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lunedì 17 agosto 2009

Due 666

Quella notte, mentre Liz Norton dormiva, Pelletier ricordò una sera ormai lontana in cui lui ed Espinoza avevano visto un film del terrore nella camera di un albergo tedesco.
Il film era giapponese e in una delle prime scene comparivano due ragazze adolescenti. Una di loro raccontava una storia. La storia era su un bambino che stava trascorrendo le vacanze a Kobe e voleva uscire in strada a giocare con gli amici proprio alla stessa ora in cui alla televisione davano il suo programma preferito. Così il bambino metteva una cassetta per registrare il programma e poi usciva. Il problema a quel punto stava nel fatto che il bambino era di Tokyo e a Tokyo il suo programma andava in onda sul canale 34, mentre a Kobe il canale 34 era vuoto, cioè era un canale dove non si vedeva nulla, solo nebbia televisiva.
E quando il bambino, rientrando a casa, si sedeva davanti al televisore e metteva la cassetta, invece del suo programma preferito vedeva una donna con la faccia bianca che gli diceva che stava per morire.
E nient'altro.
E poi squillava il telefono e il bambino rispondeva e sentiva la voce della stessa donna che gli domandava se per caso credeva che si trattasse di uno scherzo. Una settimana dopo trovavano il corpo del piccolo in giardino, morto.
E tutto questo lo raccontava la prima adolescente alla seconda adolescente e a ogni parola che pronunciava sembrava morire dal ridere. La seconda adolescente era notevolmente spaventata. Ma la prima adolescente, quella che raccontava la storia, dava l'impressione di essere lì lì per rotolarsi sul pavimento dal ridere.
E allora, ricordava Pelletier, Espinoza aveva detto che la prima adolescente era una psicopatica da quattro soldi e che la seconda adolescente era una cogliona, e che quel film avrebbe potuto essere un buon film se la seconda adolescente, invece di fare smorfie piagnucolose e una faccia tremendamente angosciata, avesse detto alla prima di starsene zitta. E non in modo dolce ed educato, ma piuttosto tipo: «Zitta tu, figlia di puttana, di cosa ridi? Ti eccita raccontare la storia di un bambino morto? Godi a raccontare la storia di un bambino morto, brutta succhiacazzi immaginaria?».
E cose del genere. E Pelletier ricordò che Espinoza aveva parlato con tale veemenza, imitando persino la voce e le espressioni che la seconda adolescente avrebbe dovuto assumere davanti alla prima, che lui aveva ritenuto più opportuno spegnere la televisione e andarsene a bere qualcosa al bar con lo spagnolo prima di ritirarsi ognuno nella sua stanza. E ricordava anche di aver provato affetto per Espinoza, un affetto che rievocava l'adolescenza, le avventure rigorosamente condivise e i pomeriggi in provincia.
Roberto Bolaño, 2666, traduzione di Ilide Carmignani, Adelphi, Milano 2007, pp. 47-9.



