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mercoledì 21 luglio 2021

sabato 18 aprile 2015

Leggendo "La Carte et le territoire"

Quell'incrocio tra rue d'Assas e rue Vavin è un punto fermo della mia topografia anni Ottanta. A pochi metri (rue Vavin) si trovava il primo videoclub che frequentai, all'epoca ce n'erano pochissimi, una mezz'ora buona a piedi dal ciglio di Montparnasse, sul punto di diventare "Duroc": esisterà ancora, quel no man's land chiamato "Duroc"? e quel cinema storico, chiaramente una sala di teatro ottocentesco, dove rividi bambino, a colori, tutti i Jerry Lewis adorati pochi mesi prima a Roma sulla tv in bianco e nero? (Perché già allora non mi facevano più ridere? perché a quarant'anni, mostrandoli a mia figlia, mi fecero ridere di nuovo? E mi fecero ridere come una volta? O diversamente?) Come si chiamava? Le Ranelagh? Ma no, quello era dall'altra parte della città, all'epoca la padroneggiavo tutta, quell'immensa metropoli; poi qualche anno fa scoprii che non era affatto immensa; era piccolissima. È vero, te lo garantisco, Parigi è molto piccola, tranne il quindicesimo arrondissement che ha dimensioni variabili e infernali, ma quando feci questa scoperta, quando scoprii che il quindicesimo era infinitamente più grande di Parigi, non padroneggiavo più neppure il mio spazzolino da denti. Anche Le Dingue du palace era a colori, in quel cinema ("Les Ursulines"? macché). No, non è vero, The Bellboy l'ho scoperto con mia figlia pochi anni fa senza poterglielo spiegare, io ai bambini posso insegnare il cinema, non la lineare A.
Avrò avuto undici anni, al massimo dodici. È in quel negozietto che recuperai tutto Romero, Non aprite quella porta, The Toxic Avenger e tutto il peggiore orrore trash che puoi immaginare (ma anche Rohmer, Godard, La furia umana di Walsh, Buñuel, qualsiasi cosa mi capitasse a tiro). Mia madre mi lasciava prendere tutto, solo un film era verboten: Cane di paglia di Peckinpah. Ovviamente lo presi alla prima occasione buona, mentre lei era in viaggio.
A rue d'Assas invece c'era quel palazzo demente in mattoni rossi davanti al quale si siede il protagonista del romanzo di Houellebecq. Pochi anni dopo ci andai con Bohdan Paczowski, voleva fotografarla, non ricordo più perché. Ricordo (ma forse sbaglio) che era notte. Voleva fotografarla di notte? E perché?






sabato 6 ottobre 2012

Le Repas de bébé

Moi, je connais de jolies histoires. Et je fais de belles cocottes en papier !

Mi sono accorto che Mon oncle è un film senza primi piani. Il vocabolario di Tati pare non conoscerli. Ormai una scelta del genere mi pare più audace (o tignosa) di quella di un Chaplin che disdegna il sonoro. Il massimo di avvicinamento ai personaggi è in queste due inquadrature. Entrambe vedono il bambino in identica posizione: annoiato.


Per certi versi è come se Tati perseguisse deliberatamente la visione non antropocentrica dei primi Lumière, forse passando attraverso l'esperienza percettiva del circo (di cui non so nulla). Di tutti i personaggi di Mon oncle, Hulot è il meno visibile e Tati vuole che sia così: si piega, si volta, mette la mano davanti alla faccia appena ne ha l'occasione e a volte sfidando la cosiddetta naturalità (infatti non è natura ma cultura). Forse anche in reazione all'eccessivo protagonismo chapliniano (penso in particolare a Tempi moderni e al Grande dittatore), anticipando e oltrepassando l'aspetto programmatico di un Film keatonbeckettiano. Il corpo fisico di Hulot, il suo sfumare progressivamente nell'indistinto (sempre meno corpo), fino all'astrattezza (sempre meno fisico), diventa insomma il manifesto (locandina del suo aiuto regista Pierre Etaix) dell'immagine cinematografica secondo Tati. L'occhio dello spettatore non è guidato, non è diretto: non a caso l'evoluzione dell'opera tende alla bidimensionalità, alla composizione pittorica non figurativa, in modo sempre più netto e a volte arduo se non faticoso (Trafic, alcune parti di Playtime). Monsieur Hulot attraversa questi spazi, ma in modo sempre meno "umano", e il nostro sguardo, che vorrebbe seguirlo, si perde nelle figure geometriche, nei poligoni colorati dello schermo. Più che di miopia, si potrebbe parlare di strabismo. Infatti era tutto previsto fin dai primordi: il leader Jacques Tati è un chiodo.

