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sabato 14 gennaio 2012

Il naufragio

Il fonografo


Esiste dunque una musica che può essere suonata nell'acqua. Persino se l'acqua è assolutamente nera [e nera perché è rinchiusa in questa camerata, perché la catastrofe, o la disattenzione che ha allagato il locale, trasformando queste brande in palafitte, è impregnata della nostra idea del sudiciume, delle feci, della biancheria per terra che accompagna la nostra permanenza o il nostro sonno in un luogo chiuso - sporchiamo molto (la nostra specie sporca, di continuo, ogni sorta di biancheria, dato che non mangia i propri escrementi), e, nei primi anni del cinema, gli uomini che apparivano sullo schermo non facevano che sputare saliva o cicche di tabacco sul pavimento]. Qui, l'acqua trasuda e, come grasso che cola, stilla la stanchezza da questi personaggi sconosciuti. L’allagamento, poi, è il risultato della più completa disattenzione. Se abbiamo visto l'acqua salire in mezzo al ronfare di questi coscritti, vuol dire solo che a tradirli è stato il sonno.
Dunque, ci toccherà abitare in eterno questo nuovo spazio, e questa scenografia del diluvio, rinchiusi in una camerata militare. Sta tutto qui il burlesque? o la sua legge? Cioè: l'azione è tenacemente normale, semplicemente ostinata in un universo polimorfo, perché questo universo è fatto del solo scatenarsi degli elementi, e perché lo sconvolgimento dell'ordine cosmico qui è paragonabile alla turbolenza in una stanza. È qui che monteranno le grandi maree, si abbatterà il tuono, pioverà farina o la terra tremerà - perché è innanzi tutto qui che la luce si decompone. Per esempio, Charlot ci chiama a testimoni del fatto che, nonostante tutto, egli ha agito in modo corretto, in conformità con quanto aveva appreso poco prima: lui ha saputo qualcosa sulla disposizione degli oggetti intorno a sé, sulla consistenza della materia; lo ha saputo appena prima, ma era già un'altra età del mondo. Nel frattempo, la polvere si è trasformata in oceano, i tegami si sono messi a nuotare, le sedie a galleggiare, perché, nel suo sonno agitato, uno di quelli che dormiva, sornione, ha sentito il bisogno di urinare.

Scorgiamo la tromba di questo grammofono, ma sarà in grado di diffondere dei suoni? di riprodurre delle melodie? di far sentire la distanza sonora, lo scarto indefinito che separa due stati del mondo? e farà ascoltare come una forma il mondo sonoro di un diluvio prigioniero di quattro mura, cioè nient’altro che il mondo sonoro di tutto il cinema muto? Questo rumore non è forse l'eco amplificata del secco ronzio del proiettore: le intermittenze e i salti di fotogramma? Questo suono che non udremo mai rientra nell'immagine come una serie di movimenti burlesques a ciclo chiuso. Per ora gli tocca nuotare.

Jean Louis Schefer, L’uomo comune del cinema (traduzione di Michele Canosa), Quodlibet, Macerata 2006, pp. 58-9.

venerdì 25 marzo 2011

La carte routière


Le film de Buster Keaton ne donnait cette image que de façon fugitive ; il ne donnait que son installation, non son état ou sa durée.
C'est donc ici un tout autre champ et une sorte de compensation du scénario (et de cette perte d'image qu'est la possibilité narrative) dont la suite nous est donnée. C'est fantasmatiquement la durée saisie par un corps immobile ; une telle durée ne peut se representer, elle se résout à la production de quelques attributs géants du corps. Ainsi la carte routière n'est plus faite pour dessiner (pointiller) un territoire, des trajets, une échelle qui ne représenteront pas cette anatomie invisible. C'est pourtant ce qui dissimule ce personnage qui devrait le guider… Cette lecture est absurde, elle est sollicitée, elle interprète ? elle n'est pourtant que l'image, elle n'est, de plus, que la solitude de cette image.

