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martedì 20 settembre 2022

Carlo Calenda Will Survive!

Qui è chiaro che il nostro ha sbagliato mestiere. Ottimo invece se interpretasse un candidato in un mockumentary/found footage.
Pensiamoci, non manca niente: la location derelitta "dietro casa del regista" che si è autofinanziato con il crowdfunding, la messa a fuoco come fosse tredici alla schedina, la macchina a mano traballante che bracca il protagonista alle spalle, la presa diretta "sento/non sento"…
Con la venatura horror d’ordinanza, con lui che parla sempre di "Quelli-Che-Vivono-Qua" e che però non si vedono mai, chissà chi sono e dove si nascondono, chissà se esistono veramente, ogni spettatore può farsi la propria terrorizzante idea, archetipo jung-vanziniano…
Solo nell’ultima immagine del film, un lampo d’inquadratura, eccoli, forse SONO LORtitoli di coda.

Il titolo del film è perfetto, anche per la sua componente meta insita nello stesso sottogenere:
AZIONE

Lui ha proprio quel perfetto physique du rôle da uomo qualunque imbolsito dagli anni e l’accidia (ma sotto il grasso i muscoli di un tempo non sono del tutto scomparsi), al quale però accadono cose DAVVERO FUORI DALL’ORDINARIO come in certi melgibson o brucewillis shyamalaneschi.
Con la coppia di spettatori e lui che fa
- ma quello… non è… tipo… il bambino di…
- NOOO! È vero, cazzo! Il bambino di "Cuore"! Madonna che gli è successo, poverino, che gli hanno fatto, ma allora è proprio vero quando si dice che [una cosa che si dice che, a caso]…

Con "il personaggio femminile" (Gelmini Carfagna Boschi Bellanova Pastorella), l’unica che alla fine sopravvive, come da trito copione. Ma COME sopravvive? Certo non pulita-illuminata-bene come nella foto profilo dei social, no, ma imbrattata di fango sudore e sangue, mentre fissa la cinepresa urlante e sghignazzante: forse contaminata, o forse anche solo impazzita…

Oppure alla fine ritroviamo lei e Charles Calenda (un uomo medio contuso dalla vita ma sotto tutti quei lividi esistenziali cova un grumo di nervi tesi pronto a esplodere e inzaccherare mezzo isolato), solo che uno dei due si è trasformato in Quelli-Che-Vivono-Qua. Lo spettatore non sa quale dei due sia, dietro quale dei due si nasconda uno di Quelli-Che-Vivono-Qua, anche se su reddit ci sono un paio di thread in cui gente che lo ha capito te lo spiega in modo anche abbastanza convincente.

martedì 30 novembre 2021

Quite an experience to live in fear, isn't it?

