une manière non sentimentale, antihéroïque de le subvertir. Et cela vient, plus que de tout autre chose, de son génie à diriger les comédiens pour qu'ils soient vrais, vulnérables et crédibles. Si bien que, même si ses films sont autant guidés par le destin que par le personnage, ils sont tous néanmoins des films de personnages.
Mais c'est aussi parce que, philosophiquement, il est incapable de voir le monde en noir et blanc, en termes moraux, idéalistes ou simplistes. Kubrick voit la vie comme elle est, dans toute sa complexité ; dès qu'il sent que nous pourrions glisser vers l'émotion facile et la réponse évidente, son merveilleux instinct anarchique est de nous faire méditer sur l'inexplicable et, invariablement, en nous faisant rire.
Bien sûr, Kubrick n'était pas un cynique – il était passionnément attaché à la vie et il l'aimait. Et, en dépit du fondement intellectuel si solide et si impressionnant de ses idées, Kubrick demeure pour moi un metteur en scène spontané, intuitif, subjectif et émotionnel. C'est pourquoi il est toujours divertissant.
Qu'il ne soit pas universellement considéré comme un humoriste vient de ce que son humour est celui, authentique, d'un artiste qui est totalement et profondément sérieux. Mais il est fichtrement drôle et je ne doute pas qu'Eyes Wide Shut nous donnera quelques occasions de glousser. Je l'attends avec impatience.
2. Il m'est impossible de choisir mon film favori de Kubrick, les aimant tous. Mais, puisque l'humour de Stanley a été mon thème, je voudrais citer 2001 comme un des films les plus drôles que je connaisse.
Où existe-t-il, dans l'ensemble du cinéma, une séquence aussi profondément tragi-comique que celle qui commence avec un ordinateur assassinant trois cosmonautes endormis, puis propose une bataille de mots d'un comique inquiétant entre un ordinateur et un être humain, et s'achève par la mort lente de l'ordinateur, tandis qu'il chante, mal, une vieille chanson populaire sur une gentille jeune fille et des cyclistes en tandem ?
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mercoledì 6 giugno 2012
Io li amo, i marziani dell'Illinois
RAY BRADBURY, 22/08/1920 - 05/06/2012
In Bradbury la cosa più importante come invenzione magica è la sua tristezza, il tedio, la malinconia, l'inutilità.
Jorge Luis Borges.
lunedì 19 settembre 2011
Spighalatura
Alcuni ricercatori hanno scoperto che la prima registrazione della voce umana non venne effettuata da Edison mediante il suo fonografo nel 1877, come si credeva, bensì venti anni prima dal francese Edouard-Léon Scott de Martinville, con un apparecchio da lui inventato, chiamato fonoautografo: questo tramutava i suoni in un tracciato grafico su carta, senza però essere in grado di riprodurli successivamente. Solo di recente, convertendo un tracciato del fonoautografo in un formato digitale riproducibile da computer, si è finalmente potuto riascoltare la voce d'un uomo (forse lo stesso Scott de Martinville) che nel lontano 1860 aveva intonato la canzone popolare Au clair de la lune: è questa la più vecchia registrazione della voce umana mai sentita sino a ora.
“Spigolatura” n° 61961 de “La settimana enigmistica”, n° 4144, 27 agosto 2011, p. 12.
“Spigolatura” n° 61961 de “La settimana enigmistica”, n° 4144, 27 agosto 2011, p. 12.