Parlò di nuovo con Rosa Maria Medina. Stavolta la aspettò seduto sul gradino della porta di casa. Quando la ragazza arrivò gli chiese scandalizzata perché non aveva suonato il campanello. Ho suonato, disse Epifanio, mi ha aperto tua madre e mi ha invitato a bere un caffè, ma poi è dovuta andare a lavorare e io sono rimasto ad aspettarti qui. La ragazza lo invitò a entrare ma Epifanio preferì rimanere seduto fuori, perché faceva meno caldo che dentro, a quanto pare. Le chiese se fumava. La ragazza prima rimase in piedi, da una parte, e poi si sedette su un sasso piatto e gli disse che non fumava. Epifanio contemplò il sasso: era molto strano, a forma di sedia, ma senza schienale, e il fatto che la madre o qualcuno della famiglia l'avesse messo lì, in quel giardinetto, era segno di buon gusto e persino di tatto. Chiese alla ragazza dove era stato trovato il sasso. L'ha trovato mio padre a Casas Negras, disse Rosa Maria Medina, e l'ha portato fin qui di peso. È là che hanno rinvenuto il corpo di Estrella, disse Epifanio. Lungo la strada, disse la ragazza chiudendo gli occhi. Mio padre ha trovato questo sasso proprio a Casas Negras, a una festa, e se ne è innamorato. Era fatto così. Poi gli disse che suo padre era morto. Epifanio volle sapere quando. Un mucchio di anni fa, disse la ragazza con una smorfia di indifferenza. Epifanio accese una sigaretta e le chiese di raccontargli di nuovo, come voleva, le uscite che faceva la domenica con Estrella e con l'altra, come si chiama?, Rosa Màrquez. La ragazza iniziò a parlare, con lo sguardo fisso sulle poche piante in vaso che sua madre teneva nel minuscolo giardino, anche se ogni tanto alzava gli occhi e lo guardava come per valutare se quello che gli raccontava era utile o solo una perdita di tempo. Quando ebbe finito Epifanio aveva chiara una cosa sola: che non uscivano soltanto la domenica, a volte andavano al cinema il lunedì o il giovedì, o a ballare, dipendeva tutto dai turni della maquiladora, che erano flessibili e obbedivano a protocolli di produzione incomprensibili per gli operai. Allora cambiò le domande e volle sapere come si divertivano il martedì, per esempio, se era quello il giorno libero della settimana. La routine, secondo la ragazza, era simile, anzi da un certo punto di vista era anche meglio perché i negozi in centro erano tutti aperti, cosa che non accadeva nei giorni festivi. Epifanio strinse un po'. Volle sapere qual era il loro cinema preferito, a parte il Rex, a quali altri cinema erano andate, se qualcuno aveva abbordato Estrella in qualche posto, quali negozi visitavano, anche se non entravano e restavano fuori a guardare le vetrine, quali bar frequentavano, il loro nome, se qualche volta erano state in una discoteca. La ragazza disse che non erano mai state in discoteca, che a Estrella non piacevano quei posti. Ma a te sì, disse Epifanio. A te e alla tua amichetta Rosa Màrquez sì. La ragazza non volle guardarlo in faccia e disse che a volte, quando uscivano senza Estrella, andavano nelle discoteche in centro. Ed Estrella no? Estrella non le aveva mai accompagnate? Mai, disse la ragazza. Estrella voleva sapere dei computer, voleva imparare, voleva fare strada, disse la ragazza. Sempre computer, computer di qua e computer di là, non mi bevo una parola di quello che dici, bocconcino, disse Epifanio. Io non sono il suo bocconcino di merda, disse la ragazza. Per un po' stettero lì senza dirsi nulla. Epifanio fece una risatina e poi si accese un'altra sigaretta, là, seduto sul gradino, contemplando il viavai della gente. C'è un posto, disse la ragazza, ma non ricordo più dove, è in centro, è un negozio di computer. Ci siamo andate un paio di volte. Rosa e io l'aspettavamo fuori, entrava solo lei e si metteva a parlare con un tipo molto alto, davvero altissimo, molto più di lei, disse la ragazza. Un tipo molto alto, e poi?, disse Epifanio. Alto e biondo, disse la ragazza. E poi? Be', Estrella all'inizio sembrava entusiasta, intendo la prima volta che entrò a parlare con quell'uomo. Da quanto mi disse era il padrone del negozio e sapeva un sacco di cose sui computer e per di più si vedeva che aveva soldi. La seconda volta che andammo a trovarlo Estrella uscì arrabbiata. Le chiesi cos'era successo ma non volle dirmi nulla. Eravamo noi due sole e poi andammo alla fiera nel quartiere Veracruz e dimenticammo tutto. E questo quando è successo, bocconcino?, disse Epifanio. Le ho già detto che non sono il suo bocconcino di merda, sfacciato, disse la ragazza. Quando è successo?, disse Epifanio, che iniziava già a vedere un tipo molto alto e molto biondo che camminava nell'oscurità, in un lungo corridoio buio, su e giù, come se stesse aspettando lui. Una settimana prima che la ammazzassero, disse la ragazza.
Roberto Bolaño, 2666**, traduzione di Ilide Carmignani, Adelphi, Milano 2008, pp. 156-8.