Il video autoprodotto e diffuso online in cui l'intellettuale di ultradestra Eric Zemmour ha annunciato la sua candidatura alle prossime presidenziali francesi pertiene, non del tutto a caso, a quel sottogenere fantascientifico che chiamerei "ucronia inconsapevole" o "distopia senza alternative". Quel sottogenere non esiste, o esiste come truffa più o meno volontaria: a crearlo è lo scarto, da un canto, tra le attese del lettore o dello spettatore e, dall'altro canto, la progressiva indifferenza del racconto nei confronti di quelle attese. Per chi come me ha attraversato l'immaginario cyberpunk, retrofitting o semplicemente vintage con in mente l'opera di Philip K. Dick l'errore suonerà familiare: libri, ma soprattutto film e serie tv in cui abbondano le incongruenze, l'oggettistica desueta (qui la biblioteca, il microfono alla De Gaulle), sembrano invocare come diceva Borges "la promessa di una rivelazione" che però "non si produce". Solo che per Borges questa era la definizione del fatto estetico, mentre nel mio caso quell'assenza di un satori, magari imperfetto e collassante (il finale preparatissimo de L'uomo nell'alto castello, quello annunciato con qualche minuto d'anticipo in The Village di M. Night Shyamalan, l'urlo improvviso ma inevitabile e necessario di Laura Palmer alla fine di Twin Peaks – The Return) ha sempre prodotto una sensazione di noia sinistra. Un buon esempio: il reboot 2004-2009 della serie Battlestar Galactica, che mi piaceva ma che ho abbandonato in corso, quando ho capito che quella "Terra", quel vecchio telefono a rotelle nelle astronavi, non avrebbero trovato una soluzione anche solo parzialmente logica, che quel passato nel futuro era un dato, così come in rete lo sono quegli orrendi "stacce", quei ", punto.".
Zemmour punta su questo trucco da apprendista stregone, qui come in tutto una caricatura ("un Trump acquistato su Wish", lo ha definito il portavoce del governo Gabriel Attal, forse l'unica sua dichiarazione azzeccata da quando è in carica). Sembra averne una qualche consapevolezza, forse si sta divertendo, e certo la sua retorica della nostalgia, tutta un'estetica da paccottiglia (il Kitsch, ossia l'artefatto pensato in partenza per piacere a "tutti" in un momento dato, o per terrificare "tutti", è uguale e ci sono ambedue), attinge a piene mani al tutt'altro che favoloso, bensì terrificante, destino di Amélie Poulain, laddove il termine "destino" è da sempre in Francia monopolio della destra più retriva e sanguinaria. (1)
A un futuro mostruoso e virale (l'Islam dilagante, l'omosessualità, la svendita dei gioielli di famiglia allo straniero) rappresentato in forma di violenza folle e generalizzata, come nei prologhi dei film postapocalittici, si contrappone un passato altrettanto immaginario, appunto quello delle images d'Epinal, del Lagarde et Michard, di icone cinematografiche per me tanto adorate quanto oggettivamente compromesse fuori dallo schermo: Gabin, Delon, Bardot (anche se in realtà non ho mai perso la testa per lei). Il presente non esiste, c'è solo un conto alla rovescia che si avvicina alla fine del mondo, salvo portare le lancette del vecchio orologio a pendolo, quello che "dit oui, qui dit non, qui dit 'Je vous attends'", all'indietro, al momento inafferrabile e straziante in cui Zemmour ha deciso che tutto era "luxe, calme et volupté", e poi fermarlo: per sempre. Come in Underground di Emir Kusturica. Una variante di quel sogno è il futurismo anni Sessanta; e l'idea di una Francia che "takes back control" a colpi di eccellenza tecnologica, di aeronautica, non manca nel video: ma nel contesto generale suona come un omaggio (volontario?) a Iron Sky o ai Wolfenstein della Bethesda.
La reductio ad Hitlerum non è difficile, al punto che sembra in qualche modo presa in conto ed esposta (con candore? per provocazione? irresponsabilmente? o per "espièglerie", giocosità alla Gavroche, il bambino dei Misérables con cui Zemmour si identifica probabilmente da sempre e che viene menzionato nel video?). Come sfondo musicale, il secondo movimento della Settima sinfonia di Ludwig van Beethoven. Sotto il Terzo Reich era chiamata "La Sinfonia della Vittoria Nazista". Fu trasmessa per celebrare il compleanno del Führer dalla radio tedesca Il 20 aprile 1945, mentre Berlino era rasa al suolo dalle bombe sovietiche. Al mattino, Adolf Hitler usciva per l'ultima volta dal bunker per consegnare Croci di ferro a qualche bambino della Hitlerjugend (Gavroches teutonici?). Dieci giorni dopo si suicidava.


(1) DESTIN. — C'est au moment même où, l'Histoire témoignant une fois de plus de sa liberté, les peuples colonisés commencent à démentir la fatalité de leur condition, que le vocabulaire bourgeois fait le plus grand usage du mot Destin. Comme l'honneur, le destin est un mana où l'on collecte pudiquement les déterminismes les plus sinistres de la colonisation. Le Destin, c'est pour la bourgeoisie, le truc ou le machin de l'Histoire.
Naturellement, le Destin n'existe que sous une forme liée. Ce n'est pas la conquête militaire qui a soumis l'Algérie à la France, c'est une conjonction opérée par la Providence qui a uni deux destins. La liaison est déclarée indissoluble dans le temps même où elle se dissout avec un éclat qui ne peut être caché.
Phraséologie : "Nous entendons, quant à nous, donner aux peuples dont le destin est lié au nôtre, une indépendance vraie dans l'association volontaire." (M. Pinay à l'ONU.)
Roland Barthes, Mythologies ["Grammaire africaine"], 1957, ora in Roland Barthes, Œuvres complètes, Paris , 1993, p. 648.

mercoledì 20 ottobre 2021

Stenshots



sabato 2 ottobre 2021

Old (M. Night Shyamalan, 2021)