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mercoledì 16 marzo 2011
Hard Aleph
Vidi il popò di Briatore, vidi cani e gatti, vidi le moltitudini della Padania, vidi una caprese in cui si alternavano fette di mozzarella blu e fette di pomodori marci al centro di un piatto di plastica, vidi una mascella spezzata (era Berlusconi), vidi infiniti denti che addentavano i miei denti come nel gabinetto di un'igienista, vidi tutte le igieniste e nessuna mi spazzolò, vidi a corso Rinascimento le stesse teste di cazzo che trent’anni prima avevo viste a via degli Uffici del vicario, vidi sgrammaticature, sx, coca light, peni di cartone, jacuzzi fai da te, vidi contorti disegni di legge e ciascuno dei loro emendamenti, vidi a Milano Due una meteorina che levati, vidi l'extension, il culo a mandolino, vidi un tumore nella 32AA in 40D, vidi un buco in mezzo all'autostrada, dove prima era un giudice, vidi in una casa di Secondigliano un Meridiano di Guia Soncini, vidi insieme la prescrizione e la decorrenza dei termini di quella prescrizione, vidi un tramonto sul plastico di Brembate di Sopra che sembrava riflettere il colore di un trifoglio del plastico di Brembate di Sotto, vidi la mia stanza da letto occupata da Alessandro D'Avenia, vidi in un cesso di Avetrana un orologio Cartier Miss Pasha con cinturino intercambiabile posto tra due mortadelle che lo ammodernizzano più meglio, vidi chihuahua impellicciati su una spiaggia di Fregene il pomeriggio, vidi tutte le venuzze del naso di Ferrara alle 20.33, vidi Fede e Mora al dopolavoro mandarsi messaggini, vidi in uno stand di arredamento beato chi s'oo fa' 'n sofà, vidi 33 ragazze sul pianerottolo di un ascensore con aglio e oglio, vidi dildi, tsunami, vulnus e La Russa, vidi tutti gli elettori del Pdl che esistono sottoterra, vidi una nipote di Mubarak, vidi in un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise, che Kafka aveva dirette a Milena Jensenká, vidi la tomba di Fede ad Arcore scaraventata in una fossa comune, vidi i resti meravigliosi di quel che forse era Simona Ventura, vidi una chiazza del mio vomito per terra, vidi il meccanismo regionale delle liste elettorali provinciali e la politicizzazione comunale della Corte costituzionale borgatara, vidi Radiolondra, da tutti i punti, vidi in Radiolondra il fattoquotidiano e nel fattoquotidiano di nuovo Radiolondra e in Radiolondra ilfattoquotidiano, vidi i miei denti sporchi e la mia prostata, vidi i tuoi denti sporchi, e provai acidità e presi un maalox, perché il mio palato aveva pregustato il pasto indigesto e sconnesso, la supposta, il cui nome deridono i coglioni, ma che nessun coglione ha contemplato: l'indistruttibile spazioazzurro.
martedì 7 settembre 2010
Odissee a proprie spese
Avrei tante cose da dire. Al popolo italiano, e non solo.
Vittorio Lodi (credo) a Mirabello.
C'è un leader, c'è una squadra, c'è un'identità politica e un popolo che ci segue, convenuto a proprie spese nella sperduta Mirabello in una domenica d'estate. Qualcuno ha dubbi?
Adolfo Urso.
Vittorio Lodi (credo) a Mirabello.
C'è un leader, c'è una squadra, c'è un'identità politica e un popolo che ci segue, convenuto a proprie spese nella sperduta Mirabello in una domenica d'estate. Qualcuno ha dubbi?
Adolfo Urso.
lunedì 19 aprile 2010
L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)
XVI — HAL
Riconosci il film dal quale ho estratto questo fotogramma e vinci tre cotolette d'agnello da lanciare attraverso la nube vulcanica. Nuove immagini giovedì e sabato, ma le cotolette me le mangio una dopo l'altra.
AGGIORNAMENTO (Giovedì 22 aprile): Nuova immagine, radicalmente diversa. Due cotolette d'agnello. Io ne ho appena mangiata una cruda con le mani e ora sogno di recarmi alla riunione di condominio di stasera con una mazza da baseball in mano e urlare per due ore di seguito all'amministratore: "You are entering a world full of pain". Cosa c'entra col gioco? Nulla, ma come dice Aida Turturro in Romance & Cigarettes: "Questa è la mia manifestazione emozionale. Grazie e arrivederci".