Que s'est-il passé ? l'isolement et la destination de cette image — nul n'eût jamais songé (ni réussi) à photographier aussi malicieusement un parent ou un ami — sont une espèce de produit : il a fallu qu'un préalable de mouvements ou d'actions soit encore sensible en elle, que tout un complot d'aventures s'y devine déjà pour que nous la percevions comme un isolement momentané et comme cette suspension de signification dans laquelle notre lecture peut ici rôder et s'affoler dans la composition de ses éléments essentiels. Tout le sens et la force motrice du film disparus ne nous laissent ici (et nous accordent déjà) que la possibilité d'y contempler du destin. Celui-ci n'est pas narratif, et tout juste pouvons-nous soupçonner qu'il l'ait été ; il est physique. Que s'est-il passé ? il reste pour nous ce personnage pourvu d'un poids et d'une surface de papier. C'est donc l'assurance qu'il est lisible, qu'il est caché, que rien n'est écrit sur lui, qu'il est donc indéchiffrable. C'est, avant même, la certitude que cela est un jeu, que ce poids de papier n'est pas destiné à durer mais que nous seuls pourrions lire la carte dans laquelle il s'est collé comme un insecte. Un personnage a été englouti par ce planisphère, l'Amérique dessine vaguement un sexe à ce corps plaqué à du papier tue-mouches.
Jean Louis Schefer, L'Homme ordinaire du cinéma, Paris 1997 (prima ed. 1980), pp. 66-7. (Traduzione eroica di Michele Canosa, Quodlibet, Macerata 2006, ma dannazione non riesco proprio a ritrovare il libro nel caos domestico.)

venerdì 15 maggio 2009

Dacci un Taglio

scampagnata.jpg

La somiglianza


Se la “scampagnata” è un genere, la scena che vediamo non è forse un compimento del genere? Queste due specie di oche che non sanno “accomodare” bene i propri occhi sarebbero (come tutti i presenti) la metafora resa visibile, trasformata in specie, delle signorine impacciate, scioccherelle e male in arnese – posso sempre immaginare di veder comparire, un giorno o l’altro, delle cugine di provincia che gli somigliano.
Questo quadro, dopo tutto conforme a un’arte – infatti basta che sia una composizione, che organizzi dei personaggi in determinate pose, che sistemi una scenografia —, forse è imbarazzante per l’eccesso stesso degli elementi accessori. Questo quadro – più che tutta la pittura dove la figura appare solo perché è stata in precedenza deformata per apparire — non è inverosimile: è la somiglianza stessa.
Il quadro somiglia perché ci fa orrore, oppure perché lo riconosciamo? E lo riconosciamo perché non vi siamo ancora entrati; altrimenti non potremmo identificarlo, e sarebbe lui a sceglierci.
La sua somiglianza è dunque qualcosa di ermeticamente chiuso in se stesso? Questo mondo – qui sta la sua follia – si somiglia all’infinito: qui sta il suo orrore.
Più che uomini e donne anormali, in queste interminabili infanzie vediamo degli animali lievemente eccentrici. Dimenticavo quella specie di pollo che se ne sta sdraiato in primo piano a fare un po’ di musica. Quest’uomo è troppo magro da mangiare? non si regge sulle sue esili gambe e così è destinato a passare da una barella all’altra, fino a esaurire la sua magrezza? tenta di ammaliare col suo strumento tre vampiri imbecilli o ha già trasformato altri mostri in questa trinità dischiusa dalla sua impotenza? Il tronco umano riserva a se stesso una parte che si trova nel Giudizio universale di Signorelli, cioè un colore aggiunto a questa scena dall’interno.
Certo, tutto questo non designa nessuno fuori dall’immagine, senza però riuscire a mostrarci “degli altri”; in maniera implacabile, in maniera solitaria fino al suono di un’armonica che percorre la tetra campagna, questa immagine racchiude in sé una somiglianza.