A poche ore dalla visione di Old, direi che il film a cui somiglia di più guardando all'opera di M. Night Shyamalan è The Happening, che fu distrutto anche dai critici in precedenza più favorevoli all'autore. Avendo capito con notevole ritardo il suo talento (fino a The Village, che rivalutai pochi giorni dopo averlo visto, mi era piaciuto solo Unbreakable; Il sesto senso resta quello che mi interessa meno; all'uscita avevo trovato imbarazzante Signs, che invece è un capolavoro), ho sempre visto The Happening con uno sguardo più che benevolo. Qui si ritrova quella frontiera a suo unico modo perfetta tra il ridicolo supremo e un terrore letteralmente assoluto: quell'universo è retto da regole granitiche, completamente chiuso in se stesso, al contempo assurdo visto dal di fuori e sottoposto a una logica ferrea visto dall'interno. (L'opposizione trova un punto mediano nella figura di Shyamalan stesso, che da personaggio osserva con professionale costanza, con spietatezza oscena la scena.) È un'esperienza sgradevole, cui ancor prima di noi si piegano i personaggi e i loro interpreti: come in The Happening, si pensa alla distanziazione ma calata in un film di genere, in modo tale da sembrare presuntuosa e infine ridicola. In realtà la loro è inerzia qohéletiana, una stanchezza ontologica, che era anche presente in alcuni splendidi momenti di Glass, dove i personaggi sembrano adeguarsi torpidamente, quasi sonnambolicamente a un copione scontato, trito. Era già la cifra di Unbreakable, ma in alcune sequenze di Glass è proprio calcato, per esempio l'indulgere di Bruce Willis sul cadavere del guardiano, lo guarda, lo riguarda, e se non erro lo riguarda ancora una volta. Subito dopo la fatica di prendere il "costume da supereroe", il film è pieno di queste lentezze, in qualche modo giustificate dall'idea di un "regista" interno al film, ossia Samuel L. Jackson (e ancora una volta, in Old, lo stesso Shyamalan) con il suo controllare tutte le telecamere di sorveglianza, le riprese e la successiva proiezione pubblica via web, ecc. ecc. Questo tracollo della volontà è anche una caratteristica dei replicanti in Blade Runner, molto più netta nel romanzo di Dick che nel film. In Old è proprio detto, per quel che possono valere le cose dette: "Why did we want to leave this beach?". E in effetti se dovessi cercare difetti evidenti (oltre a tutti quelli sfuggenti) in Old uno dei due sarebbe un certo didascalismo in alcuni dialoghi, e in particolare nel momento in cui si tenta di "risolvere" il buco nero della sceneggiatura (come può un invecchiamento iperaccelerato portarsi appresso l'evoluzione psicologica, culturale, linguistica, da un bambino a un adolescente e da un adolescente a un adulto?). Ma quelle di Old sono comunque, naturaliter (una natura ancora una volta folle, spietata, brutale e coerente, tutto insieme) "parole al vento": immemori del passato e senza futuro.
(Il secondo difetto del film sta in una certa mano sinistra nell'esecuzione del finale, che da quel che ho capito è diverso da quello della graphic novel. Quella diversità però è comunque benvenuta e lungimirante, in termini di cinema, di un certo cinema, del cinema di genere e della poetica acrobatica di Shyamalan. La sua resa insoddisfacente può essere imputabile sia a un eccesso di programmaticità, sia alle difficoltà legate a molti film girati in tempo di pandemia.)

Intanto Shyamalan, reduce dall'esperienza di Servant (una miniserie di due stagioni, con pochi episodi di 26 minuti, quelli da lui firmati sono il miglior horror degli ultimi anni) dimostra che per fare Lost non servivano seicento ore. Ne basta una e mezza o poco più. (Anche perché si era capito tutto fin dal primo episodio.) Quindi ricorda che anche il buñueliano L'angelo sterminatore (riferimento evidente, ho scoperto oggi che è dichiarato sfacciatamente nel film) era un capolavoro ridicolo, nel suo affidare una metafora ben più fulminante di qualsiasi Beckett o Ionesco a un cast di attori messicani: e funziona meglio di Beckett e Ionesco anche perché gli attori sono "cani maledetti". Infine porta a quello che mi sembra essere il limite estremo la sua concezione dello spazio: qui ridotto a uno straccio di spiaggia, una baia concava, letteralmente una quinta teatrale dal fascino discreto e al contempo pacchiano, circondata da scogliere digitali, scalabili nello spazio ma non nel tempo, chiusa da un oceano che a seconda delle inquadrature sembra pacifico o invalicabile. Quella curva di un centinaio di metri appena non è mai dominabile se non in rari totali divini (il Dio antico, mostruoso), mentre ad altezza d'uomo si declina in primi piani o comunque in inquadrature ravvicinate, in modo tale che questo spazio chiuso e lineare non rivela mai una sua organizzazione, come già era evidente nel condominio di Lady in the Water e nella piazzola-parcheggio dove si esaurisce tragicamente l'ultima parte di Glass. Un giardino dai sentieri che si biforcano senza sentieri e senza biforcazioni. Del resto non so quando e dove Borges abbia detto o scritto che è il deserto, il labirinto per eccellenza.
Old è il perfetto e raro esempio del brutto film che non dimenticherai mai più. Il cinema conta sempre più bei film. Ma ce ne fossero, di "brutti film".