giovedì 24 luglio 2008

No por mucho madrugar amanece más temprano

"Cos'hai fatto in questi giorni? gli chiesi. Niente, disse, pensare, vedere dei film. Che film hai visto? Shining, disse lui. Che orrore di film, dissi, lo vidi anni fa e poi non riuscii a dormire. Anch'io lo vidi molti anni fa, disse Arturo, e passai una notte in bianco. È un film stupendo, dissi. È molto bello, disse lui. Rimanemmo in silenzio per un po', guardando il mare. Non c'era la luna e le luci della barca da pesca non si vedevano più. Ti ricordi del romanzo che scriveva Torrance? disse all'improvviso Arturo. Torrance chi? dissi io. Il cattivo del film, quello di Shining, Jack Nicholson. Sì, quel bastardo stava scrivendo un romanzo, dissi, anche se per la verità me ne ricordavo appena. Più di cinquecento pagine, disse Arturo, e sputò verso la spiaggia. Non l'avevo mai visto sputare. Scusa, ho lo stomaco sottosopra, disse. Sta' tranquillo, dissi io. Aveva scritto più di cinquecento pagine ripetendo un'unica frase all'infinito, in tutti i modi possibili, a lettere maiuscole, a lettere minuscole, su due colonne, sottolineata, sempre la stessa frase, nient'altro. E che frase era? Non te la ricordi? No, non me la ricordo, ho una memoria da schifo, mi ricordo solo dell'accetta e che il bambino e sua madre alla fine del film si salvano. Il mattino ha l'oro in bocca, disse Arturo. Era pazzo, dissi e in quel momento smisi di guardare il mare e cercai la faccia di Arturo, accanto a me, e sembrava come sul punto di crollare. Magari era un bel romanzo, disse. Mi fai venire i brividi, dissi io, come può essere bello un romanzo dove si ripete una sola frase? È una mancanza di rispetto per il lettore, la vita è già abbastanza merdosa di per sé, senza che per di più ti tocchi di comprare un libro dove c'è scritto solo 'il mattino ha l'oro in bocca', è come se io servissi tè al posto del whisky, è un imbroglio e una mancanza di rispetto, non credi? Il tuo buon senso mi spaventa, Teresa, disse lui."

Roberto Bolaño, I detective selvaggi, traduzione di Maria Nicola, Sellerio Editore, Palermo 2003, pp. 727-728.



