domenica 2 marzo 2014

Lo splendore del nulla

ALAIN RESNAIS, 3/6/1922 - 1/3/2014

Coincidenza, proprio la settimana scorsa ho mostrato a mia figlia Smoking, No Smoking e Parole, parole, parole… (intraducibile il titolo francese On connaît la chanson, anche se si sarebbe potuto azzardare un "Questa poi la conosco pur troppo").
Ritrovo un articolo che scrissi anni fa per un giornale. Uscì lievemente accorciato. Una retrospettiva e la pubblicazione di una sceneggiatura per un film incompiuto servivano da esili pretesti.
Altra coincidenza, fu in qualche modo questo articolo che mi convinse ad aprire il blog.


Hiroshima mon amour inizia con due corpi allacciati: un viluppo inestricabile di braccia nude, poi coperte di sabbia, poi carbonizzate dalle radiazioni. Lui, giapponese: “Non hai visto niente, a Hiroshima. Niente”. Lei, francese: “Ho visto tutto. Tutto”. Era il 1959, anno cruciale della storia del cinema, ammesso che il cinema abbia una storia. “Tutto” e “niente” sono pronomi di Marguerite Duras; ad Alain Resnais spetta l’onere del verbo “vedere”, ammesso che qualcosa si possa ancora guardare, tra queste immagini d’amore e d’orrore: “Guardare bene è una cosa che si impara” dirà ancora Lei. Resnais ha trentasette anni, e Hiroshima è il suo primo lungometraggio. Ma era dal 1947 che realizzava cortometraggi, e il più celebre di essi, Notte e nebbia (1955), già fissava la cinepresa sul luogo inguardabile per essenza, ossia Auschwitz.
Dal 16 gennaio al 3 marzo il Centro Pompidou ospita la prima retrospettiva integrale della sua opera a cura di François Thomas, mentre le edizioni Capricci pubblicano finalmente la sceneggiatura di Frédéric de Towarnicki Les Aventures de Harry Dickson: un progetto che Resnais tentò invano di realizzare nel corso degli anni Sessanta e che secondo Henri Langlois “avrebbe potuto cambiare il destino del cinema francese”.
Dopo gli omaggi a Scorsese, a Godard, a Erice e Kiarostami, la retrospettiva si inscrive in una sempre più vivace politica cinematografica del centro culturale parigino. Come e cosa ha imparato a guardare Resnais, in sedici film (quasi tutti restaurati) e una ventina di rarissimi e preziosi corti e documentari, tra cui le Visites d’atelier (1947) dei pittori Hans Hartung e Óscar Domínguez, il Van Gogh (1948) raccontato esclusivamente attraverso i quadri (in bianco e nero!), un Gershwin (1992) o l’esilarante Chant du styrène (1958) sul plastificio Péchiney, con testo di Raymond Queneau tradotto da Calvino: “Dimmi, petrolio, è vero che provieni dai pesci? / È da buie foreste, carbone, che tu esci? / È il plancton la matrice dei nostri idrocarburi? / Questioni controverse... Natali arcani e oscuri... / Comunque è sempre in fumo che la storia finisce”.
In fumo, in notte, in nebbia, in niente. Il cinema di Resnais, anche quando adotta un tono ludico e leggero, è sempre minacciato dallo schermo nero: metaforicamente, come le molteplici biforcazioni narrative di Smoking e No Smoking, che finiscono tutte al cimitero; letteralmente, quando l’immagine nera e prolungata fino all’insostenibile irrompe e spezza più volte L’Amour à mort, in qualità di impossibile rappresentazione dell’aldilà. Ma a ben guardare (o a guardare bene), anche in quel film qualcosa danza, nel buio della sala: un fioco pulviscolare di luci microscopiche. Forse quelle luci sono ancora vite, o memorie di vite, forse nella lugubre oscurità battono ancora Cuori, come suggerisce il titolo dell’ultima, gelida commedia. O forse Resnais, finissimo intenditore della musica del ventesimo secolo, pensa a una polvere di stelle, allo Stardust di Hoagy Carmichael. Comunque sono non-nulla.