giovedì 13 maggio 2021

In the Earth (Ben Wheatley, 2021)

Quatto quatto e per quattro sterline, Ben Wheatley (uno dei registi più interessanti degli ultimi dieci anni) ti rifila con In the Earth il primo film sulla pandemia.
Lo fa dimostrando che nel cinema la sceneggiatura conta poco o nulla: in questo caso fa acqua da tutte le parti. Regia e montaggio trasformano ogni singola falla nello scafo in nesso onirico. Il Covid-19 è un incubo, dove la coppia di turisti psicopatici di Sightseers finisce nell'huis clos a cielo aperto di A Field in England: l'inferno sono più che mai gli altri, anche se fortunatamente a Sartre non si pensa mai, piuttosto a Shyamalan, al Peter Strickland di Berberian Sound Studio, alle famiglie di attori scorrette, scorreggione, esilaranti e spaventose di Inside No. 9 e di The League of Gentlemen (qui rappresentata da Reece Shearsmith, forse il più Proteo di tutta la cricca, sempre irriconoscibile e immediatamente identificabile), forse agli splendidi The Battery, Tex Montana Will Survive! e After Midnight di Jeremy Gardner, nonché, ovvio, a tutta la tradizione british del folk-horror, rivisitata con massima sprezzatura e minimo disprezzo, così come di fatto quella tradizione ha sempre fatto nei confronti di se stessa, è la sua forza, è per quello che sopravvive e "a volte ritorna".
Un incubo, sì, ma un incubo cinematografico. Wheatley sa che è un ossimoro, perché l'incubo è squisita espressione soggettiva, mentre il cinema conosce solo il racconto in terza persona. Quindi anche David Lynch. Quindi anche Stanley Kubrick. E detto sottovoce, quatto quatto, molto Ben Wheatley.
(Cinque virgola due su imdb. Contenti loro.)


P.S.: L'immagine che ho scelto si trova poco dopo l'inizio – splendido e "seminale": una serie di incomprensibili variazioni sulla mascherina, chi ce l'ha, chi non ce l'ha, chi la toglie e chi la rimette: senza che mai si colga una logica sanitaria o narrativa – e credo sia quasi una costante nell'opera di Wheatley. Segue un movimento di macchina kubrickiano, di avvicinamento minaccioso o gnostico, ma senza che la distanza tra la cinepresa e i personaggi venga realmente colmata o anche solo ridotta. Mi son chiesto come si ottenesse quell'effetto, e rivedendo la sequenza un paio di volte credo che sia combinando un carrello avanti con una lievissima panoramica verticale verso l'alto, che di fatto "toglie la terra da sotto i piedi" dando l'illusione o la segreta verità di uno spazio umano che si riduce.

martedì 1 luglio 2014

Gufi

Perché il gufo gufò? Perché il picchio picchiò.
Throper Fallcaster, collezionista di freddure sugli uccelli e 54° caso esaminato in The Falls (Peter Greenaway, 1980).