giovedì 17 luglio 2008

Hepatos B12

Decideva di pensare ad altro. Quando non gli era facile brontolava poesie come: "Presso la culla in dolce atto d'amore," era questo un verso dei suoi preferiti in quanto non gli era mai capitato di ricordarne il seguito a cominciare già dal secondo. Allora ripeteva tante volte il primo, ora piano, ora gridando come un ossesso, infuriando contro gli oggetti, libri, quaderni, seggiole, fino a distruggere l'intera stanza.
Appena sicuro di aver perduto ormai ogni traccia di ragionevolezza, tornava in sé e si prodigava a riparare i danni come meglio poteva.
Era fornitissimo in attrezzi, nastri isolanti, mastice, anche per porcellane. Si metteva al lavoro fino a sera. Durante questa seconda fatica, rimasticava ancora qualche verso, preferibilmente uno della stessa lirica che prima lo aveva sconvolto e stavolta sempre l'ultimo in modo che non c'era un seguito da ricordare, ma pace, una certa soddisfazione, come l'avesse detta tutta a memoria d'un fiato.
Perciò riparava i mobili e raccattava i libri e i cocci ripetendosi "avrai riposo." Sempre durante questa sua operazione di restauro, gli sembrava che suo padre fosse lì a consigliarlo e lui approvava monotono finché non si pestava un dito col martello e allora gridava: "parole sante!"
Quanto tutto era in ordine, lavava il pavimento. Poi si vestiva di tutto punto e usciva dalla cucina tirandosi dietro l'uscio. Si precipitava nella legnaia giù nel cortile e, ricavatone un paio di stampelle, risaliva le scale, rientrando agilissimo sui legni, ma per l'ingresso principale. Traversava l'anticamera e, una volta sulla soglia della sua stanza da lui riordinata, sostava soddisfatto sulle grucce, scandendo forte in tono di incoraggiamento, forte perché una intera fabbrica lo udisse: "Bene bene bene!" Quindi enfatico si avviava al balcone schiarendosi la voce e sorridendo ai lati. Alla balaustrata, guardando giù, vedeva ora tanta gente ora nessuno. Doveva fare un discorso. Era combattuto, non già dal panico, ma dalla voglia di buttarsi di sotto. Questa tentazione gli era diventata un tic. Aveva risolto di difendersene razionalizzando la frequenza delle sue relazioni pubbliche, senza peraltro ridurla. Profittando di una pausa e liberatosi dalle grucce, si sottraeva al balcone, guadagnandosi per quell'affresco di scala la terrazza comunque nella apprensione dell'eccesso di quella pausa. Una volta al parapetto, si ascoltava come un oratore dotato di più metodo, o confortato dal principio che di lassù poteva concepirsi unicamente un suicidio di massa. E il suo porgere rinunciava alla lirica per assumere in contraccambio il tono più minuto dell'analisi, certamente al riparo dalle possibilità sintetiche del primo piano. Di lassù poteva raccontare e diffondere tutto quanto non pagato di persona, e tuttavia sviscerato, non oggetto di qualsivoglia psicosi. Suonava l'angelus e le folle non intendevano rincasare per una sola parola in più di lui. E allora cominciava una specie di rosario gentile. Lui diceva umilmente: "buona sera," e quella folla di rimando a lui, essa pure umilmente: "buona sera." Doveva sempre abbandonare quel rosario a un certo mistero poiché la commozione lo obbligava, col pretesto di mettersi in ginocchio, a sottrarsi al parapetto. E sempre ch'era notte.
Si calava giù per quell'abbozzo di scala in preda a un terrore ordinario, per cui si ripeteva ad ogni ostacolo: "Non son degno, non son degno!"
Entrò in cucina e stava per affrontare l'anticamera, ma lo sguardo gli urtò nel calendario appeso all'angolo, un calendario ecclesiastico davvero aggiornato. Il cuore gli prese a correre perché non c'erano dubbi, era quello il giorno in cui i vescovi avrebbero dovuto riunirsi proprio in casa sua, per decidere la sua santità. Lo confermavano le voci concitate e il fruscio delle vesti, tutto l'oro dei paramenti e il rosso sfolgorante dentro il telaio della porta di fondo chiusa, oppure incastonato come un diamante e un topazio e un rubino incastonati nella toppa vuota. Evidentemente quei dottori non avevano chiuso a chiave, sapevano che lui non avrebbe osato entrare in camera di concilio.
"Sono secoli che aspetto, meglio aspettare anche un anno in cucina, se no chissà quando se ne riparla," ecco presso a poco quel che avrebbe pensato un altro in quel frangente.
L'esperimento era delicato. I santi erano sempre tutti morti allorché se ne esaminava la grazia, lui invece era vivo più che mai. Se non altro il pudore di assentarsi in quella occasione. Per pudore almeno, avrebbe dovuto farlo.

Carmelo Bene, Nostra Signora dei Turchi, in Opere, Bompiani, Milano 2002, pp. 71-73.

giovedì 10 luglio 2008

Banane colombiane



Eccoci di nuovo soli. Tutto questo è così lento, così pesante, così triste… Presto sarò vecchio. E finalmente sarà finita. È venuta tanta di quella gente in camera mia. Han detto delle cose. Non mi han detto granché. Sono andati via. Sono diventati vecchi, miserabili e lenti, ciascuno in un angolo del mondo. [Però, quant'è bello Céline in portoghese]

Stanotte non ho chiuso occhio. Il mio corpo è coperto di macchie rosse. Mi gratto con la punta delle dita, leggermente, per evitare cicatrici. Se ci metto l’unghia, e la tentazione non manca, sono fottuto. Quando sono uscito dovevano essere le tre del mattino. Avevo battiti in testa, non ne potevo più. Le sentivo ancora passeggiare su di me, fregandosi le zampette dalla soddisfazione. Mi sforzavo di non muovere un pelo, e improvvisamente: zac. Accendevo la luce, scuotevo le lenzuola, e mi mettevo a frugare il letto come un pazzo. Nemmeno una. Nemmeno una che potessi finalmente schiacciare tra le unghie facendo schizzar sangue dappertutto. Vigliacche, escono solo col buio. E anche così, riescono a camuffarsi, ricoperte dalla polvere delle fessure e degli angoli ammuffiti della mia stanza. Lanciare un fiammifero su tutto ciò, dare alle fiamme il pagliericcio marcio, e danzare allegro nel rogo mentre quelle, crac, crac, scoppiano come castagne al fuoco.
L’umidità proveniente dal fiume mi entrava nelle ossa. Cessavo di sentire i rintocchi della campana della cattedrale. E la cosa peggiore è che non avevo più tabacco. Il prurito non mi tormentava più tanto, tranne sulle mani. Il prurito ai coglioni cominciò più tardi, in mattinata. Imprecavo da non so quanto tempo. Non si vedeva anima viva, neppure un ladro di macchine con cui chiacchierare e a cui chiedere una sigaretta. Finalmente ho trovato una panetteria aperta. Come sempre, le pagnottelle mi hanno fatto male. Ho un panetto di burro nascosto nella mia stanza. Scommetto che quella vecchia mignotta non riuscirà a trovarlo neppure mandando tutto all’aria. Non mi fregherà più. “Signor João… non può farsi da mangiare in camera…” La vecchia ha trovato un casco di banane putride sopra l’armadio: fu un pandemonio… Non comprerò mai più banane provenienti dalla Colombia. Le compri belle verdi, e due giorni dopo sono completamente marce.