AGGIORNAMENTO (Giovedì 22 aprile): Nuova immagine, radicalmente diversa. Due cotolette d'agnello. Io ne ho appena mangiata una cruda con le mani e ora sogno di recarmi alla riunione di condominio di stasera con una mazza da baseball in mano e urlare per due ore di seguito all'amministratore: "You are entering a world full of pain". Cosa c'entra col gioco? Nulla, ma come dice Aida Turturro in Romance & Cigarettes: "Questa è la mia manifestazione emozionale. Grazie e arrivederci".
AGGIORNAMENTO (Sabato 24 aprile): Come da sesto commento, un coltello. Usalo per tagliare la cotoletta rimasta.



ATTENZIONE: La partita si è conclusa lunedì 26 aprile alle 11.24. Il tagliagole (Le Boucher, 1969) di Claude Chabrol è stato riconosciuto dal madrido arco. E mi sudrano le mani, mi sudrano.La prossima sfida si terrà lunedì 26 aprile.
L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIAStrelnik: 4 cotolette.
bianca: 3 cotolette.
oscar amalfitano: 3 cotolette.
arco: 2 cotolette.
L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIAStrelnik: 4 cotolette.
bianca: 3 cotolette.
oscar amalfitano: 3 cotolette.
arco: 2 cotolette.
lunedì 21 settembre 2009
L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)
XXVI — BALLI SPAZIALI
Tre padelle in teflon a chi riconosce il film da cui è tratta questa sequenza. Nuovi indizi giovedì (por dos padellas) e sabato (por una padellata, da sbattere sulla cabeza), se nessuno ha trovato la soluzione.
P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui.
ATTENZIONE: la partita si è conclusa mercoledì 23 settembre alle 14.25. arcomanno si piazza in poleposiscion, accanto ad afasol (a proposito, che fine ha fatto?)
La sequenza è estratta da I diafanoidi vengono da Marte (Antonio Margheriti, 1966), secondo film della tetralogia dedicata alla base spaziale Gamma 1, che ispirò Kubrick (non solo per 2001: Odissea nello spazio).
La prossima sfida si terrà lunedì 28 settembre.
L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
afasol: 14 padelle in teflon.
arcomanno: 14 padelle in teflon.
bianca: 7 padelle in teflon.maxeramax: 3 padelle in teflon.
YagaBaba: 3 padelle in teflon.
gegio: 3 padelle in teflon.
Andrea: 2 padelle in teflon.
La sequenza è estratta da I diafanoidi vengono da Marte (Antonio Margheriti, 1966), secondo film della tetralogia dedicata alla base spaziale Gamma 1, che ispirò Kubrick (non solo per 2001: Odissea nello spazio).
La prossima sfida si terrà lunedì 28 settembre.
L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
afasol: 14 padelle in teflon.
arcomanno: 14 padelle in teflon.
bianca: 7 padelle in teflon.maxeramax: 3 padelle in teflon.
YagaBaba: 3 padelle in teflon.
gegio: 3 padelle in teflon.
Andrea: 2 padelle in teflon.
lunedì 1 dicembre 2008
Stanley Kubrick for dummies
II
1962-1999
LOLITA, 1962
Humbert Humbert perde la testa per Lolita, che porta occhiali a forma di cuoricino e succhia ancora i leccalecca. Ma lo perseguita Quilty, sempre pronto a guastargli la festa e ad assillarlo con allusioni oscene. Forse non esiste, forse è un fantasma dell’Overlook Hotel, o un monolito pecoreccio. Forse è solo la voce della coscienza, grottesco senso di colpa (Quilty/Guilty). Nel libro di Nabokov Kubrick intravede quello che, assieme all’Odissea, è il suo mito primordiale: Pinocchio.