Da sempre, appena sento la parola "gufo", la prima cosa a cui penso è un racconto di Ambrose Bierce, An Occurrence at Owl Creek Bridge, che lessi da bambino. Fu pubblicato nel 1890 sul "San Francisco Examiner". Un anno dopo Bierce lo inserì nella raccolta Tales of Soldiers and Civilians. Il titolo riporta chiaramente alla Guerra civile americana. Ma nel racconto che mi colpì (questo blog racconta esclusivamente la storia di un uomo "marqué par une image d'enfance") il contesto storico è irrilevante. Anche i gufi c'entrano poco. Si limitano a dare il nome a un ponte, dove inizia e finisce la storia. Dove finisce, soprattutto. Anche se in realtà finisce dove inizia. Anche se in realtà finisce come inizia.
Sono appena dieci cartelle, ma a causa della trovata finale ha segnato per sempre la storia della narrativa mondiale, e in particolare la narrazione fantastica. Quando incombeva plumbea "l'egemonia culturale della sinistra" e "i professoroni" terrorizzavano la nazione, l'italiano disponeva di decine di migliaia di parole, e in quella babele poteva persino permettersi di ospitare vocaboli repellenti. Per il racconto di Bierce, possiamo star certi che sarebbe stato usato il mostruoso aggettivo "seminale". Oggi, fortunatamente, quell'epoca cupa si è conclusa, e con le nostre 500 parole non riusciremmo neppure a raccontare un fine settimana di Maigret, ma almeno "famo a capirci" e diciamo che il racconto di Bierce è "’na robba".
In letteratura, la stoccata finale delle varianti di Owl Creek Bridge la dà Borges nel suo più bel racconto, El Sur. Fu pubblicato assieme a due altri testi nella seconda edizione di Finzioni. Il colpo di genio di El Sur è l'azzardo supremo: eliminare del tutto la trovata finale per disseminarla lungo tutto il testo, in tal modo che solo il lettore più malizioso potrà sospettare la soluzione (e, più che sospettarla, sentirla: sentirse en muerte, come titolava il primo esperimento narrativo di Borges, ispirato al medesimo incidente autobiografico: un incidente "seminale"). È un'operazione squisitamente letteraria. Molti anni dopo, chiudendo il cerchio, Roberto Bolaño trasformerà il tutto in splendido e mediocre sberleffo, con El gaucho insufrible. Il pastiche di Bolaño elimina il colpo di scena, semplicemente. Non lo trovi né alla fine del racconto, né all'inizio, né durante. È bellissimo.
Al cinema i nipotini di Bierce riempirebbero un orfanotrofio dickensiano (per non parlare della televisione: quel racconto è praticamente il palinsesto di qualsiasi episodio di The Twilight Zone). Il mio preferito è Carnival of Souls di Harold Arnold "Herk" Harvey (dopo quel film, di "Herk" credo non si seppe più nulla). E non solo perché assieme a L'ultimo uomo della Terra di Ubaldo Ragona ispirò a Romero La notte dei morti viventi. Ma anche per quello. Il film più famoso è invece Il sesto senso di M. Night Shyamalan, che a me però non ha mai convinto perché non c'è colpo di scena, per quanto sorprendente (e dal 1890 quel colpo di scena non sorprende più), che giustifichi la tortura di un racconto psicologico. Shyamalan lo ha capito, e i film che ha fatto in seguito mi piacciono moltissimo.
Dal racconto di Bierce è stato girato un cortometraggio, La Rivière du hibou.



Subito dopo Bierce, quando sento la parola "gufo" penso a John Travolta, nel film in cui scoprii che John Travolta era un attore fenomenale. Blow Out è anche il film che preferisco di Brian De Palma. A ripeterlo rapidamente, diventa uno scioglilingua e sembra quasi di sentire il gufo gufare: blow out blow out blowlout.
La prima volta che Travolta raccoglie i suoi miserabili effetti sonori sul ponte dove inizia la storia (ma non finisce, anche se sempre lì si torna; mentre il film, che racconta un'altra storia, comincia prima e quindi finisce dove comincia), il gufo bubola e sembra guardarlo fisso negli occhi. Però quando la raccolta viene ricostituita mentalmente in studio, l'immagine si divide in due, la memoria si sdoppia razionalmente e schizofrenicamente, con il senno e la paranoia di poi: Travolta e il gufo guardano nella medesima direzione: verso l'incidente (o occurrence). Si chiama split screen, a De Palma piace molto perché a lui piacciono le cose più brutte, De Palma è lo spazzino del cine, se fosse italiano sarebbe capace di fare un film intitolato "Il bubolio seminale del gufo".
Naturalmente quell'immagine non l'hai più dimenticata.


Ma alla fine il gufo gufò gufò gufò.

lunedì 31 maggio 2010

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

XXII — LE DUE ZITTELLE

Riconosci il film da cui è estratto questo fotogramma e vinci tre ganascini. Nuove immagini giovedì (due ganascini) e sabato (un ganascino).
AGGIORNAMENTO: Nuova immagine. Due ganascini.

zittelle.jpg


ATTENZIONE: La partita si è conclusa sabato 5 giugno alle 12.07. Arco ha riconosciuto E venne il giorno (The Happening, 2008) di M. Night Shyamalan, film disuguale e finto vero tonto, con alcune sequenze memorabili (questa, ad esempio).
La prossima sfida si terrà lunedì 7 giugno.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
arco: 6 ganascini.
oscar amalfitano: 5 ganascini.
Strelnik: 4 ganascini.
bianca: 3
ganascini.
dario: 1 ganascino.
nessundorma: 1 ganascino.

giovedì 1 gennaio 2009

Vedi Fontana e poi muori

Lucio Fontana
Concetto spaziale "Attesa"
1960