giovedì 26 giugno 2008

Saldi d'estate: Leggiti un Aleph e guardane tre!

Vidi il popoloso mare, vidi l’alba e la sera, vidi le moltitudini d’America, vidi un’argentea ragnatela al centro d’una nera piramide, vidi un labirinto spezzato (era Londra), vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli specchi del pianeta e nessuno mi rifletté, vidi in un cortile interno di via Soler le stesse mattonelle che trent’anni prima avevo viste nell’andito di una casa di calle Fray Bentos, vidi grappoli, neve, tabacco, vene di metallo, vapor d’acqua, vidi convessi deserti equatoriali e ciascuno dei loro granelli di sabbia, vidi ad Inverness una donna che non dimenticherò, vidi la violenta chioma, l’altero corpo, vidi un tumore nel petto, vidi un cerchio di terra secca in un sentiero, dove prima era un albero, vidi in una casa di Adrogué un esemplare della prima versione inglese di Plinio, quella di Philemon Holland, vidi contemporaneamente ogni lettera di ogni pagina (bambino, solevo meravigliarmi che le lettere di un volume chiuso non si mescolassero e perdessero durante la notte), vidi insieme il giorno e la notte di quel giorno, vidi un tramonto a Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa nel Bengala, vidi la mia stanza da letto vuota, vidi in un gabinetto di Alkmaar un globo terracqueo posto tra due specchi che lo moltiplicano senza fine, vidi cavalli dalla criniera al vento, su una spiaggia del mar Caspio all’alba, vidi la delicata ossatura d’una mano, vidi i sopravvissuti a una battaglia in atto di mandare cartoline, vidi in una vetrina di Mirzapur un mazzo di carte spagnolo, vidi le ombre oblique di alcune felci sul pavimento di una serra, vidi tigri, stantuffi, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte le formiche che esistono sulla terra, vidi un astrolabio persiano, vidi in un cassetto della scrivania (e la calligrafia mi fece tremare) lettere impudiche, incredibili, precise, che Beatriz aveva dirette a Carlos Argentino, vidi un’adorata tomba alla Chacarita, vidi il resto atroce di quanto deliziosamente era stata Beatriz Viterbo, vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo.

Jorge Luis Borges, L’Aleph.






giovedì 5 giugno 2008

Penélope, detta Pe, a Calcutta



Da Roberto Bolaño, “I miti di Chtulhu”, ne Il gaucho insostenibile (traduzione di Maria Nicola), Sellerio, Palermo 2006, pp. 176-177:


La vicenda di Penélope Cruz in India è all’altezza dei nostri più insigni prosatori. Penélope, detta Pe, arriva in India. Visto che le piace il colore locale, che le piace l’autenticità, va a mangiare in uno dei peggiori ristoranti di Calcutta o di Bombay. Così racconta Pe. Uno dei peggiori o uno di quelli che costano meno o uno dei più popolari. Sulla porta vede un bambino affamato che a sua volta non le toglie gli occhi di dosso. Pe si alza ed esce e chiede al bambino cosa vuole. Il bambino le chiede se può avere un bicchiere di latte. Strano, perché Pe non sta bevendo latte. In ogni caso la nostra attrice si fa dare un bicchiere di latte e lo porta al bambino, che rimane sulla porta. Subito il bambino beve il bicchiere di latte sotto lo sguardo attento di Pe. Quando ha finito, racconta Pe, lo sguardo di gratitudine e di felicità del bambino le fa pensare alla quantità di cose che lei possiede e di cui non ha bisogno, anche se su questo Pe si sbaglia, perché tutto, assolutamente tutto quel che possiede, le è indispensabile. Dopo qualche giorno Pe ha una lunga conversazione filosofica ma anche di ordine pratico con madre Teresa di Calcutta. A un certo punto Pe le racconta questa storia. Parla del necessario e del superfluo, dell’essere e del non essere, dell’essere in relazione a e del non essere in relazione a, a cosa? e come? in fin dei conti cos’è questa storia dell’essere? essere se stessi? Pe si confonde. Madre Teresa, nel frattempo, non la smette di aggirarsi come una donnola reumatica per la stanza o sotto il portico che le ripara entrambe, mentre il sole di Calcutta, sole balsamico e insieme sole dei morti viventi, sparge i suoi raggi estremi calamitato già dal ponente. Ecco, ecco, dice madre Teresa di Calcutta, e poi mormora una cosa che Pe non riesce a capire. Cosa? dice Pe in inglese. Sii te stessa. Non preoccuparti di sistemare il mondo, dice madre Teresa, aiuta, aiuta, aiutane uno, porgi un bicchiere di latte a uno soltanto e questo basterà, adotta un bambino, soltanto uno, e questo basterà, dice madre Teresa, in italiano e con evidente malumore. Al cader della sera Pe torna in albergo. Si fa una doccia, si cambia d’abito, si mette qualche goccia di profumo ma non riesce a togliersi dalla testa le parole di madre Teresa di Calcutta. Al momento del dolce, di colpo, l’illuminazione. Tutto sta nel privarsi di un pizzico microscopico dei suoi risparmi. Tutto sta nel non tormentarsi. Se dai a un bambino indiano dodicimila pesetas all’anno starai già facendo qualcosa. Non tormentarti e non farti problemi di coscienza. Non fumare, mangia frutta secca e non farti problemi di coscienza… Il risparmio e il bene sono indissolubilmente uniti.

Rimangono alcuni enigmi a fluttuare come ectoplasmi nell’aria. Se Pe aveva mangiato in un ristorante che costava così poco, com’è che non le è venuta una gastroenterite? E perché Pe, che i soldi li ha, andava a mangiare precisamente in un ristorante di quel genere? Per risparmiare?


Repetita iuvant: Roberto Bolaño, “I miti di Chtulhu”, ne Il gaucho insostenibile (traduzione di Maria Nicola), Sellerio, Palermo 2006, pp. 176-177:

giovedì 24 aprile 2008

Che hai detto, scusa?

L’altra sera parlo a un amico mio di un racconto di Tommaso Landolfi, “La passeggiata”, e lui subito (Dio mi guardi dagli amici...): “Me lo fotocopi la prossima volta?”. Ora io mi domando e dico: che sulla mia fronte c’è scritto “fotocopiatrice”? Sono pigro, fuori piove, non ho voglia di uscire e meno che mai di fotocopiare: il racconto ce l’ho in un tascabile della BUR (Tommaso Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino, pp. 490-492), e quei libretti se li apri troppo c’è il rischio che ti si sfaldino. Lo trascrivo, che si fa prima, e alla fotocopiatrice vacci tu.

TOMMASO LANDOLFI
La passeggiata

La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!…
Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
— Dove le porti?
— Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per loro.
— E il mivolo, o il gobbello?
— Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall’exoasco o dall’oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l’aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio… E c’era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l’empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!…
Alla fodina ormai l’acqua da tant’anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.
— O tu?… Beh, che si fa di bello al distendino?
— Uhm, poco di bello: il padrone s’è dato piuttosto alla moatra.
Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via…
— Già, — riprese, — da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le ingordine.
— Bravo davvero il tuo padrone!
— Mah, si sa bene, quando la s’infaona…
— E qui ora che ci fai?
— Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.
— Ah, ecco; e come…
— Coi prostomi e colle molleche, — rispose pronto.
Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s’ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.
Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v’era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all’ipartia… Quanti pensieri, quante fantasie m’invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d’una volta: “Inguala!”, e via per iciche, per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch’essa ormai perso la sua virtù?…
Ah, s’era fatto tardi: sull’afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull’atropa l’atropo, sull’agrostide l’agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s’udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.
— Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l’anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni cosa per sé solo.
Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.