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martedì 18 luglio 2023

Disco Elysium (Joel & Ethan Coen, mai)

La storia del cinema essendosi conclusa vari decenni orsono, lo spettatore vedovo ne fantastica una alternativa, in cui Ethan Coen non si separa dal fratello Joel abbandonandolo a costernanti saggi di diploma pseudoshakespeariani da Centro Sperimentale di Cinematografia.
I due si buttano sull’adattamento del videogioco Disco Elysium, quattro ore di attori famosissimi ma irriconoscibili, che sciorinano dialoghi assurdi in scenografie cyberescheriane dai costi insostenibili. Fiasco glorioso, nel giro di due anni chiudono tutte le sale del mondo.

martedì 30 novembre 2021

Quite an experience to live in fear, isn't it?

Il video autoprodotto e diffuso online in cui l'intellettuale di ultradestra Eric Zemmour ha annunciato la sua candidatura alle prossime presidenziali francesi pertiene, non del tutto a caso, a quel sottogenere fantascientifico che chiamerei "ucronia inconsapevole" o "distopia senza alternative". Quel sottogenere non esiste, o esiste come truffa più o meno volontaria: a crearlo è lo scarto, da un canto, tra le attese del lettore o dello spettatore e, dall'altro canto, la progressiva indifferenza del racconto nei confronti di quelle attese. Per chi come me ha attraversato l'immaginario cyberpunk, retrofitting o semplicemente vintage con in mente l'opera di Philip K. Dick l'errore suonerà familiare: libri, ma soprattutto film e serie tv in cui abbondano le incongruenze, l'oggettistica desueta (qui la biblioteca, il microfono alla De Gaulle), sembrano invocare come diceva Borges "la promessa di una rivelazione" che però "non si produce". Solo che per Borges questa era la definizione del fatto estetico, mentre nel mio caso quell'assenza di un satori, magari imperfetto e collassante (il finale preparatissimo de L'uomo nell'alto castello, quello annunciato con qualche minuto d'anticipo in The Village di M. Night Shyamalan, l'urlo improvviso ma inevitabile e necessario di Laura Palmer alla fine di Twin Peaks – The Return) ha sempre prodotto una sensazione di noia sinistra. Un buon esempio: il reboot 2004-2009 della serie Battlestar Galactica, che mi piaceva ma che ho abbandonato in corso, quando ho capito che quella "Terra", quel vecchio telefono a rotelle nelle astronavi, non avrebbero trovato una soluzione anche solo parzialmente logica, che quel passato nel futuro era un dato, così come in rete lo sono quegli orrendi "stacce", quei ", punto.".
Zemmour punta su questo trucco da apprendista stregone, qui come in tutto una caricatura ("un Trump acquistato su Wish", lo ha definito il portavoce del governo Gabriel Attal, forse l'unica sua dichiarazione azzeccata da quando è in carica). Sembra averne una qualche consapevolezza, forse si sta divertendo, e certo la sua retorica della nostalgia, tutta un'estetica da paccottiglia (il Kitsch, ossia l'artefatto pensato in partenza per piacere a "tutti" in un momento dato, o per terrificare "tutti", è uguale e ci sono ambedue), attinge a piene mani al tutt'altro che favoloso, bensì terrificante, destino di Amélie Poulain, laddove il termine "destino" è da sempre in Francia monopolio della destra più retriva e sanguinaria. (1)
A un futuro mostruoso e virale (l'Islam dilagante, l'omosessualità, la svendita dei gioielli di famiglia allo straniero) rappresentato in forma di violenza folle e generalizzata, come nei prologhi dei film postapocalittici, si contrappone un passato altrettanto immaginario, appunto quello delle images d'Epinal, del Lagarde et Michard, di icone cinematografiche per me tanto adorate quanto oggettivamente compromesse fuori dallo schermo: Gabin, Delon, Bardot (anche se in realtà non ho mai perso la testa per lei). Il presente non esiste, c'è solo un conto alla rovescia che si avvicina alla fine del mondo, salvo portare le lancette del vecchio orologio a pendolo, quello che "dit oui, qui dit non, qui dit 'Je vous attends'", all'indietro, al momento inafferrabile e straziante in cui Zemmour ha deciso che tutto era "luxe, calme et volupté", e poi fermarlo: per sempre. Come in Underground di Emir Kusturica. Una variante di quel sogno è il futurismo anni Sessanta; e l'idea di una Francia che "takes back control" a colpi di eccellenza tecnologica, di aeronautica, non manca nel video: ma nel contesto generale suona come un omaggio (volontario?) a Iron Sky o ai Wolfenstein della Bethesda.
La reductio ad Hitlerum non è difficile, al punto che sembra in qualche modo presa in conto ed esposta (con candore? per provocazione? irresponsabilmente? o per "espièglerie", giocosità alla Gavroche, il bambino dei Misérables con cui Zemmour si identifica probabilmente da sempre e che viene menzionato nel video?). Come sfondo musicale, il secondo movimento della Settima sinfonia di Ludwig van Beethoven. Sotto il Terzo Reich era chiamata "La Sinfonia della Vittoria Nazista". Fu trasmessa per celebrare il compleanno del Führer dalla radio tedesca Il 20 aprile 1945, mentre Berlino era rasa al suolo dalle bombe sovietiche. Al mattino, Adolf Hitler usciva per l'ultima volta dal bunker per consegnare Croci di ferro a qualche bambino della Hitlerjugend (Gavroches teutonici?). Dieci giorni dopo si suicidava.