Jean Louis Schefer, L’uomo comune del cinema (traduzione di Michele Canosa), Quodlibet, Macerata 2006, p. 51.

giovedì 29 gennaio 2009

Bistecche 6

… la madre di quei marmocchi aggrappati ai cenci, il catino smaltato dove si lava il seno, l’adolescente che fuma come un adulto, le coperte militari sui letti dei bambini, diversi bambini per letto, e l’idea che tutti hanno fame…
Jean Louis Schefer — ricordando un’immagine dei Figli della violenza (Los Olvidados, 1950) di Luis Buñuel —, L’uomo comune del cinema (traduzione di Michele Canosa), Quodlibet, Macerata 2006, p. 110.


lunedì 8 dicembre 2008

Jean Louis Schefer o la solitudine dell'immagine

La vita criminale di Archibaldo de la Cruz trae origine da un ricordo d’infanzia. Non serve un motivo, basta un motivetto: quello del carillon, da lui azionato mentre la bella governante osservava dalla finestra una sommossa popolare. Le rotelle del giocattolo innescano magiche causalità, complice l’ossessione: la ballerina-automa ruota su se stessa, sgranando la melodia della nevrosi; l’irrefrenabile erotismo di un impulso omicida attraversa la mente del bambino; carica della polizia, colpi di pistola; una pallottola colpisce la governante, che si accascia al suolo, irrigidita in una posa lasciva. Da quella notte, Archibaldo non penserà ad altro che a trasformare quel primo caso in necessità, a volgere l’affetto feticista in azione omicida, a farsi protagonista dei propri desideri di amore e morte. Ma il destino seguiterà a beffarlo, votandolo a una carriera di incolpevole omicida seriale, disseminata di morti violente senza delitto né castigo, e condannandolo alla suprema umiliazione del lieto fine. Estasi di un delitto, Luis Buñuel, 1953.

Il sonno del signor Ferrand è tormentato da un incubo, il cui segreto viene svelato progressivamente: è notte e la città dorme; il silenzio è rotto da un ticchettio regolare; il rumore si fa sempre più vicino, sempre più minaccioso. È prodotto da un bastone bianco, che tasta affannoso il selciato. Chi lo impugna è cieco: senz’altro lo stesso Ferrand, bambino. Ma è solo una finzione criminale: il bastone passa attraverso la grata di un cinema chiuso, l’estremità ricurva serve ad avvicinare il carrello delle fotografie del film Quarto potere. Il bambino stacca le immagini ad una ad una, le infila sotto il braccio e fugge a gambe levate, passando davanti a un negozio specializzato in apparecchi acustici. Ferrand si sveglia di soprassalto. Ora fa il regista, ed è sordo. Effetto notte, François Truffaut, 1973.



Ne L’uomo comune del cinema, lo storico dell’arte Jean Louis Schefer — allievo di Barthes e autore di numerosi saggi di semiotica figurativa, dedicati a Paolo Uccello, al Correggio, a El Greco, a Goya o a Chardin — perpetra per trentaquattro volte un analogo delitto, riesumando dal tessuto della propria memoria altrettanti fotogrammi: immagini strappate a un’arte dove l’illusione del movimento serve a mascherare “l’origine del crimine”, ossia il tempo, trasformando lo spettatore in solito sospetto. È un piccolo classico della letteratura cinematografica, e il lettore italiano ha dovuto aspettare un quarto di secolo per poterne finalmente leggere la traduzione dal francese, una vera e propria impresa condotta da Michele Canosa per le edizioni Quodlibet (Macerata).
A metà strada tra il saggio e l’autobiografia in absentia, Schefer ruota attorno all’esperienza della proiezione cinematografica, e fa della stessa proiezione una ruota (o una sfera) il cui centro invisibile coincide con l’occhio dello spettatore. La fonte di luce del libro si trova nella prima parte, appunto dedicata ai fotogrammi cinematografici, ciascuno di essi accompagnato da un testo breve che sembra richiamarsi alla poesia in prosa o, più precisamente, al blasone. Non sono quasi mai foto posate, ma scatti che in origine si inserivano in sequenze drammatiche, comunque dinamiche. Sono dunque fotografie rare, sconosciute, non sempre di qualità eccelsa, in un bianco e nero spesso sgranato. Il testo che le accompagna non è mai infondato, eppure non si limita a commentare le immagini: sembra piuttosto produrle, come se il fotogramma non preesistesse all’“uomo comune”, ma fosse il prodotto, lo “scatto” del ricordo, incerto tra una promessa di azione e la dissolvenza. La memoria dello spettatore-Schefer diventa in tal modo una camera oscura, e quel che in esso è restato imprigionato (impressionato) “non è il contrario dell’oblio, piuttosto il suo rovescio” come diceva Chris Marker nel film Sans soleil.