DOTTOR STRANAMORE, OVVERO COME IMPARAI A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA (DR. STRANGELOVE OR: HOW I LEARNED TO STOP WORRYING AND LOVE THE BOMB, 1964)
Doveva essere un film serio: follie individuali, errori nel sistema di comunicazione e dispositivi segreti di reazione “preventiva” rendono possibile l’annientamento termonucleare dell’umanità. Ma nella strada che porta alla morte, troppa Vodka, troppa Coca-Cola, troppi missili fallici, troppi fluidi vitali repressi. E troppi, troppi Peter Sellers. Kubrick ce la mette tutta per ritardare l’esplosione, ma alla fine scoppia a ridere (e pare che nel film lo si possa sentire). L’atto di nascita del cinema demenziale.
2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (2001: A SPACE ODYSSEY, 1968)
Furiosamente ateo, Kubrick fissa su pellicola un’immagine di Dio in grado di soddisfarlo: un parallelepipedo regolare, senza asperità, opaco e perfetto. È un buco nero, e chi lo attraversa compie “the ultimate trip”, come promettevano le locandine dell’epoca (con doppi e tripli sensi). Come capita spesso alle anticipazioni, il tempo ha trasformato 2001 in ucronia. Ma stavolta le previsioni erano rigorosamente esatte; siamo noi a vivere in un presente sbagliato. Cambiamolo.
ARANCIA MECCANICA (A CLOCKWORK ORANGE, 1971)
Tanto il futuro di 2001 assumeva le sembianze di una tecnologia asettica proiettata nel cosmo, tanto l’avvenire piccolo borghese dell’Inghilterra di Alex DeLarge promette solo fatiscenti periferie metropolitane, ascensori rotti, graffiti osceni, barbarie e ultraviolenza. La scimmia preistorica, divenuta feto astrale alla fine di 2001, non sfocia nel superuomo, ma regredisce fino a ritrovare le proprie origini, neonato bestiale “senza legge” (A-lex).
BARRY LYNDON, 1975
Modificando l’obiettivo Zeiss, Kubrick trasforma la cinepresa in macchina del tempo. Si ritrova nell’Inghilterra del Settecento, pochi anni prima della Rivoluzione francese. Sembra un documentario “impossibile”, ma le focali sensibilissime obbligano le persone all’atarassia delle belle statuine. Poco male: tanto non hanno nulla da dire. Finché uno di loro lascia cadere il braccio lungo il corpo, e invece di uccidere il nemico, spara per terra. Ed esce dal quadro.
SHINING (THE SHINING, 1980)
Jack Nicholson, Shelley Duvall e il figlio scelgono di passare l’inverno all’Overlook Hotel, costruito su un cimitero indiano. Pessima idea. Il figlio pedala solo soletto sul suo triciclo, e a furia di girare in tondo confonde ieri, oggi e domani. L’albergo è infestato di fantasmi dei roaring Twenties; la famiglia americana, già dissestata di suo, se la divorano a mezzanotte, obbligando padre e figlio a un remake gore di Bip-bip e il coyote. Ma a ridere resta solo Jack: in una fotografia scattata al ballo della festa dell’Indipendenza, il 4 luglio 1921.
FULL METAL JACKET (1987)
Dallo smoking dei fantasmi all'uniforme dei marines, dai cessi rossi dell'Overlook Hotel alle latrine blu di Parris Island: un world full of shit, letteralmente, in cui i soldati del sergente Hartman sono immersi come fosse l'unico dei mondi possibile, grazie a un eraserhead (film amatissimo dal regista) e reset cerebrale. Poi tutti a perdersi nel labirinto di Hue, senza sapere di essere a Londra. Un film ossessionato dall'assenza di donne, con una prima parte dedicata al fucile da battezzare con nomi femminili e una seconda che si chiude sul volto di una vietcong morente. Al centro, un culo di prostituta che si allontana ancheggiando. Un film tagliato in due: non come un'arancia; piuttosto come due natiche.
