lunedì 23 giugno 2008

Orson Welles — Un fogliettone

III
1939—1941: POTERE ASSOLUTO


La mia carriera è iniziata con un falso, l’invasione dei marziani.
Sarei dovuto andare in prigione.
Non posso lamentarmi.
Sono finito a Hollywood.
Orson Welles in F for fake-Verità e menzogna (Orson Welles, 1974).


Nell’estate del 1939 la casa di produzione RKO riuscì ad ammaliare il giovane prodigio, proponendogli un contratto unico nella storia di Hollywood, che gli permetterà di produrre, realizzare, interpretare e montare il suo primo film in condizioni di libertà totale. Welles aveva solo ventiquattro anni e nessuna esperienza cinematografica: mai un regista era riuscito a ottenere tanto, e forse la professione non gli perdonò una simile fortuna.
Tra i progetti presi in considerazione da Welles e accantonati, il più serio fu un adattamento di Cuore di tenebra, tratto dal racconto di Joseph Conrad. Memore dell’esperienza radiofonica, Welles avrebbe interpretato Kurtz, ma anche il narratore, Marlow. Il film doveva essere girato interamente in soggettiva, dal punto di vista di Marlow, che lo spettatore avrebbe intravisto solo grazie a giochi di riflesso. Il procedimento era del tutto innovativo, ma un po’ laborioso; anni dopo verrà attuato da Robert Montgomery in Lady in the Lake (1947; La donna nel lago), applicandolo al personaggio del chandleriano detective — nomen omen — Philip Marlowe. Cuore di tenebra diventerà il primo titolo della lunga filmografia fantasma di Welles.

Orson Welles lavora al trattamento di Cuore di tenebra.
Dietro di lui, l'enigmatica equazione tra il disegno di un occhio e la lettera "i".
Traducendo "i" con "io", si ottiene una metafora della soggettiva cinematografica.

Nel febbraio del 1940 Welles assunse Herman J. Mankiewicz come co-sceneggiatore: il suo primo film avrebbe raccontato la storia di un magnate della stampa. Si intitolava Orson Welles* 1, più tardi mutato in American: uscì il 1° maggio 1941 al Palace Theatre di New York con il titolo Citizen Kane. La critica era pronta a stroncare la presunzione giovanile del regista, ma il film fu giudicato un capolavoro da quasi tutti, e nel complesso il pubblico lo accolse trionfalmente.
Ciononostante, Quarto potere fu un fiasco colossale. La ragione è nota: nel narrare la vita di Charles Foster Kane, dall’infanzia alla morte, Welles e Mankiewicz si erano parzialmente e impudicamente ispirati alla figura di un magnate dell’epoca, William Randolph Hearst, poco sensibile alle sottili distinzioni tra verità e finzione, e tanto potente quanto permaloso. Dopo aver cercato di ostacolare le riprese, Hearst affidò alla sua regina dei pettegolezzi, Louella Parsons, il compito di orchestrare una campagna stampa violentissima (mentre Welles era difeso dalla rivale Hedda Hopper), e tentò persino di riacquistare il negativo per bruciarlo. Il film fu girato, ma in fin dei conti, tanta ostile perseveranza ottenne l’effetto desiderato: la RKO fu intimorita dalle pressioni di Hearst, che possedeva molte sale disseminate nel paese. Le minacce e i ricatti fecero cedere i distributori indipendenti, che preferirono non proiettare il film. Malgrado i plausi di critica e pubblico, Hearst riuscì così a distruggere il destino commerciale di Quarto potere. Il film ottenne nove nominazioni all’Oscar (comprese quelle per miglior film, miglior regista e miglior attore) e ne ricevette uno soltanto, condiviso con Mankiewicz, per la migliore sceneggiatura originale. In Europa le cose non andarono meglio. A causa della guerra, il film uscì quando il potere di Welles era ormai in rovina: in Francia, nel 1946 (dove fu stroncato da Jean-Paul Sartre, ma colpì André Bazin e una manciata di giovanissimi spettatori, che anni dopo lo osannarono nei “Cahiers du Cinéma” prima di diventare protagonisti della Nouvelle Vague); in Italia, nel 1948.