(1) DESTIN. — C'est au moment même où, l'Histoire témoignant une fois de plus de sa liberté, les peuples colonisés commencent à démentir la fatalité de leur condition, que le vocabulaire bourgeois fait le plus grand usage du mot Destin. Comme l'honneur, le destin est un mana où l'on collecte pudiquement les déterminismes les plus sinistres de la colonisation. Le Destin, c'est pour la bourgeoisie, le truc ou le machin de l'Histoire.
Naturellement, le Destin n'existe que sous une forme liée. Ce n'est pas la conquête militaire qui a soumis l'Algérie à la France, c'est une conjonction opérée par la Providence qui a uni deux destins. La liaison est déclarée indissoluble dans le temps même où elle se dissout avec un éclat qui ne peut être caché.
Phraséologie : "Nous entendons, quant à nous, donner aux peuples dont le destin est lié au nôtre, une indépendance vraie dans l'association volontaire." (M. Pinay à l'ONU.)
Roland Barthes, Mythologies ["Grammaire africaine"], 1957, ora in Roland Barthes, Œuvres complètes, Paris , 1993, p. 648.

sabato 11 settembre 2021

Yakuza 0 (Koji Yoshida, 2015)

Ho finito ieri sera Yakuza 0, dopo aver giocato al primo e al secondo Yakuza Kiwami. Ho subito scaricato la collection remastered del terzo, quarto e quinto in promozione sullo store e avevo già comprato il sesto settimane fa.
Lo Zero mi pare al momento l'apoteosi della geniale follia della saga: una roba che a platinarla ti prende mesi, quando la storia in sé, per il secondo, può essere sbrigata in due ore circa (l'ho verificato di persona per ottenere il trofeo in modalità leggendaria). In questo caso siamo di fronte a un vero e proprio film, con personaggi dalla psicologia imprevedibile e dalla fisionomia improbabile ma sempre verosimili, secondo una logica che trova un senso cammin facendo e quel senso è il loro destino e la loro verità: praticamente un romanzo, sicuramente un film. In parallelo alla tragedia, il delirio: un moltiplicarsi arborescente di storie secondarie, minigiochi, anticipazioni e profezie dei capitoli seguenti, dilazioni, il tutto in chiave comica, pecoreccia, scorretta, sublime. È, sulla carta, metà del gioco, ed è quello che prende mesi, se vuoi che li prenda (ma se non vuoi che ci giochi a fare: è quello il tuo senso, il tuo destino, la tua verità).
Tutto – dalla vita alla morte, dal rispetto all'onore, dalla discoteca eighties alla videoteca porno, dall'allegra pedofilia al cabaret di puttane eque e solidali, dai primi videogiochi di macchinine alle corse di modellini, dall'amore più disinteressato alla masturbazione furiosa con scatolone di kleenex sottomano, dalla gestione commerciale di Tokyo affidata a sosia di Steven Spielberg e Michael Jackson ad arene clandestine e subacquee abitate da Michael Myers e Scarecrow, da indigestioni di takoyaki a incontri sporadici e puntuali con giganti ritardati, ricchissimi e calvi in cerca di lozioni miracolose e di fantaridicoli viaggi steroidali-siderali, da questo a quello, da qui a ora, da altrove a domani, da un "vacant lot" di tre metri quadri a Tokyo che tutti si contendono al Polo Nord dove si trovano, forse, armi impossibili – è ordinato secondo una logica implacabile e sottomesso a una consequenzialità ferrea, che non conosce neanche l'ombra di un bug, neppure il riflesso di un glitch.
La perfezione, e al contempo la miseria della perfezione: esposta, infinita, struggente.
Era dai tempi di Red Dead Redemption 2 che non mi capitava un'esperienza del genere.