L’esperienza dello spettatore è stata spesso paragonata a quella di una persona che sogna. E se il sonno della ragione (o della memoria) genera mostri, non sorprende allora che tutte le immagini di Schefer abbiano il sapore di un incubo. I fenomeni da baraccone in Freaks di Tod Browning, capitanati dal torso umano Prince Randian: “Questo coso è ancora un uomo? già un mostro? Un uomo non coincide forse col suo viso, cioè lì dove può essere indifferentemente sublime e atroce? Non so perché questo personaggio di Freaks condensato o ridotto a un solo membro in fasce (un membro e non un organo), a un manicotto rampante, come ci mostra la fotografia, evochi l’idea husserliana di quella curiosa sottrazione dei fenomeni che permette di raggiungere l’essenza”. E la Mummia sbrindellata di Terence Fisher: “Questa bambola gigantesca, fatta di stracci, di bende (tutto il suo corpo è una corazza purulenta), diventa, fin nei suoi occhi fasciati, uno sguardo della putrefazione che condanna il mondo”. Ma anche il volto incipriato della Nanà di Jean Renoir: “Questo essere non è desiderabile (porta persino la maschera dell’odio verso il desiderio), non è semplicemente mai sazio: è un essere che può tramutare il mondo intero in cibo”. Persino Stanlio & Ollio, Buster Keaton o Charlot sono mostruosi, quando la mente li proietta alla luce di una pallida lampadina nuda, nella cantina dove il bambino Schefer, futuro “uomo comune del cinema”, aspettava che passassero i bombardamenti, la guerra e l’infanzia: “Eppure è solo l’immagine, anzi di più: è la solitudine di quest’immagine”.
E se Schefer decompone e riduce un intero film all’infelicità senza desiderio di una sola immagine, forse è anche perché l’immagine stessa è chiamata alla decomposizione della pellicola, a un destino di disfacimento: “Ma da dove vengono i film?” si chiede Canosa nella postfazione: “e, poi, dove vanno? Comunque sono andati, quanto dire: sono film di un altro tempo (l’infanzia), ma anche spersi, consumati, ormai corrotti. Quel che resta è polvere”.
Un nulla? No: un (non)nulla. Ma se è così, allora perché Archibaldo de la Cruz afferma che il suo ricordo infantile, delizioso e delittuoso, gli è rimasto impresso nella memoria “come fosse una fotografia”?

martedì 2 dicembre 2008

Dacci un Taglio

Il cinema, persino il cinema muto, non è mai riuscito ad essere un cinema completamente silenzioso: si tratta più che altro di un cinema assorbito dal mormorio (per esempio, le didascalie lette a bassa voce ai bambini nel corso della proiezione). E attraverso il silenzio bisbigliato nelle prime immagini, un ritorno di questa polvere nel nostro intimo, di questa luce, di questi corpi grigi; come se un bambino, seduto dentro di noi, ci tenesse ancora per mano.
Jean Louis Schefer, L’uomo comune del cinema (traduzione di Michele Canosa), Quodlibet, Macerata 2006, p. 87.