EYES WIDE SHUT (1999)
Un progetto perseguito per più di trent'anni, realizzato fino all'ultimo respiro di un montaggio a mio avviso non definitivo. Un uomo qualsiasi, come qualsiasi erano Dave Bowman o Jack Torrance, scopre attraverso il moltiplicarsi dei fenomeni sessuali che altro controlla, determina e dirige la sua esistenza. E che questo altro, questa "stoffa di cui son fatti i sogni” non è che il Tempo, qui incarnato nel perdurare eterno del desiderio fisico. Sì, la parola "forever" che le gemelle macellate sussurravano al piccolo Danny è terrificante, come nota Nicole Kidman. Meglio scopare.
Humbert Humbert perde la testa per Lolita, che porta occhiali a forma di cuoricino e succhia ancora i leccalecca. Ma lo perseguita Quilty, sempre pronto a guastargli la festa e ad assillarlo con allusioni oscene. Forse non esiste, forse è un fantasma dell’Overlook Hotel, o un monolito pecoreccio. Forse è solo la voce della coscienza, grottesco senso di colpa (Quilty/Guilty). Nel libro di Nabokov Kubrick intravede quello che, assieme all’Odissea, è il suo mito primordiale: Pinocchio.
DOTTOR STRANAMORE, OVVERO COME IMPARAI A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA BOMBA (DR. STRANGELOVE OR: HOW I LEARNED TO STOP WORRYING AND LOVE THE BOMB, 1964)
Doveva essere un film serio: follie individuali, errori nel sistema di comunicazione e dispositivi segreti di reazione “preventiva” rendono possibile l’annientamento termonucleare dell’umanità. Ma nella strada che porta alla morte, troppa Vodka, troppa Coca-Cola, troppi missili fallici, troppi fluidi vitali repressi. E troppi, troppi Peter Sellers. Kubrick ce la mette tutta per ritardare l’esplosione, ma alla fine scoppia a ridere (e pare che nel film lo si possa sentire). L’atto di nascita del cinema demenziale.
2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (2001: A SPACE ODYSSEY, 1968)
Furiosamente ateo, Kubrick fissa su pellicola un’immagine di Dio in grado di soddisfarlo: un parallelepipedo regolare, senza asperità, opaco e perfetto. È un buco nero, e chi lo attraversa compie “the ultimate trip”, come promettevano le locandine dell’epoca (con doppi e tripli sensi). Come capita spesso alle anticipazioni, il tempo ha trasformato 2001 in ucronia. Ma stavolta le previsioni erano rigorosamente esatte; siamo noi a vivere in un presente sbagliato. Cambiamolo.
ARANCIA MECCANICA (A CLOCKWORK ORANGE, 1971)
Tanto il futuro di 2001 assumeva le sembianze di una tecnologia asettica proiettata nel cosmo, tanto l’avvenire piccolo borghese dell’Inghilterra di Alex DeLarge promette solo fatiscenti periferie metropolitane, ascensori rotti, graffiti osceni, barbarie e ultraviolenza. La scimmia preistorica, divenuta feto astrale alla fine di 2001, non sfocia nel superuomo, ma regredisce fino a ritrovare le proprie origini, neonato bestiale “senza legge” (A-lex).
BARRY LYNDON, 1975
Modificando l’obiettivo Zeiss, Kubrick trasforma la cinepresa in macchina del tempo. Si ritrova nell’Inghilterra del Settecento, pochi anni prima della Rivoluzione francese. Sembra un documentario “impossibile”, ma le focali sensibilissime obbligano le persone all’atarassia delle belle statuine. Poco male: tanto non hanno nulla da dire. Finché uno di loro lascia cadere il braccio lungo il corpo, e invece di uccidere il nemico, spara per terra. Ed esce dal quadro.