[Quando pubblicai il post qui c'era un video ora irreperibile. Quelli di StudioCanal sono completamente idioti.
La sequenza è comunque celeberrima: imprevisto giorno di festa al villaggio, il volenteroso postino Tati si propone non richiesto di dirigere "i lavori", ci sono "cose" da allestire, montare, costruire in fretta e furia. Tra queste, piantare un chiodo nell'estremità di un'asse di legno. Lui tiene fermo il chiodo sull'asse, un compaesano ripreso di spalle si presta a colpirlo con il suo martellone. E lo manca. Il chiodo è enorme, è il chiodo più grande della storia dell'umanità. E però lo manca: son cose che capitano. Allora Tati dice riproviamo. E quello lo manca di nuovo. Allora Tati lo guarda, e grazie a un primo piano scopriamo il volto del nostro martellatore. È completamente strabico. Pas d'problème: basta dirgli di colpire con il martello sull'estremità opposta, no? Lui esegue diligente, sbaglia come da copione, colpisce il chiodo ed ecco fatto. Semplicità.]

NOTE SPARSE:
1. Attraverso soluzioni non così diverse, si ritrova la medesima sensazione in alcune sequenze dei film di Jerry Lewis e in particolar modo nell'assolutamente folle Ragazzo tuttofare.
2. Andrea-Emilio Rizzoli mi fa notare: "Ricordo un suo cameo in un Truffaut (probabilmente Domicile conjugal) dove cercava di entrare in un vagone della metro, indeciso tra un ingresso e l'altro. Pochi secondi di arte assoluta". Me ne ero completamente dimenticato. Ho trovato la scena. Ho pensato "uh, ma quello non sembra Tati". Ma dato quel che si diceva poteva benissimo essere Tati, appunto, perché in qualche modo "non si somiglia". Ho cercato in un libro su Truffaut: l'attore che interpreta Tati che interpreta Hulot si chiama Jacques Cottin. QED. (Fatte ulteriori ricerche. Vertiginoso, per usare un aggettivo roso dalle tarme.)
3. «La grand-mère dit: "Je vais me servir de la margarine X". Et le grand-père qu'on représente répond: "Mais tu es folle! A nos âges, on ne change pas nos habitudes!"» (professeur Y). E quindi, a progresso concluso, il futuro apparterrà ai cani, come insegna Simak. Intanto il furbissimo nipotino John Landis raccatta l'accendisigaro della "car of tomorrow" sull'autoroute: e chiede a Belushi di riscaraventarlo dal finestrino della bluesmobile.

giovedì 5 agosto 2010

Niente da vedere niente da nascondere

— Cambia il tempo…
— Ti prego, cara Giulia: non essere sempre così didascalica.
Giulia (Dominique Blanchar) e Corrado (James Addams) ne L'avventura (Michelangelo Antonioni, 1960).

— Vieni, cara!
— Eh, sto controllando il soffritto…
— Ma vieni, cazzo! Corri!!
— Ma che c'è?!
— C'è Minzolini! Corri! Minzolini, cazzo, vieni!!! Corri…
— …
— …

Non è la prima volta che mi capita. Sarà almeno un anno che mi porto dietro questa sensazione, senza riuscire a darle un nome.
Ma perché grido così.
La vanità dell'urgenza, quasi dovesse veramente succedere qualcosa, e per salvare una miserabile rotella cipollina si perdesse chissà quale messaggio in codice, l'occhiolinata definitiva, la gestualità massonica dell'unirsi, incrociarsi, aggrovigliarsi di quegli artigli. Appuntarlo, inchiodarlo come una spaventosa farfalla rinchiusa in un quadro-bacheca, badando a non ritrovarsi tra i piedi quell'impiastro di Jerry Lewis.
Quelle dita, soprattutto. Cogliere il maneggio fuggente. Come quell'indimenticabile rotear di polso dell'ascensorista Shirley nell'Appartamento. E quando accade, soprattutto: avere un complice, accanto. Un testimone oculare.
Quindi, il ricadere dell'attenzione, schiacciata dall'evidenza del tutto. La compattezza scomposta di quegli "editoriali" ti vota al fallimento, sempre, lasciandoti con la certezza che il particolare essenziale ti è sfuggito, anche stavolta. Semplicemente perché non c'era.