Quarto potere è la storia dell’inchiesta condotta da un uomo chiamato Thompson, redattore di un cinegiornale […], sul significato delle ultime parole di Kane morente. […] Reputa che le parole di un moribondo possano spiegare la sua vita. Forse è vero. Non scoprirà mai cosa intendesse Kane, ma gli spettatori sì. Le sue ricerche lo portano da cinque persone che conoscevano bene Kane — che gli volevano bene o lo amavano o lo odiavano a morte. Narrano cinque storie diverse, ciascuna parziale, di modo che la verità su Kane, così come la verità su ogni uomo, non può essere che il risultato della somma di tutto ciò che è stato raccontato su di lui.
Kane, ci viene detto, amava solo sua madre, solo il suo quotidiano, solo la sua seconda moglie, solo se stesso. Forse amava tutto ciò, forse nulla. Sta agli spettatori giudicare. Kane era egoista e disinteressato, un idealista, una canaglia, un uomo grandissimo e piccolissimo. Dipende da chi parla di lui. Non viene mai giudicato con obiettività, e lo scopo del film non è tanto la soluzione del problema quanto la sua presentazione.”
Sono parole dello stesso Welles, in un testo pubblicato il 14 febbraio 1941 su “Friday” e intitolato “Citizen Kane Is Not About Louella Parson’s Boss”.

È impossibile riassumere in poche righe l’importanza storica e artistica di Quarto potere. Dire che è in assoluto il film che maggiormente influenzò i registi a venire è insufficiente. Sarebbe più esatto affermare che è tuttora inammissibile che un cineasta possa debuttare senza averlo visto almeno una volta. In meno di due ore, Welles sconvolge la struttura narrativa, i tempi del racconto, le tecniche di ripresa e il montaggio. La trama inizia con la morte del protagonista interpretato dallo stesso Welles, e procede a ritroso in modo frammentario, seguendo le testimonianze raccolte da un giornalista alla ricerca del significato dell’ultima parola pronunciata da Kane: “Rosebud”.


Ma è chiaro che la parola misteriosa è solo un pretesto per raccontare settant’anni di storia americana attraverso lo specchio deformante di un personaggio emblematico e contraddittorio, di cui nulla viene nascosto allo sguardo e alle orecchie, in un incrociarsi solo apparentemente caotico di opinioni, aneddoti, falsi cinegiornali e pettegolezzi che percorrono (e spesso ripercorrono, modificando l’angolatura) tutti i lati possibili della personalità di Kane, grazie a una macchina da presa tanto indiscreta quanto onnipotente, capace di sfidare le leggi spazio-temporali, e di giudicare con la semplice forza dell’obiettivo. Si è parlato molto dei numerosi prodigi tecnici del film: della fotografia di Gregg Toland, dell’uso di obiettivi ideati per l’occasione, che deformano la prospettiva esaltando una profondità di campo dove ogni dettaglio, dal primo piano allo sfondo, è ugualmente a fuoco in lunghi e complicatissimi piani sequenza; dei soffitti costruiti appositamente nei teatri di posa e valorizzati da audacissime angolature dal basso, miranti a restituire la megalomania di Kane e insieme a “schiacciarla”; di una colonna sonora ricchissima, memore delle sperimentazioni radiofoniche e splendidamente accompagnata dalle musiche di Bernard Herrmann. Gli storici hanno ormai provato ampiamente che ognuno di questi aspetti, preso singolarmente, aveva conosciuto precedenti nella storia del cinema. A rivedere Quarto potere, oggi la vera violazione delle regole cinematografiche allora vigenti sembra nascondersi nell’insieme del film, e più particolarmente nella palese intrusione della macchina da presa come vero protagonista, entità divina mossa da un’ambizione smisurata (e segretamente consapevole del proprio inevitabile scacco): raccontare la vita di un uomo.
Nelle ultime immagini, Welles disvelerà, per il solo spettatore e per un attimo appena, la “verità”, prima che le fiamme di un gigantesco forno la divorino, e forse il celebre finale (secondo molti attribuibile a Mankiewicz) è l’unica caduta di tono del film. Ma in fondo, persino quest’informazione riservata non era che un tassello sconnesso del puzzle: che Rosebud fosse lo slittino d’infanzia del magnate non è poi determinante, ai fini della storia. Chi fosse, realmente, Charles Foster Kane, non lo sapremo mai. Forse nulla, come suggerisce il fumo nero sprigionato dal forno nell’ultima immagine.


(CONTINUA...)

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