SHINING (THE SHINING, 1980)
Jack Nicholson, Shelley Duvall e il figlio scelgono di passare l’inverno all’Overlook Hotel, costruito su un cimitero indiano. Pessima idea. Il figlio pedala solo soletto sul suo triciclo, e a furia di girare in tondo confonde ieri, oggi e domani. L’albergo è infestato di fantasmi dei roaring Twenties; la famiglia americana, già dissestata di suo, se la divorano a mezzanotte, obbligando padre e figlio a un remake gore di Bip-bip e il coyote. Ma a ridere resta solo Jack: in una fotografia scattata al ballo della festa dell’Indipendenza, il 4 luglio 1921.
FULL METAL JACKET (1987)
Dallo smoking dei fantasmi all'uniforme dei marines, dai cessi rossi dell'Overlook Hotel alle latrine blu di Parris Island: un world full of shit, letteralmente, in cui i soldati del sergente Hartman sono immersi come fosse l'unico dei mondi possibile, grazie a un eraserhead (film amatissimo dal regista) e reset cerebrale. Poi tutti a perdersi nel labirinto di Hue, senza sapere di essere a Londra. Un film ossessionato dall'assenza di donne, con una prima parte dedicata al fucile da battezzare con nomi femminili e una seconda che si chiude sul volto di una vietcong morente. Al centro, un culo di prostituta che si allontana ancheggiando. Un film tagliato in due: non come un'arancia; piuttosto come due natiche.
EYES WIDE SHUT (1999)
Un progetto perseguito per più di trent'anni, realizzato fino all'ultimo respiro di un montaggio a mio avviso non definitivo. Un uomo qualsiasi, come qualsiasi erano Dave Bowman o Jack Torrance, scopre attraverso il moltiplicarsi dei fenomeni sessuali che altro controlla, determina e dirige la sua esistenza. E che questo altro, questa "stoffa di cui son fatti i sogni” non è che il Tempo, qui incarnato nel perdurare eterno del desiderio fisico. Sì, la parola "forever" che le gemelle macellate sussurravano al piccolo Danny è terrificante, come nota Nicole Kidman. Meglio scopare.
giovedì 16 ottobre 2008
Il secondo sarà Francisco Franco
Spagna/ Il giudice Garzon aprirà 19 fosse comuni della Guerra Civile. Anche quella di Lorca.
(fonte: www.asca.it)
Ero bambino e vivevo a Trastevere. Ricordo — stiamo parlando della seconda metà degli anni '70 — due scritte verniciate di bianco su due colonne di un palazzo moderno, nella stradina dove abitavo, che nessuno cancellò per molto tempo e che mi sono rimaste impresse, forse perché all'epoca non le capivo (i ricordi più vivi della mia infanzia sono proprio legati alla curiosità-terrore per tutto ciò che mi appariva misterioso: la serie televisiva Olocausto, il film 2001: Odissea nello spazio). Le scritte dicevano:
IL PRIMO È STATO CARRERO BLANCO
IL SECONDO SARÀ FRANCISCO FRANCO
(Anni dopo seppi che c'era un'altra scritta, me lo raccontarono, non ricordo di averla vista. Forse fu cancellata dopo pochi giorni. Ma sarebbe bastato andare due strade più avanti, e avrei letto che le Brigate Rosse volevano uccidere mia madre.)
Ripensandoci oggi, doveva apparirmi come un esempio di dadaismo (anche se all'epoca non conoscevo il dadaismo, ma Fonzie, Jeeg Robot d'acciaio e Capitan Harlock): la rima, e quel "Blanco" che veniva a ribadire il colore della vernice.
"Il primo è stato Carrero Blanco / Il secondo sarà Francisco Franco": un distico che mi resterà inchiodato in testa fino alla morte, alzheimer permettendo. Non una madeleine; piuttosto, un duende.
Agosto 2007: sono passati almeno trent'anni. Passeggio per le strade della mia infanzia. Vorrei portare una persona a vedere dove abitavo, quando avevo la sua età.
Ma poi a volte il tempo si ferma, come nel "Miracolo segreto" di Borges. Infatti:
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