L'indomani sono in auto, e mi vengono addosso colline, vigneti e olivi, ce n'è uno smisuratamente alto, come certi alberi del nordovest americano, dove non sono mai stato. Un carrello in avanti (quelli laterali sono un'esclusività del solitario di Croisset), e di colpo penso, e aggravando il satori con un'emissione pomposa dico ad alta voce: "Minzolini è un paesaggio".(1)
O un tramonto. Stai lì a guardarlo, ma con i nervi tesi, mai sereno ("sono sereno" era la frase preferita dei politici un attimo prima del tintinnar di manette, questo lo ricordo come fosse ieri). Ci fosse un raggio verde, chi può mai dire? E in quel caso, l'opportunità di brillare, vedendolo per primo in un istante preciso, indimenticabile, collocabile nello spazio della memoria, lasciando un'indelebile incisione nell'immaginario altrui: "Guarda! Hai visto?!". Oppure pensare che la tua ansia insoddisfatta partecipi dell'orizzonte, modificandolo nel delirio solipsistico riservato ai bambini o a certi tedeschi ("C’è un tale in Germania, uno tipo Fritz. O Werner. Ha questa teoria: se vuoi fare un test, tipo perché i pianeti girano attorno al sole, di cosa sono fatte le macchie solari, perché l’acqua esce dal rubinetto, insomma queste cose devi guardarle. Ma quando le guardi, a guardarle le cambi. E a quel punto non sai più cosa è successo, o cosa sarebbe successo se non ci avessi ficcato il naso. Si chiama 'Principio d’indeterminazione'. Sembra un delirio, ma persino Einstein dice che quel tale ci ha preso").
E invece. Niente da vedere niente da nascondere. Minzolini è arte concettuale. Nei dettagli non si nasconde nulla: non è mica Dio. Solo un fatto estetico: l'imminenza di una rivelazione che non si produce. Queste cose devi guardarle. Come un guardiano di polli renitente, che quando scrisse di libri e muraglie si immaginava cieco (era solo una finzione premonitrice).
Allora "the horror… the horror…"? La battuta sarebbe davvero azzeccata, credo, ma solo se a pronunciarla fosse un indolente, annoiatissimo George Sanders. Sogni d'oro, sweet cesspool.


1) E in auto c'è anche una bambina di otto anni. A proteggerla da Avatar, che ha già visto con me, ci pensa Bondi. Ma chi la salverà, se nel futuro dovesse ricordare, suo malgrado, "questo carrello contro natura"?

domenica 14 dicembre 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

XIX — WHEN I'M OUT IN THE STREETS

Indovina il titolo del film e vinci quattro oh ("I walk the way I wanna walk"). Se non hai trovato, mercoledì aggiungerò un pugno di secondi al filmato e dirò un oh di meno perché "I talk the way I wanna talk". Venerdì la soluzione sarà talmente facile che dirò solo oh oh.



P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio Altamante Fruzzetti e possono essere consultate qui. Se vuoi puoi attraversare la strada e andare a giocare dai guerrieri della notte.

ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA DOMENICA 14 DICEMBRE ALLE 19.03.
LA SPLENDIDA SOGGETTIVA È STATA RICONOSCIUTA DA "AFASOL", NUOVO BENVENUTO IL CUI NOME EVOCA UNA BOMBOLETTA CHE POTREBBE AVER INVENTATO JOKER. SI RITROVA TERZO CON UNA SOLA POZIONE.
IL TITOLO DA INDOVINARE ERA "LE FOLLI NOTTI DEL DOTTOR JERRYLL" (TITOLO ORIGINALE: "THE NUTTY PROFESSOR) DI JERRY LEWIS. TEMPO PERMETTENDO, TI FARÒ VEDERE L'INTERA SOGGETTIVA, DEGNA DI "PROFESSIONE: REPORTER" (BUM).
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 21 DICEMBRE. LA POSTA IN GIOCO E LA VALUTA SONO ANCORA IN FORSE.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
bianca: 10 oh
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arcomanno: 6 oh
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Afasol: 4 oh.
malvino: 3 oh.
andrea: 2 oh
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desaparecida: 2 oh
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orsopio: 1 oh
e mezzo.
rabbi: 1 oh
e mezzo.
adlimina: 1 oh
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