lunedì 22 luglio 2019

Stranger Things S03 (The Duffer Brothers, 2019)

La terza stagione di Stranger Things è come ormai sanno tutti superiore alla seconda. Secondo me è anche migliore della prima, perché trova finalmente una sua verità nel raffazzonato, nel ritmo affannosamente reinventato tra una sequenza e l'altra e mai uguale a se stesso, nel suo sostanziale non andare a parare mai da nessuna parte, a tal punto che giunti oltre la metà della stagione, e forse fino alla fine, non si capisce di cosa si stia parlando, quale sia la posta in gioco, senza che questo abbia la minima importanza per garantire il moderato ma sicuro divertimento. Questo è il vero spirito degli "anni Ottanta", l'iceberg di cui la prima stagione mostrava solo la punta di Spielberg e dei suoi fortunati compari (nonché di Stephen King e di vari videogiochi di successo ma a rischio zero, da Life is Strange a Beyond). Vada invece per i neocormaniani che "non ce l'hanno fatta", da Tremors alla Troma, da Basket Case a Society, da Wes Craven al nostro amatissimo Romero (Day of the Dead era costato due dollari, contrariamente al precedente Dawn che ne era costati quattro e mezzo, splendida l'idea di proiettare il primo nel centro commerciale del secondo) a Terminator (idem, film a bassissimo costo, in attesa del noiosetto seguito, che sarà invece il primo film a costare cento milioni di dollari) a La cosa di Carpenter (che invece era caro, e la pagò il doppio). Vada per interni sfacciatamente di cartapesta, saloni con colonne bianco avorio in PVC, ruote di luna-park alte due metri come nel dimenticato The Funhouse (Il tunnel dell'orrore, 1981) di Tobe Hooper, trasparenti in auto che riescono a essere quasi altrettanto orrendi e quasi altrettanto sublimi dei migliori Hitchcock tra Cinquanta e Sessanta, vestitini fantasia da cui spuntano cosce non proprio d'alabastro e depilate alla bell'e meglio di ninfette mediamente smaliziate. Vada per i titoli di testa di cui non ricordavo graffi di pellicola nelle due precedenti edizioni, per i font decisamente "tv-movie" scelti per i titoli relativi a ciascun episodio, vada per questa tarantinata un po' tardiva, come appunto tardivo, raffazzonato, affannoso, sostanzialmente inutile ma in fondo simpatico era molto di quel cinema. Tarantino che ritrovi nel primo episodio prima della proiezione di Day of the Dead, con la sigla musicale di Grindhouse, nonché ovviamente nel riferimento alla Cosa carpenteriana, di cui The Hateful Eight è remake dichiarato, Cosa che fallì al botteghino perché più bella ma meno "perfetta" del precedente Alien (come Terminator era meno "molto molto profondo" ma più "molto molto gagliardo" di Blade Runner), Alien che a sua volta era la versione seria del primo film di Carpenter, Dark Star, raro caso di parodia à rebours, la Cosa di Carpenter di cui in Stranger Things si dice che è superiore a quella di Hawks, per una serie che sceglie invece – è la cosa che mi è piaciuta di più – di somigliare molto più a Hawks che a Carpenter, con i pischelli che parlano di cose sentimentali mentre sono inseguiti da una roba gigante e piena di denti fatta malissimo con un notebook, anche se sotto sotto pure questo Carpenter lo sapeva, anche senza un personaggio femminile in tutta la base artica quel che conta alla fine sono i tempi comici, quelli che decidi e imponi tu allo spettatore, non quelli che decide il "bel cinema", che è brutto, mentre è il brutto cinema che è bello, negli Ottanta come sempre: più o meno.