Se filmare tutto è impossibile e il nulla è inguardabile, bisogna fissare l’occhio su qualcosa. E se il francese non fosse parco di diminutivi, subito la squisita ed esuberante Sabine Azéma, attrice prediletta nonché compagna del regista, si metterebbe a salticchiare correggendoci come una maestrina in pensione: “no, non qualcosa! piuttosto qualcosina!”. O magari preferirebbe canterellare Ces petits riens, un po’ sbigottita di ritrovarsi con la voce di Serge Gainsbourg: “Mieux vaut ne penser à rien / Que ne pas penser du tout / Rien c’est déjà / Rien c’est déjà beaucoup”. È proprio con Azéma, Pierre Arditi e André Dussolier (e da qualche anno uno stupefacente Lambert Wilson) che Resnais ha portato alla perfezione il suo cinema inteso come una bottega, un artigiano atelier dove tutti, dallo scenografo Jacques Saulnier ai direttori della fotografia Sacha Vierny o Renato Berta, concorrono a fabbricare fragilissimi nonnulla.
Un nonnulla, “c’est déjà beaucoup”: è già molto. Ma basta per essere vivi? Ripensando al secondo film di Resnais, il dubbio è legittimo. “Eppure, improvvisamente, in questa greve notte d’estate, i campi erbosi sulla collina si sono riempiti di gente che balla, che passeggia, che fa il bagno nella piscina, come villeggianti sistemati da molti giorni a Los Teques o a Marienbad.” Ecco, Marienbad. Anche se la citazione è tratta dall’Invenzione di Morel, il romanzo che Adolfo Bioy Casares scrisse nel 1941 e che Alain Robbe-Grillet riconobbe quale influenza principale della sua sceneggiatura de L’anno scorso a Marienbad. La trama del racconto di Casares è nota: un naufrago approda su un’isola abitata da persone che si ostinano a non vederlo. Dopo essersi innamorato di una fanciulla, scopre che tutti gli esseri dell’isola sono proiezioni cinematografiche in carne e ossa votate a ripetere in eterno una settimana di spensierate vacanze del 1924, e decide di proiettarsi a sua volta nel film, ben sapendo che se tale operazione sarà forse “capace di riunire le presenze disgregate” (o i tanti cuori infranti dei film di Resnais), essa non è affatto incruenta. Alla fine, il naufrago, irradiato dal diabolico proiettore, attende la morte guardando il simulacro di se stesso simulare una commedia romantica. E sconsolato osserva: “La mia anima non è passata, ancora, nell’immagine”. La speranza dell’amour fou è tutta inscritta in quell’“ancora” chiuso tra due virgole.
Amour fou, o Amour à mort: a volte si ha l’impressione che i personaggi di Resnais vivano ancora nell’isola di Bioy Casares, o a Marienbad, nella villa di Robbe-Grillet, immemori di sé o ricordando passati artificiali, come i replicanti di Blade Runner o come Jack Torrance nell’Overlook Hotel di Shining, inchiodato alla fine del film nella fissità di una fotografia che testimonia di un eterno ritorno del tempo e della memoria. O ancora, tornando a Resnais, come in Muriel, il tempo di un ritorno (1963), il cui titolo francese, Muriel ou Le Temps d’un retour, suggeriva sottilmente l’identità (o il conflitto) tra tempo e individuo. Un destino agghiacciante, stranamente orchestrato con sovrana leggiadria dall’atelier di Alain Resnais. Ma forse la contraddizione è solo apparente, forse aveva ragione Bioy Casares, quando ricordava: “L’eternità rotatoria può sembrare atroce a uno spettatore; è soddisfacente per i suoi attori. Liberi da cattive notizie e da malattie, vivono sempre come fosse la prima volta, senza ricordare le precedenti”. È così che l’eterno ritorno si trasforma in ritornello. E per vivere non serve un motivo: basta un motivetto.
Non sempre Resnais ha raccolto l’unanimità dei consensi. Un critico intelligentissimo quale Jacques Lourcelles definì L’anno scorso a Marienbad “uno dei film più insani che il cinema abbia prodotto”, ma gli si può opporre un memorabile articolo di Luc Moullet, apparso sui “Cahiers du cinéma” ai tempi di Smoking/No Smoking, dove l’opera di Resnais si illumina dello “splendore del nulla”: polvere di stelle, attorno a cui gravitano personaggi costretti a subire non tanto la vita quanto il suo copione. O il suo “romanzo”. O la sua operetta. O la sua canzonetta.

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